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Conferenza droga
Radio Radicale Roberto - 19 giugno 1997
CONSIDERAZIONI PER UNA POLITICA DI "RIDUZIONE DEL DANNO" IN ITALIAdi LUCIO BERTE'

A. IL PROIBIZIONISMO COME CAUSA E MOLTIPLICATORE DEL DANNO

La principale ragione d'essere del CO.R.A., dal 1988, e' la promozione di iniziative per la riforma delle legislazioni sulle droghe in senso antiproibizionista, con la contestuale denuncia delle Convenzioni internazionali, per arginare il dilagante potere criminale che si infiltra nell'economia legale e nella politica destabilizzando i presupposti stessi delle democrazie, creando insicurezza nelle citta', corrompendo le societa'.

Il CO.R.A. sostiene la necessita' di affrancare dal contatto con il mercato criminale, con la legalizzazione, innanzi tutto alcuni milioni di consumatori di cosi' dette "droghe leggere", che non danno preoccupazione dal punto di vista sanitario.

Per le droghe pesanti l'aspetto sanitario non dovrebbe essere l'alibi della proibizione ma una delle ragioni della legalizzazione.

Invece la legge proibizionista ha fatto diventare "un rischio e un danno" per la generalita' della popolazione, il problema di tossicodipendenza di 2-300 mila cittadini.

La decisione di lasciare alla criminalita' la gestione di alcune delle sostanze d'abuso ha trasformato un problema, altrimenti circoscrivibile e controllabile, in rischio sanitario per l'intera collettivita' ed ha provocato, con la strage dei diritti dei cittadini tossicodipendenti, una strage di cittadini tossicodipendenti.

Lo Stato italiano ha dapprima condannato i cittadini "dipendenti" da alcune sostanze alla illegalita' e alla sanzionabilita' penale (scegliendo l'estremo piu' severo nell'arco degli atteggiamenti indicati dalla Convenzione ONU) poi, costretto dal referendum del 1993, ha accettato la depenalizzazione del consumo, lasciando ipocritamente illegale e penalmente punibile (salvo casi sporadici per diverso avviso della Cassazione) chi viene colto nell'atto dell'acquisto o nella detenzione della sostanza, atti assolutamente ineliminabili e propedeutici ad una assunzione non piu' "vietata".

Dalla scelta dello Stato di declassare lo status di cittadinanza dei "dipendenti" da alcune sostanze (e non da altre, con palese discriminazione incostituzionale verso i primi) derivano anche i "reati connessi" che hanno congestionato l'apparato giudiziario e riempito le nostre carceri oltre ogni limite di affollamento sopportabile.

Lo Stato induce questi "reati di necessita'" commessi nella stragrande maggioranza senza nessuna vocazione criminale, contro il patrimonio e a danno delle persone piu' deboli.

Lo Stato (si rassegnino a prenderne atto i tanti moralisti del nostro Parlamento) spinge migliaia di donne, spesso sieropositive all'HIV, alla "prostituzione di necessita'", per non rischiare la galera come accade ai maschi, e spesso per non rischiare, con altri reati, l'allontanamento dei figli da parte dei Tribunali per i Minorenni.

Non occorrono tante parole per sottolineare la gravita' delle conseguenze in termini di devastazione sociale e in termini di salute per questi cittadini e per la generalita' della popolazione.

Ad aggravare la situazione, al "proibizionismo sulle sostanze" con la sua teoria di vittime, si e' affiancato in questi anni, fino al referendum del '93 e oltre, il "proibizionismo sulle cure", in particolare attraverso il Decreto De Lorenzo n.445/90 che poneva i limiti e dettava le modalita' di impiego dei farmaci sostitutivi nel trattamento delle tossicodipendenze, con una violazione "integrata" dei diritti costituzionali, e dei medici, e dei cittadini tossicodipendenti.

Su questo aspetto abbiamo ritenuto utile svolgere a parte un approfondimento, del quale anticipiamo la conclusione : il proibizionismo sulle cure ha incrementato i comportamenti a rischio determinati dal proibizionismo sulle sostanze ed e' responsabile di un numero di vittime probabilmente non inferiore.

Dunque sia chiaro che siamo qui a discutere di come ridurre i danni prodotti comunque dal proibizionismo, il cui fallimento e' sotto gli occhi di tutti.

E' evidente che il proibizionismo non puo' ridurre i danni prodotti dal proibizionismo (sulle sostanze o sulle cure, basate anche sull'uso medico di quelle sostanze, farmacologicamente intese), anzi non puo' che moltiplicarli.

B. IL CASO ITALIANO NEL CONTESTO EUROPEO.

Quanto e' avvenuto in Italia ha trovato riscontro, in misura a volte aggravata, in diversi altri Paesi d'Europa (per esempio in Francia o in Grecia), a dimostrazione che il proibizionismo sulle sostanze voluto dalla Convenzione ONU contro il traffico illegale, lungi dallo scalfirlo, ha invece trainato il proibizionismo sulle cure, alla ricerca della improbabile "soluzione finale" della "eliminazione della domanda di droga".

Il risultato e' stata la "eliminazione di migliaia di tossicodipendenti", o direttamente o per interposta infezione da Aids.

Le politiche sanitarie di molti Stati, influenzate purtroppo da questa impostazione ideologica e moralista, hanno tradito il loro dovere primario di tutela della salute pubblica.

In una ricerca svolta nel '94, l'Osservatorio europeo sulle droghe di Bruxelles ha messo in evidenza la relazione diretta, nei Paesi dell'Unione, tra incremento dei casi di Aids e limitazione della prescrivibilita' di farmaci sostitutivi, parlando di "maltrattamenti" piu' che di "trattamenti" della tossicodipendenza.

Come e' noto, la reazione a questa situazione e' partita da alcune grandi municipalita' europee (quelle firmatarie della cosi' detta Risoluzione di Francoforte) che, per fronteggiare il deterioramento delle condizioni di vita prodotto nelle loro citta' dal proibizionismo, hanno deciso di provare una diversa politica di intervento, ispirata alla tolleranza, per vedere se di fatto le cose sarebbero migliorate.

