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Conferenza droga
Partito Radicale Silvja - 24 novembre 2000
IL PROIBIZIONISMO E' UN CRIMINE (3)
CORA - Coordinamento Radicale Antiproibizionista

IL PROIBIZIONISMO E UN CRIMINE

di Carmelo Palma

'Riabilitare' lo Stato di Diritto.

Che il proibizionismo sia un crimine, non lo diciamo per dire qualcosa di eccessivo, direbbe qualcuno, 'di radicale'.

Lo diciamo perché pensiamo - e sappiamo - che il proibizionismo mette 'in forma di legge' ciò che gli ordinamenti giuridici liberali, per essere tali, dovrebbero contendere, e non già consegnare, ai poteri della politica.

Il proibizionismo è un insieme organizzato, un vero 'sistema' di eccezioni alla regola dello Stato di Diritto. Se nella nostra società il potere politico dovesse 'difendere' i cittadini da altre forme di malattia, di povertà e di devianza, da altri flagelli sociali e 'morali', da altre tragedie umane e politiche con gli stessi mezzi con cui il proibizionismo intende proteggerli dalla 'droga', nessuno - neppure i più zelanti od ottusi fautori di questa 'benefica' eccezione - si tratterrebbe dal denunciare la natura e le finalità criminali della 'politica'.

I delitti e le pene che il proibizionismo inventa e commina, non rispondono a una generosa illusione, ma a una determinazione cieca. L'unico prodotto 'sociale' del sistema proibizionista è l'enorme narcobusiness della 'droga' e dell''antidroga': il proibizionismo vive, con le sue armate contrapposte, con le sue burocrazie organizzate, legali e illegali, dei profitti del proprio fallimento; gli enormi costi del proibizionismo sono il prezzo che la politica deve pagare agli interessi e all'intolleranza di quanti vivono e prosperano sulla 'droga' proibita.

Il proibizionismo è l'unica politica che non si giudica per quello cui serve, o dovrebbe servire, per gli obiettivi di civiltà, sicurezza, legalità che dovrebbe realizzare e non compromettere. Su queste basi avrebbe dovuto, da decenni, essere archiviato fra le più grandi vergogne di cui la politica e i politici in questo secolo si sono macchiati in nome dei più grandi principi. Invece, anche in questo, si fa 'eccezione': il proibizionismo è giustificato dal suo 'significato' morale, dalla sua intrinseca 'necessità': una tassa obbligata che la 'politica' deve pagare all'intolleranza e all'irragionevolezza.

Siamo per la riabilitazione dalla droga: riabilitando lo Stato di Diritto.

Dalle 'droghe', alla 'droga'.

Grazie al proibizionismo le droghe hanno cessato di essere prodotti di consumo - pericolosi e spesso letali -, 'sostanze', naturali e di sintesi, che hanno un effetto diretto sulla psiche e sui comportamenti umani.

Grazie al proibizionismo si è anche cessato di distinguere le sostanze in base agli effetti e alle conseguenze che il loro uso comporta, e si è imposta una classificazione politica, antiscientifica, antigiuridica delle droghe, e delle diverse discipline cui esse dovrebbero essere sottoposte.

Grazie a tutto questo - cioè, grazie al proibizionismo - la droga proibita è divenuta un sistema di violenze, di profitti e di corruzione economica e politica, un mercato di interessi sottratti a qualunque forma di controllo legale. Oggi, quando parliamo di 'droga', è diventato impossibile distinguere gli effetti delle sostanze da quello della politica. Tutto ciò che è 'droga', nella legge o contro la legge proibizionista, è riserva di poteri o di profitti criminali.

In questo senso, l'unica politica antidroga è antiproibizionista; si può dire e fare qualcosa delle 'droghe' solo sgombrando il campo dagli equivoci e dalle cause di fondo, che hanno fatto di uno specifico problema sociale e sanitario un flagello planetario.

In Italia la 'nuova' legge sulla droga ha prodotto solo nuovi delinquenti, nuovi detenuti, nuovi tossicodipendenti, nuovi mafiosi e camorristi, sia della politica sia dell'economia; le 'nuove' Convenzioni Internazionali sulla droga, che fra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 hanno 'perfezionato' la legislazione proibizionista, hanno creato un nuovo incremento di droghe prodotte e commercializzate, una nuova e gigantesca redistribuzione di profitti e poteri fra organizzazioni e Stati criminali.

