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Conferenza droga
Partito Radicale Silvja - 24 novembre 2000
IL PROIBIZIONISMO E' UN CRIMINE (14)
CORA - Coordinamento Radicale Antiproibizionista

APPENDICE

LIBERTA DI CURA E CARCERE

di Lucio Bertè

La relazione tra libertà di cura e carcere (con riferimento alla Legge Jervolino-Vassalli e al DPR 309/90, Testo Unico delle Leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, e di prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), non credo si possa spiegare se non si comprende innanzitutto il sistema pubblico e privato della risposta terapeutica alla tossicodipendenza, e quanto sia agibile, in questo campo, la libertà di cura all'esterno del carcere.

LEGALIZZAZIONE? ABOLIZIONISMO? DEPENALIZZAZIONE?

Come radicali non abbiamo mai impostato il problema del proibizionismo sulle droghe da un punto di vista meramente sanitario o, tanto meno, assistenziale. Appare del tutto evidente che la legalizzazione di tutte le sostanze ridurrebbe ai suoi minimi termini la risposta penale e di conseguenza anche il ruolo del carcere in questa problematica. Prendendo la questione dall'altro estremo, si può osservare che una opinione si va manifestando, ancora troppo timidamente, a favore di una riduzione, comunque, della sanzione penale, per sviluppare invece il versante "risarcitorio" e ridurre la necessità del carcere. La prospettiva, che può sembrare molto lontana, è quella dell'abolizione del carcere, passando per un ridimensionamento e una ridefinizione del suo ruolo residuale.

Il Procuratore Generale della Repubblica presso la suprema Corte di Cassazione, Dott. Antonio La Torre, nella sua relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, il 12 gennaio 2000, riferisce che a Venezia "è stata sperimentata con interesse l'attività di mediazione e riconciliazione tra vittima e autore del reato (realizzata dal Servizio Sociale Minorenni del Ministero della Giustizia), tesa a realizzare la c.d. giustizia riparativa e a perseguire la fuoriuscita del minore dal sistema penale. Positivi risultati sono stati registrati anche a Milano, e un progetto d'intervento è in via di elaborazione a Trento".

La prima spontanea considerazione è che la sperimentazione dovrebbe essere molto più vasta e soprattutto che dovrebbe estendersi subito nel campo penale degli adulti, e avere tappe di progressione scandite nel tempo. La seconda considerazione è più inquietante, perché nell'ipotesi di applicare ai reati previsti e puniti dalla legge sulla droga questo criterio riparativo o risarcitorio, ci troveremmo nell'imbarazzo di non sapere chi risarcire, proprio perché, come abbiamo sempre detto, siamo di fronte a comportamenti senza vittima e in sostanza a dei non-reati.

Un'altra tendenza timida è quella verso la depenalizzazione di una miriade di piccoli reati per i quali la sanzione potrebbe utilmente transitare dal penale al contravvenzionale, con soddisfazione di tutti, anche dell'erario. Qui le perplessità per una trasponibilità al nostro caso sono di natura politica, nel senso che le forze politiche in teoria "contrapposte", sul fatto di mantenere la materia delle droghe nell'area del penale, sono alla fine d'accordo per motivi - ritengono loro - elettorali. Su questo credo che solo il referendum - se fosse abolito il quorum - potrebbe convincerli del contrario.

PROIBIZIONISMO SULLE SOSTANZE E SULLE CURE

Torniamo, allora, al principio. Occorre sottolineare che il proibizionismo sulle sostanze si è allargato negli anni in campo sanitario, assumendo la forma del proibizionismo sulle cure, attraverso il controllo limitativo della disponibilità dei farmaci contenenti quelle sostanze, o del loro uso diretto, per le loro proprietà farmacologiche. Questo processo di fatto segnala una indebita invasione del campo scientifico da parte di un proibizionismo troppo virulento per essere credibile, e denota, piuttosto, non tanto una propensione dello Stato, quanto una volontà di tenuta di potere degli statalisti e del foltissimo stuolo di burocrati e di assistenzialisti associati, che prosperano grazie alle ingenti risorse messe in movimento dalla proibizione.