In contrapposizione si e' formato a livello internazionale un altro schieramento di citta' (quelle del cosi' detto Cartello di Stoccolma, coordinato in Italia dalla Comunita' di S.Patrignano) che, partendo dalla denuncia dello stesso sfacelo, rilanciano la stessa impostazione moralista e punizionista (a tolleranza zero), chiudono le porte a nuove impostazioni senza provarle e "invocano" piu' educazione (e chi potrebbe essere contrario, se fosse basata sull'informazione?), piu' disintossicazioni coatte, piu' repressione: cioe' esattamente cio' che e' stato gia' provato ed ha condotto allo sfacelo che anch'essi denunciano.

La Risoluzione di Francoforte e' invece ancorata ad alcune esperienze positive realizzate in Europa da alcuni Paesi che hanno costituito eccezioni "istituzionali" importantissime e, compatibilmente con le legislazioni comunque proibizioniste, hanno trovato e indicato quelle vie della "riduzione del danno" che oggi trovano molti piu' sostenitori in Europa, anche se con diverso grado di convinzione e di consapevolezza.

A partire dall'Inghilterra e dall'Olanda, e poi dalla Svizzera, sono venute esperienze di intervento sociale e di prevenzione sanitaria generale, attraverso fasi di "sperimentazione terapeutica" che non possono essere impedite da alcuna Convenzione internazionale e che hanno conquistato per tutti diverse evidenze scientifiche a convalida dell'opzione antiproibizionista sulle cure, dell'Harm reduction, della riduzione del danno e anche della necessita' di ridefinire le Convenzioni ONU nel momento in cui si rivelano un ostacolo alla soluzione dei problemi.

L'Harm reduction e' nata da una cultura pragmatica e anti ideologica, necessaria anche in Italia, anche se di non facile trapianto. Alla fine degli anni '80 Pat O'Hare, ideatore e sperimentatore del modello sanitario di riduzione del danno nell'area di Liverpool, fu invitato al Congresso del CO.R.A. per far conoscere per la prima volta in Italia la filosofia e la metodica di quel tipo di intervento, per contrapporla alla impostazione craxiana allora vincente in Italia.

Lo stesso O'Hare ha sempre sottolineato che il primo fattore che rese possibile l'adozione di quel modello e' stato "la politica di prescrizione medica delle droghe attuata dalla clinica per le tossicodipendenze del Merseyside, aperta nel 1985, dove i medici avevano mantenuto la tradizione del vecchio sistema britannico della prescrizione di oppiacei per via iniettiva, che aveva facilitato il reperimento di materiale sterile per le iniezioni". Il "danno ridotto" da quella politica e' misurato dalla percentuale dei sieropositivi all'HIV tra i tossicodipendenti per via endovenosa, contenuta entro il 7 %, cioe' dieci volte inferiore a quella italiana.

A parte gli antiproibizionisti, questo presupposto della riduzione del danno e' "stranamente" rimosso da tutti i sostenitori nostrani di questa strategia, nonostante che la prescrizione di morfina negli anni '80 in alcune citta' italiane (Verona e Napoli) avesse determinato negli anni '90 gli stessi tassi "olandesi" di sieropositivita' tra i tossicodipendenti, molto bassi.

In Italia la riduzione del danno e' invece apprezzata soprattutto per gli aspetti assistenziali, per la ricaduta economica in termini di sovvenzioni statali, e ci si accontenta cosi' di interventi comunque utili ma tutto sommato marginali rispetto all'intervento sanitario davvero incisivo, possibile solo con la legalizzazione. Si e' scelto di non introdurre un tema che si ritiene spinoso per la classe politica.

Si tratterebbe infatti di prendere atto che occorre un passaggio legislativo di legalizzazione delle sostanze o quanto meno del loro uso medico, prevedendo anche in Italia il sistema britannico di riconoscimento della sfera autonoma della medicina e della liberta' di sperimentazione terapeutica, nonostante le leggi proibizioniste vigenti anche in Gran Bretagna.

Eppure l'Italia ha avuto (e ancora ha) l'occasione di aprirsi alla "riduzione del danno" attraverso la via maestra del diritto, come unico Paese che ha verificato democraticamente, sottoponendoli a referendum e abrogandoli, i capisaldi "punizionisti del consumo personale" e "proibizionisti delle cure" contenuti nella propria legge sulla droga.

Sarebbe bastato (e basterebbe) assecondare e dare seguito a questa volonta' popolare che, dopo un confronto pubblico tra tesi opposte che aveva per la prima volta consentito una informazione aperta e corretta dell'opinione pubblica sulle tematiche delle droghe e delle tossicodipendenze, si era espressa a ragion veduta a favore di una impostazione piu' ragionevole e tollerante.

La Conferenza Nazionale di Palermo aveva prontamente raccolto questa indicazione e aveva espresso la volonta' politica di proseguire lungo questa rotta.

Ma cosi' e' stato fatto solo in minima parte, timidamente e senza eliminare le contraddizioni. Come per altri referendum, anche per quello sulla Legge Jervolino/Vassalli il risultato referendario non e' stato tradotto immediatamente in norme nuove e certe, ne' tanto meno ha ispirato lo sviluppo di decisioni politiche congruenti e implicite che certamente avrebbero avuto il consenso della maggioranza degli italiani, mettendo a frutto la straordinaria saggezza riformatrice del nostro popolo espressa con i referendum, contro la prudenza conservatrice della classe politica e dei Governi di turno.

Si e' tentato invece di depotenziare e vanificare gli effetti del referendum, rallentando e deviando la sua forza innovatrice sui vecchi percorsi. Con la riserva, che ora alcune forze politiche hanno esplicitato, di rifluire sul passato e far rivivere le norme illiberali abrogate, peggiorandole: di nuovo la via autoritaria e illusoria della guerra alle droghe, della persecuzione e della punizione del consumatore, della proibizione delle cure, della negazione dell'autonomia terapeutica dei medici e di trattamenti sanitari limitati e obbligatori e non la via maestra del rispetto e dell'affermazione dei diritti civili, connessi alla doppia cittadinanza italiana ed europea, come criterio guida della politica.

C. LE PROPOSTE

1.

La prima ovvia proposta che avanziamo e' l'antiproibizionismo, ovvero la regolamentazione legale dell'uso di tutte le sostanze, con l'apertura da parte del Governo italiano della procedura di denuncia della Convenzione ONU sugli stupefacenti.

