(rilanciato da s.scandura)"Critiche infondate e dettate da pregiudizi"
lettera di Carmelo Palma (*)
Egregio direttore, la critica al referendum per la legalizzazione delle droghe leggere, pubblicata su il manifesto del 2/01/97 a firma di Stefano Anastasia è infondata e, quel che è peggio, capziosa: spero che voglia consentire ai lettori de il manifesto di ascoltare "la parola della difesa".
A) Anastasia critica il quesito, richiamandosi alle tesi sostenute da Giancarlo Arnao fin dal 1995, e denuncia che l'approvazione del referendum comporterebbe "l'automatica applicabilità al consumatore di cannabis delle pene previste per lo spaccio". Arnao però (cfr. manifesto 29 agosto 1995) sosteneva esattamente il contrario: il referendum, per Arnao, era inutile poiché si poneva "obiettivi piuttosto limitati, rispetto alla proposta di legge" e si risolveva, nella semplice abolizione delle sanzioni amministrative: infatti, le critiche di Arnao erano tutte centrate sulla contraddittorietà e l'incongruenza della cosiddetta "normativa di risulta" - conseguente all'abrogazione referendaria - rispetto alle condotte (coltivazione, vendita, eccetera) "altre" rispetto al mero consumo: per Arnao insomma, il referendum liberalizzerebbe il consumo ma penalizzerebbe l'offerta.
B) I rilievi di Anastasia ricalcano invece fedelmente le critiche di Luigi Saraceni, a cui il Comitato promotore del referendum aveva offerto la difesa del quesito di fronte alla Consulta: il "ritaglio" referendario, mantenendo inalterato l'art.73 (sanzioni per lo spaccio), e abolendo le sanzioni amministrative per il consumo di cannabis previste dall'art. 75 del Dpr 309/90 comporterebbe, per Saraceni, l'effetto paradossale di legalizzare l'"offerta" e di penalizzare la "domanda". Le critiche di Saraceni sono esattamente opposte a quelle di Arnao (sono, come si vede, innanzitutto, un capovolgimento delle tesi di Arnao).
Molto brevemente, proverò a rispondere tanto alle critiche di Arnao, quanto a quelle di Saraceni:
1) L'eventuale abrogazione del riferimento alla cannabis (Tabella II) nell'art. 73, oltre a rappresentare la più certa ragione di inammissibilità costituzionale del quesito (anche, ma non solo in riferimento alle Convenzioni internazionali sulla droga), avrebbe comportato una liberalizzazione legale di tutte le condotte (coltivazione, vendita, eccetera) altre rispetto al consumo, e avrebbe contrastato con l'introduzione di una disciplina (di tipo "autoritario") per la produzione e vendita dei derivati della cannabis, quale è quella risultante del referendum e prevista anche nella pdl Corleone ed altri. Il Comitato promotore del referendum, dunque, non voleva (politicamente) fare quella scelta "liberalizzatrice", che, da versanti opposti, Arnao e Saraceni suggeriscono.
Legalizzare la droga non è legalizzare la mafia; è rendere legale forme di offerta (in questo caso: di cannabis) altre e alternative rispetto a quelle criminali. 2) Le critiche di Saraceni contrastano, addirittura, ed è tutto dire, con la giurisprudenza della Consulta che, nel 1981, dichiarò inammissibile il primo referendum radicale per la legalizzazione dei derivati dalla cannabis: in quell'occasione (sent. 30/81) infatti, a fronte di un quesito analogo, che però abrogava i riferimenti alla cannabis anche dall'articolo relativo alla classificazione delle sostanze (art. 12 della legge 685/75) - in questo modo "trainando" la liberalizzazione di tutte le condotte connesse alla canapa indiana - la Corte costituzionale dichiarò inammissibile i referendum proprio per la "manomissione" del meccanismo di classificazione delle sostanze sottoposte "a controllo" della convenzione di New York. La strada della "liberalizzazione" era dunque, anche tecnicamente, bloccata dalla precedente giurisprudenza della Consulta.
3) La sentenza dell'81 è anche rilevante in ordine a un altro aspetto; il precedente referendum non abrogava in nessuna parte l'art. 80 (quello della "modica quantità", per intendersi), che dunque continuava a fare implicito, ma chiaro riferimento ("sostanze psicotrope di cui alle prime 4 tabelle dell'art. 12) anche alla tabella II (derivati della cannabis): da questo derivava che, stando a un'interpretazione "stretta" della formulazione del quesito (come quella che dà Saraceni), l'abrogazione referendaria avrebbe, allora come ora, potuto comportare la sanzione penale per la detenzione, a fini di consumo, di cannabis in quantità eccedenti la modica quantità, in una situazione di liberalizzazione completa dell'offerta.
La Corte, allora, non formulò su questo punto alcun rilievo. Né si capisce perché oggi dovrebbe concludere che l'abolizione delle sanzioni amministrative per il consumo di cannabis dall'art. 75 comporti l'estensione della sfera di applicazione dell'art. 73 (cioè, per intendersi, allo spaccio e non al consumo di droghe proibite).
E' quantomeno singolare che, oggi, i rilievi più pesanti sull'ammissibilità del quesito si appuntino proprio su di un utilizzo coerente, positivo e "difensivo" della giurisprudenza consolidata dalla Consulta e dimentichino che l'attuale quesito è ancora più preciso, e meno "a rischio".
(Che questo referendum sia - se possibile - ancora più a rischio "politicamente", anche rispetto al giudizio della Consulta, ce lo conferma l'articolo di Anastasia; ma questo è un discorso che qui non possiamo né vogliamo fare).
*della direzione del Cora (Coordinamento radicale antiproibizionista)