La 'droga' come sistema di corruzione.

Il proibizionismo ha imposto la 'libera circolazione' delle sostanze illegali; la riforma del proibizionismo è imposta dall'esigenza di contrastarne la diffusione, ponendo rimedio al processo di 'liberalizzazione criminale' del mercato delle droghe, e alle devastanti conseguenze di ordine civile, economico, politico e sociale che derivano dal fallimento della legislazione proibizionista.

I risultati della politica repressiva contrastano con gli obiettivi dichiarati: la proibizione costituisce un incentivo alla produzione e alla diffusione delle sostanze proibite e al rafforzamento del potere politico, economico e sociale delle organizzazioni criminali. Il 'proibizionismo', inoltre, consegnando un enorme potere finanziario, di influenza e di corruzione politica alle 'mafie della droga', costituisce per i cosiddetti Paesi 'produttori' un freno sullo sviluppo - se non addirittura un fattore di regressione sociale ed economica - ed è alla base di fenomeni di sfruttamento e schiavitù criminale, che i programmi di 'eradicazione' o 'riconversione' delle culture sono solo riusciti ad aggravare.

Non vi è peggiore ipocrisia del lamentare l''eterogenesi dei fini' del regime proibizionista, come se il fallimento della repressione dipendesse da un destino malevolo e bizzarro; la fortuna, il credito e la dignità che gli ordinamenti liberali si sono meritati non dipende solo da ragioni 'di principio', ma anche dall'esperienza: gli interessi criminali sono favoriti e tutelati proprio dalle politiche che instaurano un'eccezione alla regola in nome di una emergenza criminale, che teorizzano l'illegalità contro l'illegalità, che impongono una 'politica contro il diritto', e l'illegalità, la violazione sistematica dei diritti, dilaga ope legis, dentro e fuori dallo Stato e dalla 'politica'.

Proibizionismo sulle droghe, proibizionismo sulle cure.

Non è difficile rilevare l'incompatibilità della punibilità del consumo individuale di droga, e della stessa proibizione delle sostanze psicoattive, con i principi degli ordinamenti giuridici di tipo liberale ('no crime without victime', non c'è crimine senza vittima). L'applicazione sistematica delle norme della legislazione internazionale sulle droghe e l'indiscriminato inasprimento delle politiche repressive costituiscono una minaccia concreta al rispetto dei principi contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (art. 5: "equità e proporzione delle pene"; e art. 25: "diritto alla salute e alle cure").

Al 'proibizionismo sulle droghe' si è progressivamente affiancato un 'proibizionismo sulle cure', ed è evidente la correlazione fra l'inasprimento delle politiche repressive e la diffusione di patologie correlate al consumo di droghe. Alla malattia delle droghe si è aggiunta, come corollario necessario, la malattia del proibizionismo: quella che maggiormente ammala, uccide e condanna alla disperazione, all'esclusione, alla 'colpa'.

Proprio la sistematica violazione del diritto alla salute dei cittadini tossicodipendenti - a cui è negata la possibilità di usufruire di trattamenti di comprovata efficacia - fa del proibizionismo una delle più pericolose e violente politiche di discriminazione e di violazione dei diritti umani.

Non è una questione astratta o di principio: la tossicodipendenza da droghe proibite è l'unica patologia che comporta, per sé stessa, una 'sanzione'; l'unica per cui la legge 'disponga' le forme di cura autorizzate, prescindendo dalla loro efficacia, e sospendendo la libertà di scienza e coscienza dei medici.

Del regime proibizionista si tollera che qualcuno, a mezzabocca, contesti, o, meglio, constati, la natura 'criminogena'. Del resto come altro potrebbe definirsi una politica che accresce il valore di mercato delle sostanze proibite - anzi: istituisce dal nulla un mercato illegale - e consolida i legami criminali fra i consumatori e gli spacciatori di droghe; che diffonde criminalità e insicurezza; che consegna alle 'mafie della droga' un enorme potere di corruzione e condizionamento delle società e delle economie legali e rende meno credibili le stesse strategie di cura e riabilitazione? Ciò che non regge è che questa accertata natura crimonogena venga descritta come un effetto secondario, involontario, come un limite della virtù che il proibizionismo, in altri campi, dimostrerebbe. Questo è falso.