Dal punto di vista prettamente sanitario, occorre adottare da subito le misure di legalizzazione dell'uso medico di tutte le sostanze, tanto piu' necessaria e urgente quanto piu' le sostanze sono considerate pericolose, e sono effettivamente pericolose perche' la proibizione assegna di fatto la loro titolazione farmacologica alla criminalita'.

2.

La seconda esigenza e' quella di assumere i diritti civili come criterio guida delle scelte politiche e quindi garantire in Italia la liberta', o meglio l'autonomia terapeutica dei medici e il diritto alle cure dei cittadini tossicodipendenti, secondo i principi costituzionali della liberta' della scienza e del diritto alla salute (il diritto e non il dovere).

3.

La terza esigenza e' quella dell'azione del Governo italiano nell'ambito dell'Unione Europea

- per orientare l'U.E. ad una modifica in senso antiproibizionista della Convenzione internazionale sugli stupefacenti, da proporre alla Conferenza dell'ONU del 1998;

- per sollecitare i Paesi membri del l'U.E. ad armonizzare le leggi nazionali sulla droga sulla base di politiche europee di riduzione del danno che tengano conto delle sperimentazioni riuscite e che siano fondate sulla garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini europei medici e tossicodipendenti, perche' diventi effettiva anche per loro la liberta' di movimento e di esercizio delle professioni (garantita per i cittadini europei su tutto il territorio dell'Unione).

In mancanza di adempimenti in questa direzione non e' possibile governare il problema delle droghe neppure sul versante sanitario ed e' autorizzato il sospetto che si voglia continuare la guerra per consentire alla Croce Rossa di esistere.

Il nostro contributo potrebbe fermarsi qui. Quelle che seguono sono note di approfondimento tematico, di lettura politica e di indicazione pratica.

NOTA 1

PROIBIZIONISMO SULLE CURE E RIDUZIONE DEL DANNO.

A.

Le considerazioni svolte, in via preliminare e per una impostazione generale del problema, hanno trovato riscontro e conferma anche in casi puntuali testimoniati o direttamente affrontati sul campo.

L'esperienza fatta dalla fine degli anni '80 a oggi come CO.R.A. e negli anni 90/95 come antiproibizionisti al P.E. e in numerosi Consigli regionali, provinciali e comunali, ci ha portati ad avere rapporti molto intensi ed estesi, a volte conflittuali, sull'applicazione della vigente legislazione sulla droga, con alcuni degli attori principali di questa vicenda: politici, esperti di ogni tipo, cittadini tossicodipendenti, medici dei SERT, di base, ospedalieri, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori, operatori a vario titolo del "grande circo" della risposta pubblica e privata, religiosa e laica alla tossicodipendenza.

Da questa esperienza pratica, assistita da medici e operatori esperti nel trattamento delle tossicodipendenze, alcuni dei quali membri del Comitato scientifico del CO.R.A., deriva un documento in 61 punti in cui abbiamo sintetizzato le nostre proposte per il Governo, per dare attuazione all'esito referendario del '93, garantire i diritti dei medici e dei cittadini tossicodipendenti e indicare tutta una serie di interventi migliorativi della risposta pubblica, soprattutto sul versante sanitario, per una migliore sinergia tra tutti i soggetti in campo.

Il documento, con i dovuti aggiornamenti, e' analogo a quelli via via consegnati ai diversi Ministri della Sanita' che si sono susseguiti nel tempo, a partire da Maria Pia Garavaglia.nel 1993.

La nostra esperienza di antiproibizionisti dentro e fuori dalle Istituzioni, a fianco dei cittadini medici e tossicodipendenti, ci ha portati ad essere la sola formazione politica impegnata frontalmente contro il Decreto De Lorenzo sul metadone : un ricorso al TAR della Lombardia sortiva all'inizio del 1991 una ordinanza sospensiva di quella normativa per due medici e due cittadini tossicodipendenti, che consenti' di incardinare diverse iniziative e di far esplodere diverse contraddizioni.

I numerosi rapporti con i Servizi pubblici per le tossicodipendenze, ci hanno portato a constatare che i SERT italiani sono riconducibili a due tipologie contrapposte nella filosofia di intervento, in termini di maggiore o di minore accessibilita' e quindi di maggiore o di minore risposta terapeutica alle richieste di cura da parte dei cittadini tossicodipendenti.

Questa nostra esperienza e' stata confermata da indagini condotte nel 1993/94 dal Gruppo Antiproibizionisti della Regione Lombardia sui SERT italiani, sui protocolli da loro utilizzati per le terapie metadoniche e sui "contratti terapeutici" da loro proposti come condizione di accesso al servizio pubblico. Abbiamo estratto dalla ricerca un campione significativo della tipologia delle risposte e l'abbiamo consegnato al Ministero della Sanita' (ufficio del Se.Ce.D.A.S.) in occasione delle audizioni del Comitato scientifico del CO.R.A., per la preparazione delle ultime linee guida per i trattamenti delle tossicodipendenze con farmaci sostitutivi (Circ. Min. San. N.20/93).

Di fatto abbiamo prodotto uno spaccato sulla realta' dei SERT italiani, sconosciuta allo stesso Ministero della Sanita'.

Abbiamo constatato che la stragrande maggioranza dei SERT, prima del referendum del '93 (e per un lungo periodo anche dopo), ha scelto di tenere una "soglia di ingresso" molto alta, con lunghissimi tempi d'attesa per la presa in carico di nuovi utenti. Molti SERT hanno escluso l'utilizzo del metadone in trattamenti protratti e i piu' hanno praticato trattamenti metadonici a scalare, a bassi dosaggi e a breve termine, per disintossicazioni finalizzate all'ingresso in Comunita' o al ritorno in strada, secondo il modello della cosi' detta "porta girevole", con un ciclo continuo di entrate e uscite dal SERT, magari con il limite di tre accessi all'anno e con intervalli di tempo imposti tra un accesso e l'altro, salvo sopravvenuto arresto o sopravvenuta overdose.

Altri hanno spinto oltre ogni limite le terapie con farmaci antagonisti (Antaxone) anche per soggetti non eligibili perche' a rischio grave di ricaduta, con grave rischio di overdose.