E tanto evidente la distorsione che il proibizionismo sulle sostanze provoca sulla libertà di cura, che i suoi effetti sono percepiti anche da chi vorrebbe stare lontano da queste problematiche. Valga per tutte la questione delle difficoltà che incontrano i cittadini che necessitano di cure palliative, per sé o per i propri congiunti o amici, per affrontare adeguatamente il severo dolore da cancro. E un problema gravissimo che investe in modo particolare l'Italia, e riguarda, direttamente o indirettamente, 16 milioni di cittadini. L'OMS ha dato l'allarme: in Italia è tanto basso il consumo pro capite di morfina, in rapporto al numero di malati oncologici, che è matematicamente certo che per molti di loro non c'è una efficace protezione dal dolore; e raccomanda il suo uso anche per dolori connessi a patologie meno gravi.

Il CORA, all'ultimo Congresso tenuto a Parigi, approvava una mozione particolare su questo argomento. Poteva fare di più. Ma nessun'altro si è mosso, prima che il Ministro Veronesi introducesse qualche miglioramento alla normativa sulle cure palliative, senza peraltro produrre nell'opinione pubblica la correzione dei pregiudizi, seminati per lunghi anni, nei confronti dei farmaci a base di oppiacei.

Un'altra occasione di riflessione collettiva si è avuta con il caso Di Bella. Al di là del giudizio sulla terapia, con la grande mobilitazione popolare all'insegna del diritto alla libertà delle cure e alla libera scelta del medico, siamo andati molto vicini alla possibilità di una comprensione giusta anche del dramma del tossicodipendente da parte di un gran numero di persone e dell'opinione pubblica in generale.

Quello che ancora manca non è la definizione della tossicodipendenza come malattia - nei testi scientifici c'è già -, ma questa consapevolezza nell'opinione pubblica. Deve diventare evidente per tutti la responsabilità diretta di uno stesso proibizionismo nella violazione della libertà - o potestà - terapeutica dei medici e nella violazione del diritto dei cittadini alle cure e alla libera scelta del medico e della cura, si tratti di persone malate di tumore o di persone farmacodipendenti. I loro diritti e le loro libertà sono tutelati dalla Costituzione e riconosciuti da alcune leggi, eppure sono gravemente violati in nome di altre leggi e di miopi Convenzioni internazionali, con il beneplacito del centro-sinistra e del centro-destra. La risposta può venire solo da iniziative politiche nel solco della tradizione radicale, delle grandi battaglie per i diritti civili, all'insegna della ragionevolezza, per ristabilire la certezza del diritto.

I RADICALI E LA LEGGE JERVOLINO-VASSALLI

Risposte, ancora oggi molto attuali, erano già state concepite in campo radicale, come quelle formalizzate in una proposta di legge da Massimo Teodori nel 1980. Ben altro impianto ha la legge Jervolino-Vassalli. La relazione di minoranza delle Commissioni riunite Giustizia e Sanità del Senato sul disegno di Legge Jervolino-Vassalli, fatta il 12 gennaio 1989 dal senatore radicale Franco Corleone, iniziava evocando "il fallimento della strategia proibizionista adottata negli ultimi 25 anni... l'aumento del numero di consumatori, la crescita dei decessi, la diffusione della violenza e della illegalità e lo sviluppo del crimine organizzato, che raggiunge in Italia un utile di 30-40.000 miliardi all'anno, cioè quanto basta a mettere a rischio democrazia ed economia libera..."

Oltre 11 anni dopo, nel decimo anniversario dell'entrata in vigore di quella legge, il proibizionismo è sempre lì; il fallimento è, se possibile, ancora più totale. Franco Corleone è vice ministro della Giustizia e fa quel che può per governare, tra nuovi regolamenti e promesse di nuova edilizia, quella barca di Caronte che sono le carceri, stracariche delle vittime del proibizionismo, sulle sostanze e sulle cure. E interessante, credo, rintracciare negli illustri interventi citati in quella relazione, le anticipazioni lucide del disastro che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ieri, infatti, era stato previsto, e non solo dai radicali. Radicali che, comunque, non si sono mai rassegnati alla contemplazione dei disastri e non hanno cessato mai di battersi come antiproibizionisti, sia per conquistare nuovo diritto transnazionale, sia per strappare a quella legge nazionale brandelli di diritto sequestrato ai cittadini.

Una nuova opportunità di lotta si apriva tra il 1989 e il 1990, con l'elezione di alcuni radicali in Liste Antiproibizioniste, al Parlamento Europeo e poi in cinque Consigli regionali, proprio mentre la nuova legge iniziava subito a produrre i suoi effetti perversi, soprattutto sui cittadini tossicodipendenti, forzati in un circuito giudiziario e poi carcerario.