Il proibizionismo è tutto nei suoi fallimenti. Non esiste un proibizionismo 'dal volto umano', non esiste nulla che si debba al 'rigore' proibizionista, cui non si potrebbe provvedere diversamente, senza - anzi: contro - eccezioni allo Stato di Diritto.

Le straordinarie dimostrazioni di abnegazione, di coraggio, di generosità umana e civile che spesso contraddistinguono le esperienze di recupero, non sarebbero limitate, ma rafforzate, se non fossero costrette a marciare nelle trincee di una guerra sporca e inutile. Non è possibile iscrivere d'ufficio nelle fila della milizia proibizionista chiunque si batte per riconquistare opportunità di vita o di salute per sé e per gli altri. E non è possibile immaginare alcuna alternativa che sia 'dentro' e non 'contro' la logica della proibizione, come il governo 'penale' della libertà.

La riduzione del danno.

Da oltre un decennio, in alcuni Paesi, si è pensato di porre rimedio ai disastri del proibizionismo semplicemente attenuando i rigori della legge repressiva, consentendo 'deroghe' limitate e parziali alla regola 'dell'eccezione'. Le politiche di riduzione del danno hanno avuto l'indubbio merito di porre il problema dei costi e degli effetti delle leggi proibizioniste; di innovare, sul piano concreto, le modalità di cura delle tossicodipendenze; di introdurre, in linea generale, una chiave di lettura critica e non dogmatica delle politiche sulle droghe.

Il miglioramento dei trattamenti; l'allargamento delle opzioni terapeutiche; l'utilizzo più esteso di strumenti di welfare a favore dei consumatori di droghe: sono, queste, tutte 'pratiche' efficaci per ridurre i danni delle 'droghe', ma inadeguate a ridurre i danni - enormemente più alti e pesanti - della proibizione. 'Questa' riduzione del danno - se rimarrà una alternativa interna al regime della proibizione e non estenderà la critica ai suoi principi di fondo - figurerà come un esempio patetico e sommesso di perestrojka proibizionista.

D'altra parte, la sperimentazione di trattamenti innovativi (si pensi alla somministrazione controllata di eroina) e l'estensione del diritto alla salute e alle cure per i consumatori di droghe, comportano inevitabilmente il problema dell'ostacolo e del pregiudizio che gli istituti della proibizione oppongono non solo a 'riforme di sistema', ma anche, semplicemente, alla realizzazione di politiche sociali e sanitarie innovative.

Gli effetti delle sostanze sono - per gli stessi consumatori di droghe - infinitamente meno gravi degli effetti della proibizione. Dunque, non può esistere una reale riduzione dei danni sociali, sanitari e criminali connessi al consumo di droga se non si riducono i margini e le sfere di influenza del mercato illegale, e se non si sostituisce l'offerta criminale di droghe - e, persino, di cure (si pensi al metadone di fatto proibito in Italia fino al referendum del 1993) - con forme di offerta e somministrazione legale.

L'ideologia totalitaria.

Da anni i radicali sostengono queste tesi 'eccentriche' in tutte le sedi in cui è dato loro possibilità di parlare.

Lo hanno fatto anche all'ONU, proprio mentre negli ultimi 5 anni si andava consolidando - sotto la guida di Pino Arlacchi, direttore dell'UNDCP - la più sventurata alleanza antidroga che la comunità internazionale abbia mai messo in piedi: una strategia che ha appaltato - per centinaia di milioni di dollari - la politica di repressione agli stessi Paesi produttori, e in particolare a quei Governi che, controllando direttamente il traffico di droghe proibite, erano ritenuti, per ciò stesso, partner più affidabili. Quanto la politica dovrebbe combattere, l'armata proibizionista annette nelle proprie legioni: questa strategia ha dunque finanziato direttamente l'incremento della produzione di oppio dell'Afganistan talebano, e ha sdoganato, con una apertura di credito letteralmente incredibile, uno dei regimi più sanguinari della terra. Nella indifferenza di tutti i tribuni della war on drugs, come se si fosse trattato di un fastidioso, ma inevitabile inconveniente.

