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Conferenza droga
Agora' Agora - 8 maggio 1990
LA TERAPIA DELLA LIBERTA'

di Sergio Segio.

Gli anni '80 sono nati all'insegna della resa dei conti, della revanche, sui '70. A partire dalla spallata, elaborata sapientemente dai media, della marcia dei 40.000 alla FIAT è iniziata la progressiva e tenace demolizione dei valori e delle pratiche sociali che avevano avuto corso e si erano affermate negli anni '70 a cominciare, non a caso, da quelle dell'uguaglianza. Una resa dei conti che, purtroppo, non si esaurisce col finire del decennio.

Da mesi il dibattito politico indica il nuovo nodo-valore su cui si incentra ora la volontà di restaurazione: quella delle libertà e dei diritti individuali.

Nuova legge sulle tossicodipendenze, revisione di quella penitenziaria, prossimamente (ma, in alcuni casi, già oggi a livello di legislazione regionale) della legge 180, prima o poi della 194; se va bene si salverà forse il divorzio. Questo, almeno, par di leggere nelle intenzioni e nella attualità dello scontro politico. Scontro che va surriscaldandosi e determinando schieramento ( il che, fosse di merito - ma non sempre ne siamo sicuri - sarebbe certo un bene).

L'89 è finito nell'acceso dibattito sulla legge in materia di droga, il '90 comincia con quello sulla legge carceraria. In entrambi i casi si è discusso molto delle leggi e poco delle realtà sociali e dei valori culturali che vi sottostanno; si discute molto di droga e poco delle sue cause, si straparla di carcere e non di cultura della pena. E, ancor meno, si dice e capisce che si sta discutendo e che il conflitto ruota attorno ad una medesima questione: a un'idea della libertà, appunto. Ancora l'uscita - chissà quanto estemporanea - sulla necessità della pena di morte rimanda sempre a questo, oltre, presumibilmente e nascostamente, al tentativo di operare un do ut des nell'esame parlamentare delle due leggi.

Ma il contenzioso non è solo e principalmente politico: è di culture sociali. Circa le quali una ricognizione critica non può renderci molto ottimisti; poiché, a tutt'oggi, sono pesantemente riscontrabili i guasti e le eredità della copertura politica e culturale che il PCI ha operato in passato rispetto alle filosofie emergenzialiste, all'incultura giuridica, allo spregio dei diritti e delle garanzie: assumendosi la responsabilità - e per induzione e per omissione - di radicare ciò a livello di massa e di ossatura di partito (basti pensare a cosa culturalmente ha significato e introiettato, a livello sociale, la proposta dei questionari di segnalazione anonima antiterrorismo, ancor oggi politicamente rivendicata dai promotori e ricordata pesantemente in alcuni articoli in una "Talpa" del Manifesto; o basti leggere le cronache dell' Unità sul processo Calabresi). Ci si dovrà domandare perché una filosofia, diciamo così sbrigativa e ottusamente repressiva di ogni fenomeno di devianza e contraddizione sociale

è più forte e riscontrabile nel mercato popolare di piazza Vittorio piuttosto che in via Condotti.

C'è, insomma, un codice culturale comune e trasversale (politicamente e socialmente) che unisce e assimila la crociata contro il drogato, l'invocazione della forca e l'allucinazione orwelliana del controllo reciproco e della delazione anonima massificata. Lì, prima che a livello di schieramenti politici, si gioca il conflitto cui sembra preludere questo inizio di anni '90.

I problemi droga e criminalità sono i primi banchi di prova e la prossima cartina di tornasole. Per entrambi la risposta, privilegiata se non esclusiva, è quella del carcere. Di volta in volta e assieme: del carcere tradizionale, solido e riconoscibile nella sua materialità, di quello innovato, immateriale e diffuso, delle pene alternative e di quello, consustanziale, delle comunità terapeutiche. Che queste ultime siano risposta assimilata e assimilabile a quella del carcere non è, ovviamente, dato generalizzabile ma nemmeno estremizzazione del discorso. Non è casuale, difatti, che la legge (già la 685) voglia e veda la comunità terapeutica come 'alternativa' al carcere, come situazione omologa (dal punto di vista del controllo), ma più efficace (dal punto di vista della 'guarigione'). Come non è casuale che, spesso, il tossicodipendente preferisca rimanere o tornare al carcere dove l'invadenza e la manipolazione della propria individualità è minore ed il possesso sulla propria vita è - o può rimanere - solo