Con l'applicazione della normativa del DPR 309/90, negli anni '91-'95 si è assistito alla generale crescita della popolazione detenuta, alla quale ha fatto riscontro un corrispondente aumento del numero dei detenuti tossicodipendenti. Il picco massimo è stato toccato nel giugno del 1994 con l'incarcerazione di 15.957 cittadini tossicodipendenti.

Nel 1992 Marco Pannella, con in mano le firme per un referendum per la depenalizzazione del consumo delle sostanze illegali, strappava al Presidente del Consiglio Amato l'impegno (poi non rispettato) per nuove norme capaci di evitare il carcere ai tossicodipendenti e ai malati di Aids. Invece sarà proprio la tenuta vincente del referendum nel 1993 a determinare, nonostante le resistenze, la scarcerazione di migliaia di cittadini, consentendo a molti altri di evitare il carcere.

Con il referendum del 1993 si è avuta la cancellazione del Decreto De Lorenzo, che poneva gravi limiti all'impiego dei farmaci sostitutivi agli stessi medici dei SERT, mentre la loro prescrizione era interdetta a tutti gli altri. Il Decreto De Lorenzo (DM n. 445/90) era stato già intaccato nel 1991 da due vittoriosi ricorsi al TAR presentati da due medici (Giorgio Inzani e Maria Grazia Fasoli, sostenuti dagli Ordini dei Medici di Milano e di Brescia) e da due utenti dei SERT. I ricorsi erano distinti, ma la loro simultaneità aveva dato loro più forza, e aveva fatto vincere assieme medici e pazienti, proprio perché la libertà di cura si concretizza nell'incontro della libertà terapeutica con la libertà di scelta, basata sulla fiducia nel medico e nella cura, da parte del paziente, con il corollario della libera disponibilità di ogni farmaco, per consentire la più ampia possibilità di cura.

LIBERTA DI CURA E RUOLO DELLA NONVIOLENZA

Se la domanda fosse: "esiste la libertà di cura?" la risposta sarebbe che esistono persone, anche medici, liberi e determinati nel non subire indebite limitazioni della propria libertà e che, di fronte alla legge ingiusta, scelgono la via della nonviolenza e della disobbedienza civile. La storia radicale è costellata di azioni nonviolente condotte esemplarmente da medici disobbedienti alle leggi per essere obbedienti alla deontologia professionale e alla propria coscienza.

Nel marzo del '92 il CORA coordinava l'annuncio di disobbedienza civile di trenta medici (di Milano, Firenze, Padova, Genova, Venezia, Napoli, L'Aquila e Roma) che hanno inviato al Ministro della Sanità questa dichiarazione: "presentandosi a me uno o più casi di tossicomani in ricorrente sindrome di astinenza non avrò esitazione a soccorrere tali soggetti come disposto dall'art. 120, comma 4 del DPR 9.10.90 n. 309, e usando la somministrazione o la prescrizione di sostanze adatte, ivi inclusa la morfina, come disposto dagli articoli 42 e 43 del citato DPR". Tra questi medici, Gino Del Gatto (già autodenunciatosi in passato, e processato per prescrizione di morfina come disobbedienza civile); Giorgio Conciani (uno dei campioni della battaglia per una legge per non morire di aborto); Giorgio Inzani e Marco Novati (indagati e poi prosciolti a Biella per prescrizione di Temgesic); Marina Satta indagata e prosciolta a Sassari; Ignazio Marcozzi Rozzi, autodenunciatosi per prescrizione di morfina a un paziente alle

rgico al metadone.

Il ruolo della nonviolenza, intesa come priorità della coscienza e, per un medico, anche della scienza, è decisivo per capire cosa è giusto fare per rispettare la propria e l'altrui umanità. Accanto ai pochi medici che hanno operato nei SERT senza accettare le limitazioni del Decreto De Lorenzo sul metadone, è doveroso ricordare pubblicamente i tanti medici sparsi in tutta Italia perseguitati, processati, incarcerati per aver prescritto la morfina a pazienti trascurati dai SERT e con la salute ridotta al lumicino per l'uso dell'eroina di strada. Non erano antiproibizionisti, non avevano particolari propensioni politiche, forse non sapevano nulla di nonviolenza: erano medici fedeli alla loro professione. Credo che sarebbe giusta una iniziativa per il conferimento - almeno a qualcuno di loro - della medaglia d'oro al valor civile per aver salvato la vita a molti cittadini abbandonati senza alcuna cura.