Altri SERT hanno bandito di fatto (senza dichiararlo, perche' illegale anche in base al D.M. n. 445/90) qualsiasi trattamento farmacologico, per offrire il solo trattamento psicosociale, previa disintossicazione rapida.

Contro questa situazione il CO.R.A. ha intrapreso numerose azioni legali, come il ricorso al TAR dell'Emilia Romagna (non accolto) per chiedere l'annullamento delle norme regionali che consentivano ai SERT emiliani di escludere le terapie metadoniche protratte - negate persino ai malati terminali di Aids - di limitare anche i trattamenti a scalare, espellendoli dai SERT (e costringendo molti a cambiare residenza o a fare i pendolari su altre regioni), di modificare in senso riduttivo le prescrizioni di metadone stabilite dai medici di altre regioni per i tossicodipendenti in trasferimento temporaneo.

In molti SERT si e' praticata l'incredibile sospensione della terapia "per motivi disciplinari".

In uno di questi casi il CO.R.A. ha presentato un ricorso al pretore civile, ex art. 700 C.p.c., contro la decisione dello psichiatra responsabile del SERT, ottenendo l'ordinanza di ripresa della terapia metadonica per una ragazza sieropositiva all'HIV.

In conclusione, con la benedizione della legge Jervolino-Vassalli e di decreti come il 445/90, a volte interpretati in senso peggiorativo dalle linee guida regionali, in funzione della monocultura della Comunita' terapeutica salvifica, o della monocultura psicologica "per andare alla radice del male", da molti SERT italiani per anni e' arrivata ai cittadini tossicodipendenti, fino al Referendum del 1993 e oltre, con la negazione della terapia metadonica e spesso esplicitamente come accompagnamento al diniego, l'esortazione "devi toccare il fondo", una vera e propria istigazione a delinquere, alla prostituzione, alla diffusione dell'Aids, al suicidio ("tanto sono guidati dall'istinto di morte").

Questa filosofia ha contribuito in modo massiccio all'aumento dei rischi e dei danni per la salute dei cittadini tossicodipendenti, e all'incremento notevole delle infezioni da HIV e dei casi di overdose.

Un fuoco di sbarramento e' stato sollevato contro i medici di base che ritenevano doveroso curare un paziente tossicodipendente lasciato a se stesso, con ogni mezzo ritenuto idoneo "in scienza e coscienza", nonostante la proibizione su ogni farmaco sostitutivo, per fedelta' al giuramento di Ippocrate e alle norme della deontologia medica che contemplano il dovere della disobbedienza alle leggi ritenute contrarie alla cura del proprio paziente.

Nei primi anni '90 si sono svolti, con un clamore di stampa assolutamente fuorviante e sospetto, alcuni processi a medici che avevano prescritto morfina a pazienti tossicodipendenti. Per motivi di deterrenza si e' attivata una indegna persecuzione giudiziaria contro professionisti che avevano curato e letteralmente salvato dalle infezioni e dalla morte cittadini letteralmente abbandonati e impediti nel loro diritto alla cura.

I Carabinieri dei NAS sono stati scatenati dal Ministro De Lorenzo per setacciare le farmacie alla caccia di ricette sospette, di morfina o di buprenorfina, mentre gli psicofarmaci venivano distribuiti a piene mani dai SERT.

Quindi, se ragioniamo sul passato in termini di "riduzione del danno", i SERT vanno in gran parte collocati dalla parte opposta, e cioe' tra coloro che, pur se ritenendo di applicare le leggi vigenti, hanno provocato un "aumento del danno" tra i tossicodipendenti.

Cio' sia detto senza pregiudizio, ma a maggior merito dei medici di quei pochi SERT che, nonostante le leggi e in un clima di aggressione culturale, hanno contribuito a riaprire la via non ideologica, della scienza medica e della ragionevolezza, nella cura dei tossicodipendenti, sancita poi dal referendum del '93.

Il referendum non ha sbloccato immediatamente questa situazione. Le strutture burocratiche, come sempre, hanno proseguito per inerzia le vecchie impostazioni in base alle quali il loro personale era stato assunto e formato.

Per alcuni SERT il risultato referendario e' stato inteso come la convalida delle scelte gia' operate nel senso della esclusione delle terapie farmacologiche sostitutive, sulla base del seguente ragionamento: "se ora i medici sono liberi di intervenire nei trattamenti delle tossicodipendenze con la prescrizione del metadone, a maggior ragione i SERT possono escluderlo e specializzarsi in altri trattamenti, soprattutto di tipo psicologico e sociale". Ma i medici in generale non avevano purtroppo accolto con entusiasmo la restituzione del loro diritto di curare i pazienti tossicodipendenti.

Altri SERT hanno chiamato "riduzione del danno" la loro scelta di somministrare il metadone nonostante il loro scetticismo sull'efficacia del suo uso farmacologico, instaurando condotte "non terapeutiche" (cioe' che non seguono i protocolli che storicamente ne hanno garantito la migliore efficacia curativa), ma di semplice controllo a distanza degli utenti attraverso la somministrazione di metadone a bassi dosaggi e di accettazione delle assunzioni integrative di eroina illegale da parte degli utenti stessi. Tali assunzioni, per quanto generalmente minime, non solo non escludono, ma addirittura contemplano il permanere di un rischio effettivo e del possibile danno, condannando ancora di piu' i tossicodipendenti, benche' in carico ad una struttura del Servizio sanitario pubblico, ad una condizione di dipendenza cronica, irreversibile.

Come si e' gia' detto la denominazione "riduzione del danno" per una politica sulle tossicodipendenze, non puo' coprire qualsiasi modalita' di intervento sanitario, sociale e assistenziale (e tanto meno condotte che vanno nel senso opposto) e deve prevedere l'allargamento dell'offerta sanitaria a programmi di distribuzione di droghe sotto controllo medico, in particolare di eroina, secondo il modello sperimentato in Svizzera.

