AIDS NEI PENITENZIARI E SCREENING OBBLIGATORIO
(continuazione del dibattito in corso)
Il problema dell'infezione da Hiv in carcere è senza dubbio tra i
più drammatici ed urgenti. Secondo i dati della Direzione Generale
degli Istituti di Prevenzione e Pena , su 29.987 detenuti
sottoposti nel 1989 ad indagini sierologiche per l'accertamento
dell'infezione da Hiv , sono 4.618 (15,4%) i detenuti risultati
sieropositivi asintomatici, 1.144 (3,8%) i detenuti in fase LAS
303 (1%) quelli in ARC e 125 (0,45) i casi di AIDS conclamato.
Come LILA ci siamo più volte pubblicamente espressi contro
l'obbligatorietà dell'esecuzione del test Hiv nelle carceri,
iniziativa che giudichiamo pericolosa, discriminatoria e di scarsa
o nulla utilità a fini epidemiologici, preventivi e di promozione
della medicina di comunità. Infatti l'art. 32 della Cost. e l'art.
33 L.833/78 escludono categoricamente la possibilità di
trattamenti sanitari non volontari per la patologia in oggetto
(come del resto ribadito dalla L.135/90), tanto più selettivamente
rivolti a specifici gruppi di popolazione (i cittadini detenuti).
In tal senso si è più volte autorevolmente espressa la stessa Dms
(cfr. la risoluzione del 16-18/11/1987), censurando inoltre ogni
pratica discriminatoria verso i sieropositivi dentro e fuori il
carcere, compreso l'isolamento carcerario ; tale permane poi
l'orientamento del ministero della Sanità e della Commissione
Nazionale Aids. In assenza di una terapia curativa di reale
efficacia, ed essendo ancora sub judice la definitiva valutazione
dell'impiego di zidovudina ad alto rischio, ci chiediamo quale
possa essere l'utilità di una indagine tendente a determinare
"l'incidenza ed evoluzione della malattia, minando gli interventi
terapeutici".
Ci sembra poi da non sottovalutare il problema dei falsi positivi,
senza tener conto dell'esistenza del periodo finestra, che inficia
la validità del dato di negatività e della conseguente necessità
di ripetere indefinitivamente la valutazione sierologica, costi
economici certo non indifferenti, visto il numero della
popolazione carceraria in continuo aumento.
In un ambiente quale quello carcerario, già pesantemente degradato
per cause vecchie e nuove (sovraffolamento cronico, carenze
strutturali e di organico, incremento dei fenomeni di
microcriminalità e dell'ingresso di tossicodipendenti, punibili in
quanto tali, dopo l'approvazione della L. 162/90) nessuna seria
opera di prevenzione è stata fino ad ora intrapresa. Misure di
prevenzione efficaci (distribuzione di profilattici, installazione
di macchine distributrici di siringhe) aldilà delle oggettive
difficoltà alla loro realizzazione, non vengono neppure prese in
considerazione per mancanza di volontà politica, pregiudizio
culturale, ipocriti fenomeni di doppia morale.
E' noto a tutti, infatti, che se le siringhe non possono entrare
nelle carceri l'eroina vi circola liberamente e vi è un fiorente
mercato di "affitto" delle poche siringhe disponibili : con quale
conseguenze è facile immaginare !!!
Vi è poi il problema della incompatibilità tra detenzione e status
di malato conclamato. Assolutamente problematica si è rivelata
l'applicazione delle Circolari n. 3267 del 3/6/1989 e n.3320/5770
del 25/7/1991 della Direzione Generale degli Istituti di
Prevenzione e Pena : ostacoli burocratici, palleggiamenti di
responsabilità tecnici intollerabilmente elevati, la situazione
attuale vede più di 400 persone in ARC/AIDS persistenti in stato
di detenzione.
A tale proposito la LILA, insieme a numerose associazioni operanti
sul carcere compresi gruppi auto-organizzati di detenuti con Hiv
ha contribuito all'elaborazione di una proposta di legge,
integrativa alla L.135/90, che intende dilatare l'area di
incompatibilità con la detenzione dai malati conclamati fino ai
sieropositivi sintomatici (gruppi III e IV secondo CdC).
Senza dimenticare il problema della carenza di una rete adeguata
di servizi di assistenza extracarceraria ed extraospedaliera per
coloro che hanno ottenuto la sospensione del provvedimento a causa
della condizioni di salute. Tale compito, vista la completa
latitanza dell'Istituzione pubblica e l'esistenza di situazioni
familiari assenti o inadeguate, viene sostenuta in larga parte
dalle realtà del privato sociale, con forze e mezzi largamente
insufficienti rispetto al fabbisogno.
Esiste un progetto per una attività di counselling pre e post test
e quale è il ruolo del medico penitenziario a questo proposito. E'
possibile assicurare una reale riservatezza ? Quali sono le linee
guida per l'organizzazione della prevenzione e la gestione della
sieropositività (semplificando e banalizzando: reparti separati o
strategie tendenti alla consapevolezza del rischio e alla modifica
dei comportamenti)? Quali i rapporti con i servizi di medicina del
territtorio ?
NORBERTO CESARANI (Milano)
Tratto da: "Il Medico d'Italia" 16/ott/1991 n.166
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