Nel dibattito italiano di questi giorni sulla moneta unica sono riaffiorati tutti i nostri vizi e le nostre suscettibilità. Tra i vizi c'è certamente quello di perdere di vista la sostanza per farsi tentare dalle citazioni letterarie. Se poi c'è di mezzo Thomas Mann - Germania europea o Europa germanica? - la tentazione diventa irresistibile. Tra le suscettibilità c'è l'eterna paura di essere trattati da parenti poveri, di essere "spintonati" fuori dal club, in questo caso dai tedeschi.
Da parte mia, in questa come in altre discussioni, preferisco piuttosto rifarmi alle regole. Le regole in materia di unione monetaria europea non sono un'invenzione, o peggio un diktat, di Bonn: sono nel trattato di Maastricht, sono state a suo tempo liberamente negoziate e sono state altrettanto liberamente accettate da tutti coloro che hanno ratificato il trattato stesso. Di qui la mia reazione alle dichiarazioni di Waigel: a decidere chi potrà far parte dell'unione monetaria sarà il Consiglio europeo, sentita la Commissione e l'Istituto Monetario Europeo - non il ministro delle finanze tedesco. Quest'ultimo, come chiunque altro, resta libero di avere le proprie opinioni su chi ha le migliori chances di soddisfare alla fine i cosiddetti criteri di convergenza. Tutto quello che gli si può legittimamente chiedere è un minimo di prudenza nelle proprie esternazioni - tenendo conto che di "volatilità" dei mercati finanziari si parla ormai perfino nelle mense degli asili nido.
Insomma: come è stato ribadito lo scorso week-end nel vertice di Valencia dei ministri delle finanze dell'Unione, pacta sunt servanda. Sulla base dei risultati macroeconomici del 1997, il Consiglio deciderà quali saranno i paesi in grado di lanciarsi, sin dal primo gennaio del 1999, nella terza fase dell'unione monetaria. Nulla di nuovo rispetto a quanto già previsto a Maastricht quanto alle modalità e ai tempi del processo.
Che i patti vadano rispettati non significa che, attraverso il consenso dei contraenti, non possano essere modificati. Se il governo italiano si sente "spintonato" da Maastricht, non gli rimane altra via che quella - impervia - di proporre una revisione del Trattato. Qui la domanda che dobbiamo farci è: ci conviene? Secondo me, no. Se c'è un interesse nazionale oggi, questo è per l'Italia il risanamento dei propri conti pubblici. Pensare che tale risanamento sarebbe meno doloroso senza i criteri di convergenza comunitari significa illudersi. Illudersi, ad esempio, di poter ripagare il debito con lire svalutate. Oppure illudere l'elettorato, in vista delle sempre imminenti elezioni politiche, che l'amministrazione pubblica possa assorbire parte dei disoccupati. Meglio allora, se perderemo l'appuntamento del 1999, farcene serenamente una ragione, sostenere il gruppo di paesi disposto a procedere sulla strada dell'Unione monetariae concentrarci nel creare le condizioni per unirci al gruppo il più presto possibi
le. Non abbiamo niente da perdere e tutto da guadagnare.
Tutto ciò premesso, è innegabile che ben prima delle dichiarazioni di Waigel sull'Italia il governo tedesco abbia esplicitamente chiesto un irrigidimento, rispetto ai criteri fissati a Maastricht, delle politiche fiscali dei paesi membri in regime di moneta unica. Anche queste dichiarazioni sono apparse a molti, da noi, come un segnale dell'intenzione tedesca di coartare i propri partner. Di voler costruire, insomma, un'Europa a propria immagine e somiglianza. Ma è proprio qui, credo, il nocciolo del problema. Vogliamo davvero farla l'Europa? E quale Europa vogliamo costruire? Al di fuori del contesto politico loro proprio, infatti, le questioni monetarie appaiono al peggio come un vuoto esercizio di contabilità; al meglio come il campo di battaglia tra opposte scuole di pensiero economico.
Viceversa, esse fanno parte di quel grand bargain che è da sempre il processo di costruzione europea: ciascuno Stato nazionale è disposto a cedere parti della propria sovranità a condizione che i partner facciano altrettanto. Ora, non c'è alcun dubbio sul fatto che il marco sia nell'immaginario tedesco il simbolo della stabilità e della prosperità di cui questo paese ha goduto nell'intero dopoguerra. E' insomma il simbolo del migliore prodotto della sovranità tedesca. E le condizioni poste da Bonn per rinunciarvi non mi sembra siano più rigide, ad esempio, di quelle francesi e britanniche quando si tratta di devolvere almeno parte delle proprie prerogative nazionali in materia di politica estera e di sicurezza.
Dunque, chi ha a cuore l'Unione vera di questo continente, quella politica, non è a Bonn che deve chiedere flessibilità. Deve rivolgersi piuttosto a Parigi e a Londra. E se il disegno della Germania, nemmeno tanto occulto, è quello di vendere cara la pelle sull'Unione monetaria per strappare concessioni sui problemi-chiave dell'Unione politica - leggi politica estera e di sicurezza comune - ben venga. Attenzione, dunque: tutto questo gran parlare di germanizzazione dell'Europa sembra la scusa perfetta per non cedere nemmeno un millimetro di sovranità, che si tratti di banche centrali, di ministeri della difesa o di foreign office. Per non avere, alla fine, nessuna Europa.
E noi italiani? Piuttosto che sentirci vittime di una presunta arroganza tedesca faremmo bene a chiederci, se vogliamo restare nel club, come inserirci in questo grand bargain. A chiederci, in altre parole, cosa abbiamo oggi da cedere ai nostri partner che non sia la montagna di debiti che abbiamo accumulato.
Emma Bonino
Commissario europeo