Anche gli interventi svolti in Italia dalle "unita' di strada" per garantire informazione e minime condizioni igienico-sanitarie agli assuntori di droga per via iniettiva, le iniziative volte a dare assistenza alimentare o alloggiativa ai piu' disastrati tra loro, sono certamente utili, ma sono soltanto alcuni degli aspetti di una politica di riduzione del danno. Essi non possono avere una effettiva incidenza sulla riduzione del "sommerso" se intanto il Servizio sanitario e quindi i SERT, non aumentano al massimo la loro accessibilita' e non rendono effettivamente disponibili e libere tutte le alternative terapeutiche, per accogliere tutte le richieste di cura, senza volere ad ogni costo imporre visioni specialistiche, col rischio di far diventare i SERT un letto di Procuste per i cittadini tossicodipendenti.

In sostanza occorre ridurre il danno di quelli che non vogliono farsi curare, senza rischiare di incontrare quelli che i SERT non vogliono curare, o ai quali sono state imposte condizioni d'accesso al trattamento tanto dure da risultare non sopportabili.

Se vogliamo avviarci per il futuro ad una politica di riduzione del danno condotta scientificamente, occorre restituire a ciascuno le sue vere funzioni e responsabilita', da una parte per offrire comunque piu' protezione sanitaria, e non meno, a chi non riesce a tollerare trattamenti drug free, e dall'altra per togliere completamente al proibizionismo l'alibi "sanitario", evocando il quale mantiene norme che invece favoriscono la criminalita' e creano l'allarme sanitario.

Se l'eroina e' dannosa in se', lo e' ancora di piu' se clandestina perche' la dose di strada non ha le caratteristiche costanti di un farmaco, regolate per legge, ma il contenuto e' stabilito dalla criminalita' alla quale lo Stato ha di fatto demandato preparazione e distribuzione della sostanza sul mercato illegale. Allora "ridurre il danno" per un assuntore di eroina puo' solo voler dire far passare il controllo sulla sostanza dalla criminalita' allo Stato per introdurre il controllo medico farmacologico e quindi ridurre la pericolosita' della sostanza che comunque sara' usata.

Questo significa legalizzazione.

B.

E' un fatto inoppugnabile che in Italia proprio il Referendum del '93 e' stato il piu' imponente intervento efficace di riduzione del danno. Con l'abrogazione di alcune norme repressive e illiberali del DPR 309/90, il referendum ha comunque iniziato a produrre i suoi effetti di riduzione del danno in due direzioni:

a) la depenalizzazione del consumo personale e della detenzione di sostanze stupefacenti per finalita' di consumo personale (con l'abrogazione del concetto di "dose media giornaliera", indeterminabile scientificamente oltre che indeterminabile a priori perche' affidata all'incognita di una sostanza gestita dalla criminalita') ha ridotto il numero delle incarcerazioni di tossicodipendenti, anche se, per la giurisprudenza che subito si e' orientata a considerare la detenzione di sostanze comunque "finalizzata allo spaccio", ha avuto purtroppo una incidenza relativamente scarsa;

b) l'abrogazione della competenza del Ministro della Sanita' nello stabilire i limiti e le modalita' d'impiego dei farmaci sostitutivi, e quindi con l'abrogazione del DM 445/90, ha svolto una duplice azione:

- ha restituito ai circa 180 mila medici di base e liberi professionisti italiani la potesta' (e il dovere deontologico) di curare la tossicodipendenza nei propri pazienti (e teoricamente nei 2-300 mila eroinomani stimati in Italia), sino a quel momento riservata ai circa 2 mila medici dei SERT. Se questa novita' fosse stata accolta con slancio invece di essere ostacolata e frenata, se questo potenziale esercito di medici fosse stato adeguatamente preparato e sollecitato ad intervenire, avremmo di gia' assistito al piu' massiccio attacco sanitario sferrato contro la tossicodipendenza. Invece soltanto ora si delineano i primi passi in questa direzione, con grave ritardo dovuto alla resistenza dei SERT ma anche, o soprattutto, alla resistenza della classe medica ad assumere la piena responsabilita' che la situazione richiede e che le leggi, ora, consentono.

- ha provocato lo sblocco delle terapie metadoniche protratte, assecondato poi da nuove linee guida ministeriali e regionali. Queste ultime, in alcuni casi, hanno sviluppato notevolmente il contenuto tecnico-scientifico assumendo anche il valore pratico di un protocollo di intervento. La conseguenza e' stata l'arrivo ai SERT, tra il giugno 93 e il giugno 96, di 30 mila nuovi utenti (da 60 a 90 mila), provenienti in gran parte dalla strada, 20 mila dei quali sono andati ad incrementare gli utenti in terapia metadonica, passati da 16 a 36 mila. Purtroppo tra i "riemersi" molti erano ormai affetti dal virus HIV o in Aids conclamato, approdati finalmente ai SERT per morire in pace: in Lombardia negli anni 1994 e 1995 sono deceduti ben 785 pazienti dei SERT, in gran parte di Aids per infezione contratta negli anni '80 (anche se una indagine sulle cause di morte sarebbe opportuna).

Sui dati 93/96 occorre fare una considerazione a margine: poiche' in questo periodo gli utenti delle Comunita' terapeutiche residenziali sono calati di sole 3 mila unita', si dimostra infondata e strumentale l'accusa rivolta dalle grosse Comunita' al referendum del '93 e al conseguente aumento delle terapie metadoniche, di aver sottratto loro i pazienti. Accusa comunque assurda in una prospettiva di dispiegamento e integrazione di tutte le risorse e di tutti i tipi di offerta terapeutica per aggredire la tossicodipendenza "sommersa".

Sulla base di questi dati incontrovertibili risulta ancora piu' assurda la tesi avanzata dall'Associazione dei tossicologi forensi degli Istituti di Medicina Legale fatto nel "Libro bianco sulle morti da droga 1991-1995", in cui si imputa l'incremento dei decessi per overdose negli anni 1994/1995 alla depenalizzazione del consumo introdotta dal referendum del '93 (post hoc, propter hoc!).

La riproposizione da parte del Parlamento, nelle Mozioni approvate prima della Conferenza di Napoli, delle principali scelte che in passato erano consentite solo dalle norme poi abrogate dal Referendum del '93, scelte che il danno lo hanno provocato, dimostra il basso livello di consapevolezza dei problemi nella classe politica italiana che quei problemi e' chiamata a risolvere.