ALCUNE BATTAGLIE RADICALI

Con il Referendum del '93 avveniva la restituzione, anche formale, a tutti i medici della loro libertà di curare anche un paziente tossicodipendente per la sua farmacodipendenza. Normale diritto, che però la legge riservava solo ai duemila medici dei SERT, lasciandone privi altri 200 mila, che, volendo, sarebbero stati un'onda benefica, una grande e adeguata risposta alla grande domanda di cura trascurata dai SERT.

Se l'abrogazione del decreto De Lorenzo non aveva moltiplicato né per mille né per cento le cure da parte dei privati, l'azione del CORA - e soprattutto il lungo digiuno di Maurizio Turco e di 200 cittadini tossicodipendenti - strappava, nel 1994, al Ministro della Sanità, non certo "prescrizioni" comunque illegittime, ma Linee guida scientificamente molto più dignitose di quelle abrogate, e che sono servite a rimettere in pista la corretta terapia metadonica in molti SERT, con grande vantaggio per la salute e per una maggiore serenità di vita di molti cittadini farmacodipendenti da eroina. Nel giro di un anno circa 16 mila nuovi utenti si rivolgevano ai SERT, provenienti direttamente dalla strada, mentre solo 2-3 mila lasciavano le Comunità di recupero residenziali. Nello stesso anno il CORA depositava in Parlamento due proposte di legge di iniziativa popolare: per la legalizzazione della marijuana e la distribuzione sotto controllo medico dell'eroina (diacetilmorfina), e per l'assistenza ai malati di Aids.

Nel 1995, una nuova raccolta di firme referendarie veniva decisa a San Patrignano, dove con Vincenzo Muccioli si definiva una comune battaglia contro i residui di pena che colpivano cittadini ormai fuoriusciti dalla tossicodipendenza e già reinseriti nella vita normale. Raccolta firme durissima e contrassegnata da un crescendo di azioni nonviolente dei radicali per l'informazione, culminate con il lungo sciopero della sete di Pannella e con i nudi "per la verità" del Teatro Flaiano.

Nel 1996 andava a vuoto il referendum per una disciplina legale della coltivazione, della vendita e del consumo della canapa indiana e dei suoi derivati, per svuotare le patrie galere da migliaia di innocenti consumatori e scambiatori di una sostanza innocua (referendum che avrebbe davvero tolto alla Legge Jervolino-Vassalli un'altra quota del suo potere criminogeno). Ma, nello stesso periodo, sugli stessi obiettivi, partiva una stagione di disobbedienze civili reiterate ed estese; come una semina testarda su un terreno politico difficile, che dà i suoi frutti con la lentezza della giustizia italiana, in termini di segmenti di giurisprudenza utili per far crescere la riflessione e la coscienza - ma anche la scienza - collettiva sulla questione delle cosiddette "droghe", e sulla pericolosità che assumono, non per sé, ma per le leggi proibizioniste e per la pretesa dello Stato di limitare le libertà individuali oltre ogni misura di ragionevolezza.

Resta scoperta la questione della disponibilità della diacetilmorfina (eroina) come farmaco inserito nella farmacopea ufficiale, e del suo uso terapeutico (anche nella cura della farmacodipendenza dalla stessa diacetilmorfina) e della necessità e urgenza di applicare anche in Italia le evidenze della sperimentazione svizzera. E ormai maturo il tempo della disobbedienza civile per inchiodare i Ministri della Sanità, che si sono susseguiti in questi anni, alla loro responsabilità di titolari politici della tutela della salute dei cittadini, che hanno per anni "omesso gli atti d'ufficio" necessari per proteggere la salute e la vita di una parte di questi cittadini, dipendenti da un farmaco - la diacetilmorfina, appunto - e costringendoli a sostituirlo con una sostanza sporca e pericolosa come l'eroina di strada, non dosabile e gestita, per la composizione e la distribuzione, dalla criminalità. Di questo sono morti, di overdose e di Aids, in questi anni di proibizionismo sulle sostanze e sulle cure, decine di mi

gliaia di persone: una strage che continua nel silenzio, e che deriva da una strage di diritti umani fondamentali, da un gigantesco crimine contro l'umanità.

Solo il CORA, a partire dal 1991, si è battuto contro i SERT che, con poche ammirevoli eccezioni, praticavano le terapie come fossero TSO: il più delle volte disintossicazioni finalizzate all'ingresso nelle Comunità di recupero; e a chi chiedeva il metadone, se aveva un lavoro glielo facevano perdere, e se aveva un figlio l'Assistente Sociale faceva partire la relazione al Tribunale dei Minori, scattava l'affidamento ad altri e poi l'adozione. Il grosso dei SERT, piuttosto che praticare terapie con metadone a lungo termine, lasciavano i tossicodipendenti per strada, senza protezione farmacologica, senza assistenza medica, esposti al rischio dell'overdose, dell'infezione, dell'Aids e della galera, costretti alla delinquenza e alla prostituzione.