Ovviamente anche all'Onu non è mancato chi contestasse agli antiproibizionisti una intollerabile intelligenza col nemico. La Federazione russa ha accusato il Partito Radicale transnazionale - ONG con status consultivo presso L'Ecosoc dell'ONU - di essere complice e amico delle organizzazioni del narcotraffico internazionale, e ne ha richiesto l'espulsione dalle Nazioni Unite. Questo disegno è stato sventato. Ma è una vicenda che torna comunque utile: per trarne una morale.

Alle accuse russe, che 'ovviamente' comprendevano la denuncia dell'ingerenza radicale sulla questione della guerra cecena - da cui, altrettanto 'ovviamente', discendevano ulteriori sospetti sulla natura criminale del Partito Radicale transnazionale -, ha risposto una mobilitazione straordinaria di centinaia di personalità del mondo culturale e scientifico, e di alcuni dei più importanti dissidenti politici (cinesi, ex sovietici, tibetani, vietnamiti...), che hanno scelto di iscriversi al Partito Radicale.

La dissidenza antiproibizionista.

Perché così tanti dissidenti politici non hanno avuto alcun timore delle accuse di 'attività criminali' che la Federazione russa continuava a riversare sul Partito Radicale?

Perché autorevoli personalità internazionali, che fino a oggi non avevano mai sottoscritto alcuna proposta antiproibizionista sulla droga, hanno scelto di difendere il diritto del Partito Radicale a dire che 'il proibizionismo è un crimine'?

Così facendo hanno certamente - e innanzitutto - scelto di difendere il principio della 'libertà di parola' e di tributare un esplicito riconoscimento all'autorevolezza e alla rispettabilità di un'organizzazione politica che la Federazione russa accusava di ogni sorta di nefandezza. Non è però escluso che sulla loro decisione abbia anche inciso il timore che il proibizionismo sulla droga stia divenendo una forma di 'totalitarismo' ideologico e politico, che criminalizza non solo chi viola le leggi proibizioniste sulla droga, ma anche chi intenda sottoporre a critica il proibizionismo come politica e come sistema.

Il proibizionismo è totalitarismo almeno nel senso in cui è ideologia che si fa Stato e regola giuridica dentro e contro la regola dell'ordinamento liberale. Il proibizionismo non è solo una politica, una 'strategia di contrasto' alle droghe; è un principio di un ordinamento giuridico parallelo, alternativo e concorrente a quello liberale; non si qualifica per i 'fini' che si prefigge - sarebbe ora di piantarla con la litania sciocca che accusa gli antiproibizionisti di essere 'per la droga' - ma per gli strumenti che adotta: sul potere abnorme che attribuisce ai poteri pubblici, politici e burocratici, sulla sospensione dei principi di libertà e responsabilità individuale. In ogni campo della politica in cui si ponga il problema di disciplinare giuridicamente i rapporti fra scienza e vita, la regola proibizionista rischia di imporsi come modello di governo.

L'antiproibizionismo rimane certamente una politica di 'opposizione' alla strategia 'contro la droga' che l'intera comunità internazionale, con pochissime e parziali eccezioni, persegue da 70 anni con risultati fallimentari. Ma sta diventando inevitabilmente anche una forma di 'dissidenza', di resistenza a una ideologia totalitaria, che estende la propria ombra su altri campi - delicati e decisivi - della politica.

All'Onu, anche a seguito della vicenda radicale, si è aperta dunque una 'questione proibizionista' che non attiene esclusivamente alla valutazione degli esiti della war on drugs, ma al rapporto più generale fra politiche proibizioniste e diritti umani, fra 'ideologia della repressione' e rispetto delle libertà civili e politiche. Dunque, anche le ragioni che il Partito Radicale ha contrapposto a quelle, giuridicamente inconsistenti, che sostenevano la richiesta di espulsione, costituiscono in realtà, più che un documento di difesa, l'ennesimo atto di accusa verso la natura criminale del regime proibizionista e la sostanziale incompatibilità del proibizionismo - come sistema giuridico e, soprattutto, come ideologia - con i principi fondamentali dello Stato di Diritto.

 
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