di Giovanni Valentini(La Repubblica, 15 ottobre 1991)
Con la diffusione degli ultimi dati ufficiali sull'"emergenza droga", non poteva ricevere un sostegno migliore l'avvio della campagna radicale per il referendum sulla legge 162 Jervolino-Vassalli che dall'ottobre scorso regola la materia. Nei primi nove mesi del '91, nonostante l'aumento dei controlli e dei sequestri, i morti per overdose sono stati 946: 120 in più rispetto all'intero anno precedente, con un incremento del 14,5 per cento. In questa tragica impennata, vanno compresi i tre suicidi in carcere che durante l'estate avevano già riacceso le polemiche intorno al provvedimento, costringendo il governo a emanare d'urgenza un decreto per attenuare il rigore e correggere l'automatismo punitivo della nuova disciplina, secondo i suggerimenti della stessa Corte di Cassazione.
Il referendum per il quale inizia ora la raccolta delle firme non punta ad abrogare tutta la legge, ma le norme che più furono contrastate in Parlamento e nel paese. In particolare, quelle che direttamente o indirettamente introducono sanzioni penali per l'uso personale di sostanze illecite, compreso il rigido riferimento alla cosiddetta "dose media giornaliera" che dovrebbe sancire lo spartiacque con lo spaccio e ha prodotto invece i maggiori equivoci e le più gravi disfunzioni. Di fronte al muro delle diffidenze e delle ostilità, bene hanno fatto i radicali a richiamare i precedenti storici del divorzio e dell'aborto: e bene farebbero a ricordarsene avversari e oppositori, tornando con la memoria a quelle battaglie civili che hanno modernizzato la società italiana, senza provocare i guasti che allora venivano paventati.
Contro la droga e i suoi effetti devastanti, l'iniziativa dei radicali si colloca nel filone dell'antiproibizionismo rilanciando la proposta della legalizzazione. Anche sul piano terminologico, l'ipotesi si distingue e si differenzia dalla liberalizzazione. Non si tratta, cioè, di rendere libero indiscriminatamente il consumo, ma di affrancarlo da un inutile quanto pericoloso divieto per sottoporlo a una disciplina legale sotto controllo sanitario. IL commercio clandestino dovrebbe essere così stroncato, con il colossale giro d'affari che ruota intorno allo spaccio e tutto l'esercito della criminalità grande e piccola, più o meno organizzata.
Per paradosso, è proprio l'esperienza fatta in Italia nell'ultimo anno con la legge Jervolino-Vassalli ad avvalorare questa prospettiva: il fallimento della 162 dimostra che la minaccia della punizione, fino all'arresto e alla detenzione, non basta e non serve a dissuadere i tossicodipendenti. Se il consumo ha continuato a crescere e sono aumentati i decessi, ancora più significativo è il fatto che il fenomeno è andato ulteriormente estendendosi anche dietro le sbarre, a conferma di un fortissimo potere di pentetrazione e corruzione. Tra gli stessi detenuti, inoltre, la diffusione dell'Aids trova spesso in tale situazione origine e terreno fertile.
E allora: se lo Stato non riesce ad impedire lo spaccio e il consumo di droga all'interno delle carceri, cioè nel luogo deputato alla reclusione, dove i cittadini sono sotto controllo ventiquattr'ore su ventiquattro, come può realisticamente riuscirci nelle strade, nelle piazze, nei parchi pubblici? Se non sono state sufficienti finora, qui e in tutto il mondo, le enormi risorse finanziarie e organizzative impiegate nella lotta alla droga, quanti altri stanziamenti economici, forze militari, giudici e poliziotti dovremo ancora impegnare in questa guerra senza speranza?
Ispirata da posizioni di liberaliso economico, con in testa soggetti tutt'altro che trasgressivi come il Premio Nobel Milton Friedman e il settimanale inglese "The Economist"; ripresa in Italia da uno schieramento politico-culturale d'orientamento laico e radicale; riproposta già negli anni scorsi dalle pagine dell'"Espresso", la campagna contro il proibizionismo continua a far proseliti anche nel nostro paese, fino a convertire politici e osservatori che appartengono ad aree d'opinione più vaste e diverse. Il principio fondamentale su cui si fonda, di matrice appunto economica, afferma che quello della droga è un mercato dell'offerta piuttosto che della domanda: vale a dire un "commercio" alimentato e imposto dai produttori, dai trafficanti, dagli spacciatori, a danno e sulla pelle dei consumatori. I primi, in una logica criminale di speculazione e di sfruttamento, stabiliscono la quantità e la qualità del "prodotto", fissano i prezzi, regolano il flusso di distribuzione, lucrando fino a mille e cinquece
nto volte sul capitale inizialmente investito. Gli altri, malati e vittime, subiscono il ricatto del vizio e della propria debolezza. Da qui, l'altro assunto provocatorio degli antiproibizionisti, secondo cui "la droga non è vietata in quanto fa male, ma fa male in quanto vietata".
Evidentemente, quella della legalizzazione non è una strada priva di rischi e di incognite, da intraprendere a cuor leggero, senza precauzioni o cautele. Nessuno è in grado di dire esattamente che cosa potrebbe accadere in concreto, valutando con precisione effetti e conseguenze. E non è neppure escluso che all'inizio, nel breve periodo, il consumo tenda in qualche misura ad allargarsi. Ma è certo, intanto, che diminuirebbero subito le morti per overdose, in seguito alla fine della clandestinità, al controllo sanitario sulla qualità e sulle dosi, alla stessa legalità del consumo. Con altrettanta certezza si può prevedere una riduzione della criminalità che prospera intorno allo spaccio, a cominciare proprio da quella mafiosa. Ma soprattutto è ragionevole immaginare che nel tempo, con un'adeguata offensiva sul piano dell'informazione, dell'educazione e della prevenzione, a cui destinare le risorse oggi utilizzate nella repressione, si possa infine contenere, circoscrivere e magari ridurre la dimensione com
plessiva del fenomeno.
E' stata questa, del resto, la strategia vincente nella lotta contro altre droghe, come l'alcol e il tabacco, non meno dannose e letali. All'epoca di Al Capone, nella Chicago degli anni Trenta, non fu il proibizionismo a debellare il commercio clandestino degli alcolici né l'organizzazione dei gangster. Contro il fumo, ridotto ormai sul piano dell'immagine a consumo da Terzo Mondo e bandito nelle società occidentali più evolute proprio attraverso lo strumento della propaganda e della dissuasione, hanno funzionato molto più le campagne d'informazione sanitaria sui danni alla salute per sé e per gli altri che qualsiasi divieto.
Senza fanatismi da una parte e senza isterie dall'altra, a questo punto è necessario passare da una repressione impotente a una legalizzazione possibile. Almeno per quanto riguarda l'Italia, il referendum sulla legge Jervolino-Vassalli può aprire una riflessione e un confronto costruttivo, per verificare la praticabilità di questa ipotesi, i suoi limiti e le sue condizioni. Anche se nel cuore dell'europa si sono moltiplicate negli ultimi tempi iniziative in questo senso, come ad Amburgo, Francoforte, Amsterdam e Zurigo, la legalizzazione non può ridursi a una scelta isolata, se non a rischio di trasformare un intero paese in un porto franco per i tossicodipendenti di tutto il mondo. Nella lotta alla droga, perciò, quello che occorre è innanzitutto un salto di cultura e di mentalità a livello internazionale.