Per quanto sin qui osservato, possiamo serenamente indicare, nonostante tutto, all'attenzione del Parlamento e del Governo l'esigenza di adottare tutte le misure attuative del Referendum del 1993 e tutte le iniziative indirizzate nel senso della volonta' popolare espressa in quella circostanza.

NOTA 2

SUL RUOLO DELLE COMUNITA' TERAPEUTICHE

Nel recente dibattito parlamentare alcune forze politiche si sono fatte portavoce delle tesi e delle richieste, anche le piu' irragionevoli, delle Comunita' terapeutiche, rilanciandole come la "soluzione unica del problema". Questo denota il grave ritardo, se non la malafede, nella conoscenza della realta'.

Infatti, nonostante sia rimasto disatteso l'impegno della Conferenza di Palermo di portare alla seconda Conferenza nazionale la valutazione di efficacia delle diverse modalita' di intervento in rapporto agli esiti, l'esperienza ha gia' dimostrato che nessuna modalita' e' efficace al 100 %, che generalmente e' piu' efficace una risposta integrata, e che comunque la Comunita' di recupero, secondo le stime correnti, e' efficace in non piu' del 20/30 % dei casi.

Sarebbe opportuno, una volta per tutte, verificare il percorso di chi e' uscito dalle Comunita' per scoprire quanti sono ricaduti per passare poi ad altre terapie, e quanti sono rimasti vittime di overdose alla prima ricaduta.

Disatteso e' anche l'impegno preso a Palermo di produrre la valutazione di efficacia degli interventi in rapporto alla spesa pubblica, nonostante siano emersi all'attenzione dell'opinione pubblica sufficienti spezzoni di una realta' di sperperi e di speculazioni private.

Sarebbe anche importante cominciare ad indagare con quali criteri, con quali soldi, con quali progetti, con quali controlli alcune delle grosse Comunita' investono fuori d'Italia, spesso in Paesi in via di sviluppo e sempre in Paesi produttori di droghe.

Sarebbe importante una verifica del rispetto dei diritti civili e costituzionali nelle grandi Comunita' che hanno sedi sparse in tutto il mondo, che praticano il trasferimento incrociato dei tossicodipendenti, e in particolare di quelli di altre nazionalita' in Italia e degli italiani in sedi estere.

Sarebbe opportuna una verifica della rispondenza alle leggi italiane delle regole imposte da Le Patriarche che in Lombardia, almeno fino a pochi anni fa, assorbiva un terzo dei pazienti accolti nelle comunita' residenziali.

Non e' normale che gli organi d'informazione non facciano indagini giornalistiche a 360 gradi ma amplifichino acriticamente solo la voce delle Comunita' e, segnatamente, le accuse da loro avanzate alle terapie con farmaci sostitutivi, nonostante ci siamo lasciati alle spalle i tempi in cui le Comunita' erano pressoche' l'unica offerta.

Grande e' stata la responsabilita' delle Comunita' nel determinare l'impianto della legge Craxi-Jervolino -Vassalli : hanno raccomandato l'illegalita' del consumo e la sua perseguibilita' penale, per proporsi come unica alternativa obbligata al carcere, ed hanno imposto la fortissima limitazione del metadone facendo si' che i SERT funzionassero sostanzialmente come i loro "uffici di collocamento".

Le Comunita' terapeutiche devono serenamente prendere atto che, grazie al referendum vinto, non sono piu' l'unico versante del privato da raccordare al versante pubblico: ora ci sono decine di migliaia di medici da attrezzare e su cui contare. Ora che il referendum ha ristabilito alcuni diritti fondamentali, sarebbe conveniente per loro imparare a porsi (alcune gia' lo fanno) come libera alternativa alle periferie, alla disoccupazione, all'abbandono, senza denigrare le altre terapie e senza pretendere di avere il monopolio dell'intervento sulla tossicodipendenza. Per esempio possono essere necessarie, e quindi devono essere possibili, le terapie di mantenimento metadonico anche all'interno delle Comunita', come gia' avviene in alcune di esse, anche se non viene detto apertamente.

NOTA 3

ALCUNI NODI DA SCIOGLIERE.

Il Parlamento italiano con il dibattito e il voto dei giorni 10 e 11 marzo '97 sulle Mozioni in materia di politiche sulle droghe, ha posto in evidenza alcuni nodi che la Conferenza di Napoli ha il dovere di sciogliere.

1.

Secondo l'interpretazione di alcuni dei presentatori e dei sostenitori delle Mozioni, con il voto espresso l'11 marzo scorso il Parlamento ha inteso condizionare in una certa direzione la Conferenza di Napoli.

Ha risposto correttamente il Ministro Livia Turco, rimandando alla lettera del DPR 309/90 per una corretta lettura dei compiti della Conferenza Nazionale in rapporto alle competenze parlamentari.

L'Art.1, c.15 e' di una chiarezza lampante: "le conclusioni di tali Conferenze sono comunicate al Parlamento, anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga, dettate dall'esperienza applicata". Fine.

E' da notare: "anche al fine di...", quasi a sottolineare che la funzione primaria e' quella di fornire al Parlamento elementi di conoscenza, per poi consentirgli di meglio intervenire sulla legge. Conoscere per deliberare. Cio' non toglie che il Parlamento possa esprimersi su qualsiasi tema quando vuole e tutte le volte che vuole, ed e' bene che lo faccia perche' anche questo e' un elemento di conoscenza fornito al Paese sul livello di elaborazione di una problematica da parte della sua classe politica e parlamentare.

Alcune argomentazioni, sostenute nel dibattito parlamentare e nelle Mozioni vincenti, erano destituite di fondamento, e quindi false e fuorvianti . Non perche' vincenti sono diventate vere.

Ma cio' che piu' preoccupa e' il manifestarsi ancora una volta tra i parlamentari di una interpretazione del proprio potere di rappresentanza politica, in senso assolutistico, indifferente tanto alle evidenze scientifiche, quanto alle indicazioni fornite dalla volonta' popolare, in forma diretta, nei referendum.