Prima che la Conferenza sulla droga di Palermo del 1993 lanciasse a parole la svolta della "riduzione del danno", già nel CORA si denunciava la contraddizione di un assistenzialismo che si proponeva di soccorrere non coloro che non si volevano curare, ma coloro che volevano essere curati ma che i SERT spesso rifiutavano di curare. La riduzione del danno deve ridursi anch'essa. Dovrà affrontare solo quello che resterà scoperto dopo che ognuno avrà fatto il suo dovere nel garantire a tutti i cittadini, anche ai farmacodipendenti, il diritto alle cure, a tutte le cure, senza pregiudizi.

LIBERTA DI CURA IN CARCERE: CONTRADDIZIONE IN TERMINI

Parlando di carceri è difficile immaginare che qualcosa di libero possa accadervi, se non, ossessioni permettendo, le attività di pensiero e di immaginazione. Questo per il detenuto. E per il medico? Che il medico operi in carcere o fuori, il discorso non cambia rispetto al suo dovere di obbedienza alle norme della deontologia medica. Nel carcere quello che si verifica è un durissimo scontro tra il trattamento sanitario, il trattamento penitenziario e le esigenze di sicurezza che si risolvono spesso nella custodia pura e semplice del cittadino detenuto. Se c'è un contrasto, le esigenze sanitarie in genere soccombono; nella cura dei cittadini tossicodipendenti la legge prevede che sia il SERT competente per territorio a collaborare con i sanitari del carcere.

Dal 1 gennaio 2000, la competenza è invece assunta direttamente dal SERT. La legge prevede che tra i SERT e l'Amministrazione penitenziaria debba essere stipulata una convenzione per la cura dei cittadini tossicodipendenti detenuti, anche in vista delle possibili misure alternative alla detenzione in carcere, assicurando ogni tipo di trattamento, anche quello metadonico. Ma poche sono le convenzioni stipulate secondo la legge e, per quanto riguarda i trattamenti metadonici, per 10 anni consecutivi la percentuale dei trattamenti con metadone in carcere è stata - nel migliore dei casi - dieci volte inferiore alla percentuale dei trattamenti metadonici fatti all'esterno.

Su questo il CORA ha presentato decine di esposti alle Procure della Repubblica in tutta Italia, molti dei quali già archiviati nonostante l'obbligatorietà dell'azione penale. Per quello che sappiamo, il rapporto tra SERT e carcere è stato soprattutto di latitanza e di delega al carcere della responsabilità della cura. La cura del carcere è sempre stata una sola: disintossicazione, assistita da farmaci come il Minias, il darkene ecc., dati spesso in cocktail. Con il Dott. Giorgio Inzani, Consigliere regionale lombardo nel 1992, ho assistito a San Vittore alla crisi di astinenza, a cinque giorni dall'arresto, di un tossicodipendente scalato direttamente da 80 mg di metadone a zero. Posso d'altra parte testimoniare che invece a Ferrara nel 1991 erano molti i tossicodipendenti che si facevano incarcerare di tanto in tanto "per riposarsi", dato che a Ferrara il carcere dava il metadone, anche se a scalare, ma il SERT assolutamente no.

Del resto il carcere è visto dagli stessi magistrati come occasione per "curare" - dicono loro -, cioè per disintossicare e mantenere lo stato drug free. Questo anche al momento della dimissione, con il rischio concreto di overdose alla prima ricaduta. E infatti il massimo di decessi si è avuto tra coloro che uscivano disintossicati (e quindi non protetti) da istituzioni chiuse come il carcere o come le Comunità terapeutiche residenziali. Pur dovendo constatare, dai casi di overdose, la presenza di eroina in carcere, i medici penitenziari non hanno esercitato la libertà di curare, ma si sono presi la libertà di negare la cura metadonica che li avrebbe protetti dall'overdose.