fatto fisico. In ogni modo il tossicodipendente vivrà (come chiunque) il carcere come violenza e, almeno inizialmente, la comunità come resa. Non nei confronti della sostanza, della quale, la maggior parte vorrebbe liberarsi ma nella accettazione di consegnarsi a meccanismi di coazione e spersonalizzazione opposti ma, in certo qual modo, simili a quelli della droga, pur senza essere, come quella, devastanti, con diverso segno di valore e di approvazione sociale ma che non risolveranno il suo problema. Che, generalmente, è quello di un disagio a vivere; rispetto al quale egli percepisce che - 'in cambio' dell'aiuto a liberarsi della sostanza - la risposta che la comunità potrà offrirgli - o imporgli - è quella omologante della negazione o, meglio, rimozione del presupposto eziologico del suo male a vivere. Cioè che è la vita, questo modo e queste forme sociali del vivere ad essere malate ed, anzi, la malattia, essendo la droga solo una - la più terribile e autodistruttiva - delle false risposte. Il tossicodi

pendente dovrà allora imparare a sostituire la risposta violenta e distruttiva dell'eroina con quella, ancora, della dimenticanza, ma dolcemente, senza più dibattersi e provare dolore. Gli oppiacei, sin dall'antichità, sono infatti usati come analgesici. Per allontanare il dolore il tossicodipendente imparerà invece ora, come tutti, ad usare l'accettazione del presente a delle regole dell'ordinato vivere sociale. Alla dipendenza dall'eroina sostituirà, in alcuni casi e luoghi, quella da una figura paterna e carismatica, di un posto in in una micro-organizzazione sociale, magari un po' arcaica ma dove tutto è netto, semplice, soprattutto regolato. La cura che gli sarà offerta sarà, per un verso 'omeopatica' (la terapia familiare), dall'altro traumatica (la didattica del divieto, del principio di autorità e di gerarchia, l'ergoterapia).

Gli sarà curata l'anima con violenza e con amore (o con entrambi), a seconda del caso e dei luoghi. Sinchè guarirà e, molto probabilmente, diventerà lui stesso guaritore.

Insomma, il tossicodipendente è - e sarà sempre più vittima di un parodosso: lo si vuole punire e dunque, necessariamente, lo si giudica capace di scegliere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; pure e assieme lo si vuole malato, incapace di intendere e di volere, tanto da doversi consegnare, privo di diritti, a chi deciderà ogni cosa in sua vece.

Si vuol dunque che le comunità abbiano la stessa funzione sociale del carcere, avendone molte volte già le regole (e non sempre a fini terapeutici e in ogni modo senza alcun controllo). A fronte di chi soffre, di chi è svantaggiato socialmente, ancora e sempre, non si riesce ad immaginare altro che la normalizzazione coatta.

In questa luce le comunità - specie nell'attuale proliferazione incontrollata - sono una medicina amara e rischiosa. Così come la legalizzazione della droga sarebbe male minore ma non soluzione. Soluzione - per utopica e astratta che la si voglia considerare - che sta necessariamente tutta dentro l'orizzonte della trasformazione della società, dei suoi valori, delle sue culture, delle sue forme di relazione e organizzazione.

Allo stesso modo, ma più disillusamente, opera il carcere. Esso, pur contunuando a mantenere la facciata insostanziale (e ipocrita) della ideologia rieducativa e trattamentale, a volersi macchina che produce guarigione, altro non è che contenitore di disagio, sottrazione alla vista di particolari contraddizioni sociali. Di qualche decina di migliaia di vite ricorrentemente ostaggio del gioco, un po' sadico, tra riforma e controriforma: un gioco impari giacché, al solito, per fare le riforme occorrono 10 anni, per la controriforma e le leggi speciali basta una settimana. Ed è ancora e sempre qui il nocciolo: nell'assenza di una cultura, socialmente affermata, della libertà e dei diritti, nel suo non aver peso e corso politico. Allora, nelle istituzioni chiuse, inevitabilmente non si educa alla e con la libertà, ad un uso responsabile e autonomo di essa, ma quella viene identificata come causa ed occasione del male. Non a un di meno, a una bassa qualità, di libertà vien fatta risalire la radice della 'devianza

', ma ad un suo eccesso.

E' attorno a questa contraddizione tra meno ed eccesso che si gioca, in realtà, la battaglia culturale dei prossimi anni e le risposte al disagio di vivere e ai fenomeni cui esso dà luogo.

 
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