La pretesa delle Mozioni vincenti di chiedere una nuova legge che annulli il risultato del referendum del '93 (negandone gli effetti pratici straordinariamente positivi e accusandolo invece dei guasti prodotti dalla legislazione abrogata), rischia di passare attraverso il varco aperto, con la responsabilita' dell'intero arco parlamentare, alla vigilia di Natale del 1995, con la legge che ha reintrodotto il finanziamento pubblico dei partiti contro la volonta' popolare manifestata anch'essa nella tornata referendaria del 1993.

In quella occasione e' passata la tesi per cui la volonta' popolare espressa indirettamente attraverso il Parlamento delegato dal corpo elettorale, conta di piu' della volonta' popolare espressa direttamente dal corpo elettorale con il referendum.

2.

I presentatori e i sostenitori delle Mozioni suddette hanno affermato che "il Parlamento, con il suo voto dell'11 marzo, ha posto il veto alla discussione, da parte della Conferenza di Napoli, di ipotesi o di progetti di legalizzazione delle sostanze stupefacenti".

D'altra parte tutti i presentatori delle Mozioni hanno parlato di "riduzione del danno" ridefinendola nei contenuti in modo da renderla accettabile dal loro punto di vista.

Occorre ricordare che la denominazione "riduzione del danno" per una politica sulle tossicodipendenze, non puo' coprire qualsiasi modalita' di intervento sanitario, sociale e assistenziale,

ma deriva storicamente il suo carattere distintivo dall'esperienza fatta dalla Clinica del Merseyside, la regione di Liverpool, a meta' degli anni '80, centrata sulla pratica medica della prescrizione di morfina ai tossicodipendenti e sulla disponibilita' di materiale sterile per le iniezioni.

Dunque non solo un veto non e' ammissibile, ma se vogliamo parlare di riduzione del danno dobbiamo necessariamente prospettare una forma di legalizzazione, e la piu' appropriata appare quella che passa dal ripristino effettivo dell'autonomia terapeutica dei medici.

Nonostante il referendum del '93 avesse creato le condizioni di partenza anche per la riduzione del danno con il ripristino della liberta' terapeutica dei medici nel campo delle tossicodipendenze e lo sblocco dell'uso del metadone per le terapie protratte, secondo i protocolli americani, nonostante cio' una politica complessiva di "riduzione del danno sanitario e sociale" non e' mai stata realmente prospettata da alcun Governo in Italia, per il timore di dover affrontare il nodo della regolamentazione di un uso legale di tutte le sostanze stupefacenti, soprattutto di quelle piu' pericolose.

A tutt'oggi una politica italiana di vera e propria "riduzione del danno" appare lontana, ma gia' da ieri la maggioranza del Parlamento ha chiesto la cancellazione del risultato referendario del '93 e la piena restaurazione della linea demo-craxiana in materia di droghe. E prima della Conferenza nazionale di Napoli ha voluto escludere ogni ipotesi di legalizzazione delle droghe e persino di un loro impiego terapeutico sperimentale.

Tale indicazione e' inaccettabile per una Conferenza che ha piuttosto il compito di raccogliere in piena autonomia le evidenze scientifiche, di ogni provenienza, per fornire lei gli elementi per scelte politiche volte non tanto ad una illusoria soluzione finale dei problemi, quanto pragmaticamente a migliorare una situazione drammatica, e non solo sul piano della tossicodipendenza.

Dunque occorre essere molto chiari, nei confronti del Parlamento ma anche nei confronti del Governo: non e' possibile una efficace ed effettiva politica di "riduzione del danno" senza la legalizzazione delle sostanze oggi proibite, iniziando da forme legali di sperimentazione di somministrazione di droghe sotto controllo medico, terreno non certo inesplorato dopo i successi della sperimentazione svizzera.

Ogni altra soluzione elude il problema e non riduce ne' i rischi ne' i danni.

A ben vedere, la chiave per risolvere il problema della legalizzazione sarebbe anch'essa nel referendum del '93, se ci fosse da parte delle Istituzioni del nostro Paese un rispetto reale della volonta' popolare.

Infatti il referendum del '93 ha abrogato l'Art.72, della Legge Jervolino-Vassalli: "e' vietato l'uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope...". Dunque cio' che non e' espressamente vietato e' consentito. Bettino Craxi amava difendere la legge proibizionista da lui fortemente voluta con un argomento prediletto : "Se e' vietato e illecito il consumo personale, deve essere vietato e illecito anche acquistare e detenere la sostanza per finalita' di consumo personale".

Un ragionamento semplicistico, ma quanto meno era una impostazione chiara.

Rovesciando il ragionamento craxiano, poiche' e' consentito il consumo personale, al cittadino tossicodipendente deve essere assicurato un modo legale per entrare in possesso della sostanza.

Cio' avrebbe dovuto comportare da parte del Parlamento, la revisione del DPR 309/90 secondo l'indirizzo espresso dal voto popolare, previa denuncia della Convenzione di Vienna che vincola gli Stati firmatari a sanzionare almeno amministrativamente il consumo di stupefacenti. Infatti una Convenzione non puo' impedire alla volonta' popolare di esprimere un diverso orientamento, e questo e' vincolante per il Parlamento.

La revisione del DPR 309/90 avrebbe dovuto riguardare in particolare due punti :

a) la completa depenalizzazione del consumo di tutte le sostanze stupefacenti e psicotrope, con l'eliminazione anche delle sanzioni amministrative;

b) la legalizzazione delle cosiddette droghe leggere e la messa a disposizione legale di droghe pesanti, come l'eroina, attraverso la formula prudente e inizialmente sperimentale della somministrazione sotto controllo medico, secondo i protocolli gia' sperimentati in Svizzera., per garantire la salute e la sicurezza dei cittadini tossicodipendenti.

NOTA 4

SULLE QUESTIONI DELLA DEPENALIZZAZIONE DEI REATI CONNESSI ALLA TOSSICODIPENDENZA E DEI "RESIDUI DI PENA".

Questa impostazione di necessaria legalizzazione, di armonizzazione della legge ad un principio sancito dal voto referendario del 1993, risolverebbe anche la questione della depenalizzazione dei reati connessi alla tossicodipendenza, questione sollevata da piu' parti, non senza imbarazzi e contraddizioni.