In termini generali, tra carcere e cura c'è contraddizione in termini: il carcere fa ammalare, e soprattutto la mala giustizia fa ammalare. Questo è testimoniato costantemente dai detenuti, e per i radicali vale soprattutto la testimonianza di Enzo Tortora che di carcere e di mala giustizia è morto e lo aveva preannunciato dicendo: "hanno fatto scoppiare una bomba atomica dentro di me". Si dice comunemente che l'anima è "imprigionata" nel corpo. Quando il corpo è imprigionato, non è libero di andare e venire; l'anima, la psiche, subisce una doppia carcerazione e soffre. La costrizione in un luogo chiuso, la limitazione del movimento, sono sopportabili solo se sappiamo con certezza che la loro durata sarà abbastanza breve. Al di là delle condizioni di abitabilità e di igiene del carcere, al di là delle patologie che uno già aveva prima di entrarci, la sola sofferenza psichica non può che generare nuove malattie, per via psicosomatica. Il carcere è iatrogeno di per sé; non è tanto lo stare in un luogo separato

, ma sono le "regole" che ti obbligano anche nei piccoli gesti quotidiani. La libertà viene tolta "fin nei minimi particolari", con un effetto di spossessamento del corpo. Il carcere è tortura fine a se stessa. Lo stesso sovraffollamento - vera e propria pena accessoria - può avere effetti iatrogeni, anche se molto spesso serve a salvare la vita del disperato o ad assistere chi è senza cura. Come quel detenuto incontrato con Marco Pannella a Opera nel 1993. Aveva la mandibola fratturata ma gli portavano da mangiare solo bistecche e non gli davano la dieta liquida. Il brodino glielo preparavano i compagni di cella.

La detenzione avviene secondo modalità anticostituzionali. Le carceri stesse sono strutture "architettonicamente" anticostituzionali e illegali. La sanzione penale prevede la reclusione, non la privazione della salute, dei minimi requisiti di volume d'aria e di ventilazione, di luce e di ombra, di caldo e di fresco, di spazio abitabile definito secondo i parametri del vivere civile, sanciti nei regolamenti edilizi e d'igiene del più piccolo dei Comuni italiani e dell'ultima delle Aziende sanitarie locali.

Le carceri dovrebbero essere dichiarate inabitabili dai Sindaci dei Comuni sul cui territorio sono costruite. I sindaci hanno, infatti, il dovere di intervento a tutela della salute dei propri cittadini e di coloro che si trovano temporaneamente nel loro territorio. Ciò che va abbattuta è la pretesa extraterritorialità di un carcere, come se fosse fuori dal mondo, come se il sistema delle carceri fosse un pianeta a se stante. L'assunto costituzionale implicherebbe più occasioni - e non meno - di crescita umana e civile; più opportunità - e non meno - di studio, di cultura, di arte e di lavoro; più spazio all'affettività e ai rapporti familiari e di amicizia, e non la deprivazione sensoriale; per ricostruire la propria storia di cittadini con tutta la dignità intangibile. La rieducazione non può essere intesa come pratica correzionale (chi ne avrebbe la titolarità, anche solo morale, e chi le capacità?) ma come ripresa di un processo di autoeducazione permanente, come accompagnamento di un possibile ri-cominc

iamento.

Ha dichiarato Giancarlo Caselli, direttore del DAP, sull'Unità del 16 giugno scorso: "mancano spazi fisici per la formazione professionale, la scuola e la rieducazione in generale". Dunque non si può fare quello che la Costituzione dice che si deve fare, perché sia legittimo limitare la libertà di un cittadino. E inutile girarci intorno: di fronte a una Costituzione repubblicana e a una sovranità popolare che formalmente afferma principi quali quelli degli artt. 27 e 28, c'è una pubblica opinione sbandierata a sostegno di un assunto anticostituzionale realizzato, e ben concreto nei mattoni e nel cemento - oltre che nella organizzazione - di un carcere.

Ricordiamo che un tossicodipendente si trova in carcere per una anomalia, quella per cui ai cittadini affetti da tossicodipendenza da eroina - definita come malattia nei manuali di psichiatria - viene proibito l'accesso legale, attraverso la mediazione del rapporto con il proprio medico, a una sostanza farmacologicamente pura ed esattamente dosabile (pur essendo per lui sostanza d'abuso); mentre ai medici viene impedita la piena libertà di cura impedendo loro di accedere a qualsiasi farmaco ritengano utile per curare - compresa la di-acetil-morfina - esclusa dalla farmacopea. Per questo finiscono in carcere i tossicodipendenti. E dunque che senso ha parlare di come funziona la libertà di cura in carcere per queste migliaia di persone che in carcere non dovrebbero esserci, perché condannate per reati senza vittima? O per le altre molte migliaia che in carcere potrebbero non esserci, dato che poi risultano innocenti; o che potrebbero aver avuto misure alternative alla detenzione, fuori dal carcere, solo che le