Se il reato e' "effettivamente connesso" alla tossicodipendenza, e' finalizzato cioe' a procurarsi la sostanza proibita, l'offerta legale e' l'unica soluzione corretta. Certo il canale legale puo' essere rifiutato, ma intanto va offerto. E non potendosi escludere che un reato "connesso" sia finalizzato anche ad altro, e' bene che resti un reato e che sia perseguito come per tutti i cittadini, perche' i tossicodipendenti sono effettivamente cittadini come gli altri e responsabili come gli altri.

Cosi' come stanno le cose ora, l'unica attenuante sacrosanta per un reato connesso e' la proibizione della sostanza, non la tossicodipendenza.

A nessuno puo' essere riconosciuta la licenza di delinquere (e nessuno la puo' riconoscere), tanto piu' per tenere in piedi una proibizione colabrodo assurda e dannosa.

Lo Stato di Diritto non puo' ammettere una tale deroga ai principi di legalita', di uguaglianza dei cittadini, di certezza del diritto, senza minare i suoi stessi fondamenti, con un cieco moralismo da Stato etico-confessionale.

Diverso e' il discorso sulla cancellazione dei residui di pena per quei cittadini tossicodipendenti che hanno oramai stabilmente modificato i loro stili di vita approdando al cosi' detto "recupero sociale".

Sarebbe davvero incomprensibile gettare al vento l'importante e faticoso lavoro che ha fatto riacquistare alla collettivita' la preziosa ed esclusiva capacita' di dare di un individuo, rigettandolo in carcere, in una condizione che tutti dicono di sapere controproducente in assoluto.

Anche in questo caso non riteniamo che questa debba essere un'eccezione ad hoc prevista per i cittadini ex tossicodipendenti, ma semmai il riconoscimento di un principio generale da applicare a qualsiasi cittadino detenuto anche per altri reati, finalmente in linea con il principio costituzionale e in allontanamento dalla concezione puramente afflittiva e retributiva della pena.

NOTA 5

LA VALENZA "TERAPEUTICA" DELLA LOTTA DEI CITTADINI TOSSICODIPENDENTI PER I PROPRI DIRITTI CIVILI E COSTITUZIONALI.

Abbiamo detto della nostra esperienza fatta dalla fine degli anni '80 a oggi come CO.R.A. e negli anni 90/95 come antiproibizionisti al P.E. e in numerosi Consigli regionali, provinciali e comunali, che ci hanno consentito centinaia di contatti con cittadini tossicodipendenti alle prese con i loro problemi sanitari e sociali, complicati dalla legislazione proibizionista sulle sostanze e sulle cure.

Resta da porre un accento particolare, sia detto un po' provocatoriamente, su di una ipotesi di "terapeuticita'" del nostro approccio politico, legale, nonviolento (assolutamente originale per la natura della nostra organizzazione) al problema del "diritto alla cura" sollevato dai cittadini tossicodipendenti che a centinaia si sono rivolti a noi con richieste di aiuto.

Non possiamo escludere che la nostra natura politica abbia selezionato a monte cittadini tossicodipendenti con particolari attitudini; certo e' che il rafforzamento dei caratteri di "normalita'" e di "cittadinanza responsabile", dell'autostima, che si e' realizzata in loro attraverso la conduzione diretta, a partire dalla conoscenza e dal rispetto di fondo delle leggi, delle battaglie civili, legali e nonviolente contro la violazione dei propri diritti civili e costituzionali, si e' spesso risolto in un contributo non secondario alla fuoriuscita dalla tossicodipendenza. Su questo potremmo portare interessanti esempi.

Non abbiamo escogitato formule particolari; abbiamo semplicemente assecondato il loro desiderio di aggrapparsi, nella propria esistenza disastrata, ad ogni elemento residuale di normalita', per rafforzarla e poi espanderla; abbiamo trattato i cittadini tossicodipendenti come normali cittadini, capaci di intendere e di volere, responsabili delle loro azioni, titolari degli stessi diritti e doveri degli altri cittadini, con lo stesso diritto alla salute e a cure appropriate per la propria "malattia cronica recidivante".

Abbiamo constatato che questa impostazione ha contribuito a risollevare e rafforzare in molti di loro il senso della propria dignita' umana e civile, della propria responsabilita', la voglia di battersi per essere rispettato dagli altri, la consapevolezza di essere animati, nella loro "malattia", da un istinto di vita e non di morte.

Non a caso il CO.R.A. si e' trovato in prima linea per rivendicare il diritto alla terapia metadonica protratta, la piu' capace di aiutare questi processi di normalizzazione.

Non a caso le Comunita' terapeutiche, spalleggiate da un vasto schieramento politico proibizionista nella pretesa di rappresentare l'unica soluzione per i tossicodipendenti, hanno sempre attaccato la terapia metadonica che consentiva una sostanziale autonomia dei soggetti.

Una osservazione era ricorrente, e la riversiamo alla riflessione di ognuno. Riguarda la consapevolezza acquisita da molti che la dipendenza da una sostanza non implica la perdita della liberta' e della responsabilita' personale, ma soprattutto non giustifica l'effettiva perdita di liberta' che deriva spesso dal dover accettare, contro la propria volonta' - in strutture che risentono spesso di una impostazione illiberale, assistenzialista, statalista e confessionale - i meccanismi dell'assistenza sanitaria e sociale coatta, dove la perdita della liberta' e' vissuta come effettiva ed insopportabile perche', avvenendo ad opera di altre persone che per di piu' suppongono una loro superiorita' morale, puo' assumere i connotati della "schiavitu'", mentre la dipendenza da una sostanza farmacologica e' psicologicamente piu' sopportabile e meno degradante perche' assimilata a quella alimentare.

In questo processo di normalizzazione resta intrecciato e "normalizzato" il problema di superare, in retrocessione, i problemi connessi all'abuso e poi all'uso e poi alla riduzione di una certa sostanza, rispettando la volonta', i tempi, i limiti degli individui, fuori da ogni criminalizzazione, rifiutata e combattuta in prima persona.

Senza legalizzazione non puo' esserci "normalizzazione" e una tremenda ingiustizia continua a consumarsi a carico di cittadini "colpevoli" solo di essere dipendenti da una sostanza, e per questo costretti ad un ruolo di pericolosita' sociale che altrimenti non sarebbe superiore a quella dei diabetici.

Lucio Berte' Marzo / Aprile 1997

 
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