Istituzioni avessero rispettato le leggi? Quante delle 35 mila patologie curate sono toccate proprio a loro? E quante sono quelle trascurate? E cosa dire, dei 250 morti del 1999 - 100 dei quali deceduti in ospedale o nel tragitto tra il carcere e l'ospedale - tanto per alleggerire la statistica e togliere dall'imbarazzo i governanti? Cosa significa che il 70 % dei decessi riguarda persone tra i 18 e i 30 anni? Cosa significano 89 suicidi nel 1999? Cosa significa a San Vittore un suicidio negli ultimi 18 mesi a fronte di sedici tentati suicidi sventati? Cosa dire delle migliaia di atti di autolesionismo? Quanti di questi eventi non si dovevano verificare perché riferiti a casi di detenzione "evitabile"? Ma, soprattutto, cosa si aspetta a smontare il meccanismo infernale messo in piedi con la legge Jervolino-Vassalli?

LA MAGISTRATURA VUOLE DETTARE LE CURE

Attraverso questa legge si afferma la pretesa dello Stato di impadronirsi della competenza sanitaria in materia di tossicodipendenza, esercitandola attraverso la Magistratura, sia quella requirente, sia quella giudicante, sia quella di sorveglianza. Le prescrizioni e i controlli che costellano tutti gli articoli di legge sulle misure alternative al carcere - tutte ricondotte al Tribunale di sorveglianza - hanno la pretesa di determinare il come, il quando e l'efficacia o meno delle terapie. E così nella legge attuale, ma lo era anche nella legge precedente.

Nulla è cambiato: nella testa dei magistrati (e nelle loro sentenze, anche quelle della Cassazione) c'è solo la parola "disintossicazione", a tutti i costi, senza nulla sapere delle caratteristiche di quella particolare malattia che si chiama tossicodipendenza; "malattia cronica recidivante", che mal si concilia con terapie in tempi rapidi e certi, come loro pretendono che siano e come medici poco scrupolosi si adattano a eseguire; malattia che contempla la ricaduta come passaggio inevitabile nel suo decorso, e non come manifestazione evidente nel soggetto di una "perversa volontà di drogarsi", a sua volta sintomo di delinquenza congenita o di propensione a delinquere acquisita o di intrinseca pericolosità sociale, tanto da meritare l'immediata revoca delle già scarse misure alternative.

Purtroppo i Magistrati non trovano adeguata resistenza da parte dei medici dei SERT, che troppo facilmente si adattano alle loro richieste, che non hanno alcun fondamento nella scienza medica. E forse questo tradisce il ritardo colpevole nella preparazione professionale di molti operatori, anche sanitari, all'interno dei SERT. Nei SERT c'è sempre stato del resto un braccio di ferro - si fa per dire - tra la componente medica (in teoria quella che poteva valorizzare le terapie farmacologiche, in particolare quella metadonica) e quella psico-socio-riabilitativa, propensa alle rapide disintossicazioni, magari con il metadone a scalare, per spedire infine i tossicodipendenti alle comunità di recupero che aspettavano a braccia spalancate nuovi utenti, e che ponevano come condizione irrinunciabile di accesso la completa disintossicazione.

Che la politica sanitaria in materia di tossicodipendenza sia stata fatta in Italia soprattutto dai Muccioli e dai Don Gelmini (nonostante i Don Ciotti e i Don Gallo), piuttosto che dagli esperti sanitari, è risaputo e dovrebbe essere sentita come una vergogna da tutti noi. C'è stato un tempo in cui i Ministri della Sanità andavano a San Patrignano, o ad Amelia, per trovare l'ispirazione per le politiche sanitarie sulle tossicodipendenze per il nostro Paese. Del resto Muccioli si vantava di aver "dettato" al Ministro De Lorenzo le norme per i trattamenti metadonici solo a scalare, scritte poi nel suo famigerato decreto 445/90 sul metadone.

Di null'altro dovrebbero essere imputati De Lorenzo e i Ministri della Sanità che lo hanno preceduto e seguito (soprattutto di parte liberale), se non delle migliaia di vittime provocate dal sistema della "porta girevole" nei SERT, che disintossicavano e ributtavano in strada chi andava volontariamente al SERT per farsi curare, con lunghi intervalli di non-cura e di "evitabile" assunzione di eroina di strada. Erano in strada, ma spesso risultavano in carico. Sarebbe interessante andare a contare quanti sono morti mentre erano "in carico" ai SERT.

Questo dovrebbe fare la Magistratura - invece di indagare i medici del SERT di via Boifava a Milano per sospetta imperizia nelle prescrizioni del metadone e dell'affidamento del farmaco - a partire dal caso di una madre tossicodipendente in cura che si è suicidata portando con sé anche la figlia. L'accusa è nata perché si sospetta che la strage sia stata attuata tramite ingestione di metadone. La versione più verosimile è che il Tribunale per i Minorenni stava per portarle via la figlia, e questo ha fatto scattare la decisione di andarsene con lei, in un luogo dove finalmente questa giustizia deve lasciare in pace le sue vittime. Non c'entra il metadone, perché è chiaro che, dato il motivo, si sarebbe suicidata con qualsiasi mezzo.

Di queste storie mistificate, voltate nel loro opposto, è piena zeppa la storia dei tossicodipendenti in questi lunghi anni. Storie di orrore ai danni di persone generalmente miti, e perseguitate a causa del non riconoscimento del loro status di cittadini e di cittadini malati. Per fortuna - è il caso di dirlo - il Dott. Giorgio Inzani, indagato con l'accusa di "prescrizione non terapeutca" di metadone, è stato prosciolto. La formula del decreto di archiviazione contiene un passaggio di straordinaria importanza: la competenza sulla efficacia di una terapia spetta al medico e non al magistrato. Sembra poco eppure potrebbe essere il segnale che qualcosa finalmente si apre.

IL FALLIMENTO DELLE MISURE ALTERNATIVE

In sede di bilancio sulla Legge Jervolino-Vassalli, se dobbiamo considerare la parte che riguarda il carcere, il successo dovrebbe essere misurato dal numero di coloro che non ci entrano. Al recente Convegno nazionale su tossicodipendenza e carcere, tenutosi ad Abano Terme, una responsabile del CSSA (Centro Servizi Sociali Adulti) di Milano, Antonietta Pedrinazzi, ha tracciato un quadro disastroso sulla agibilità delle misure alternative al carcere, per l'esecuzione penale esterna.

Nel 1999, il totale delle misure alternative ha riguardato 35.000 persone. I tossicodipendenti che hanno avuto l'affidamento sono stati in totale di 6.358, quelli provenienti dalla libertà sono stati 5.204, e quelli che provenivano dalla detenzione sono stati 1.154.

Esiste il problema dell'anticamera dell'affidamento: il soggetto t.d. viene scarcerato in attesa dell'udienza per l'eventuale concessione della misura alternativa, e nel 65% dei casi inizia subito il programma al SERT. Il protrarsi dell'attesa (fino a due anni) può creare inconvenienti: ad esempio, il programma potrebbe essere concluso prima della sottoscrizione della prescrizione che lo prevede. Per la scarsa adesione comportamentale alle prescrizioni che saranno poi contenute in ordinanza, aumentano le probabilità di revoca. Infatti il tasso di revoca è elevato: il 61 % degli affidamenti per casi particolari (quindi per t.d.) viene revocato entro il sesto mese, il 26,5 % nel corso del terzo mese di esecuzione. Ma ecco il nodo fondamentale: "Se l'affidamento è concesso ai sensi dell'art. 94 T.U. 309/90, nel programma riabilitativo previsto in ordinanza viene a iscriversi un programma terapeutico, nella maggioranza dei casi preesistente, che per ratio propria risponde a criteri gestionali e valutativi divers

i rispetto a quelli solo trattamentali. Esempio: il SERT sulla base di principi di deontologia quali la esclusiva competenza in campo terapeutico, il segreto professionale sui dati personali, in base a principi deontologici NON riferisce sulle trasgressioni dell'affidato circa l'attuazione del programma terapeutico, o circa le prescrizioni contenute in ordinanza, nel 43 % dei casi a livello nazionale. Il SERT è disponibile a fornire informazioni sui risultati del monitoraggio urinario in circa il 50 % dei casi con un picco negativo nel sud".

Se questo è vero, forse è un indizio di un inizio di resistenza alla pretesa dei giudici di decidere del bene e del male anche sulla salute dei cittadini. Resta una domanda finale sul come sia possibile che al di là di quello che dice la norma di legge scritta, la Magistratura faccia quello che le pare (in genere fa peggio di quello che la legge prescrive), e il Parlamento e il Governo o non se ne accorgono o fanno finta di non vedere.

Su questo sfondo, assistere al massacro di migliaia di cittadini tossicodipendenti è ancora più intollerabile.

Lucio Bertè

Architetto, militante radicale antiproibizionista

 
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