a cura di Nereo LaroniLa Presidenza italiana si troverà a gestire, tra gli altri, alcuni processi di fondamentale importanza per il nostro Paese, in considerazione della sua posizione geografica: l'applicazione degli accordi di pace di Dayton sull'ex Jugoslavia e la traduzione nel concreto delle decisione assunte alla Conferenza di Barcellona. Quali apporti specifici, a suo avviso, l'Italia potrà dispiegare in questi due ambiti?
L'ex Jugoslavia è la prova del fallimento dell'Europa, delle ragioni per cui quarant'anni fa sei paesi, la Francia, la Germania, l'Italia e i tre paesi del Benelux, si unirono e dissero: mai più guerre. Ma cosi' non è stato: quella bosniaca è stata, infatti, una guerra dentro l'Europa e, per questa ragione, sono favorevole all'adesione della Bosnia all'Unione europea da molti mesi - quando ancora gli orrori erano all'ordine del giorno e l'Unione non poteva far altro che registrarli e correre in soccorso con gli aiuti umanitari. L'ex Jugoslavia è la prova del fallimento della politica estera dell'Ue cosi' come è stata concepita dal Trattato di Maastricht: gli accordi di pace non sono di Madrid o di Roma né tanto meno di Parigi - sebbene proprio nella capitale francese siano stati siglati - bensi' portano il nome di una sperduta e sconosciuta cittadina degli Stati Uniti d'America. Si tratta di una pax tutta americana che l'Europa, divisa e senza una volontà comune, si trova ora a dover pagare: a Clinton e Holb
rook i meriti diplomatici, a noi europei il conto della ricostruzione economica. Se guardo al futuro, proprio l'area del bacino del Mediterraneo rappresenta il prossimo banco di prova per l'Europa e per la sua politica estera; infatti, se si parla di sicurezza e di stabilità, le frontiere dell'Unione sono almeno due, una a est e una a sud. Un primo significativo segnale di attenzione verso il Sud lo abbiamo avuto al Consiglio di Cannes quando sono stati stanziati quasi 4 mila 700 milioni di ecu per il periodo 1995-99 per lo sviluppo socio-economico di quest'area. Si tratta di fondi comunitari disponibili cui bisognerà aggiungere l'intervento della Banca europea per gli investimenti e i contributi bilaterali degli Stati membri. Con la sfida mediterranea lanciata con la Conferenza di Barcellona nel novembre scorso, l'Unione europea ha compiuto un salto di qualità: si tratta di un grande esercizio di diplomazia preventiva per rispondere a quelle che i cittadini europei percepiscono come potenziali minacce, la p
ressione migratoria e l'integralismo religioso. La Conferenza euromediterranea, un successo per la Presidenza spagnola, rappresenta solo l'avvio dei lavori: tocca ora all'Italia, questi sei mesi in cui si troverà alla guida dell'Unione, far entrare Euromed nella fase operativa, e far capire che quelleminacce riguardano non solo gli Stati membri (i paesi latini e la Grecia)che sul Mediterraneo si affacciano, ma l'Unione nella sua interezza.
Come puo' l'Unione europea svolgere un ruolo effettivo nell'area mediterranea e in quella balcanica se la Politica estera e di sicurezza comune resta tuttora sulla carta?
La Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato di Maastricht, che si aprirà a Torino il 29 marzo, mi auguro riesca a sciogliere il nodo che i federalisti europei hanno individuato da decenni: il ridimensionamento delle politiche nazionali e il trasferimento di poteri e capacità decisionali all'Unione in quanto tale, affinché l'Europa possa essere attrice internazionale, con una capacità d'azione che sia qualcosa di più del minimo comune denominatore di quindici - o trenta - stati differenti.
Intanto il "partenariato globale", già sperimentato nell'Europa centro-orientale e ora utilizzato nell'area del Mediterrano, è il solo strumento a disposizione dell'Ue, gestito direttamente dalla Commissione, per parlare con una voce sola. Ma, lo ripeto, bisogna agire per non perdere l'occasione di avere, nel Mediterraneo, un ruolo di leadership politica. La Presidenza spagnola è stata brillantissima non solo per il successo della Conferenza euromediterranea, ma anche perchè ha siglato tre accordi fondamentali, con Tunisia, Marocco e Israele, e ne ha impostati altri quattro, con Algeria, Siria, Giordania e Palestina. Spetterà ora all'Italia portarli a buon fine e, come dicevo prima, dimostrare la volontà di indirizzare verso qust'area, come anche verso i Balcani, una serie di interventi assolutamente prioritari. Le risorse ottenute dal Consiglio a Cannes nel giugno scorso, se non saranno investite, non resteranno a disposizione del Mediterraneo in esterno.
Nel 1998 scade il Trattato dell'Ueo. Quale, a suo avviso, il destino di questa organizzazione e in quale rapporto essa si potrà porre con la Nato e l'eventuale "Mister Pesc"?
La mia preferenza va, evidentemente, per un'incorporazione dell'Unione europea occidentale nell'Unione europea, con relativa denuncia del Trattato di Bruxelles dopo il 1998. Per far cio', tuttavia, bisognerebbe che la Conferenza intergovernativa stabilisse chiaramente questo obiettivo, assieme a un calendario per la sua realizzazione. L'Unione europea avrebbe cosi' una propria capacità militare operativa, da impiegare secondo meccanismi decisionali da definire - e che possono, o meno, includere Mr. o Mrs. Pesc. Per quanto riguarda i rapporti con la Nato, mi va benissimo l'idea di un'Unione pilastro europeo dell'Alleanza Atlantica. Fermo restando il principio, del resto già riconosciuto nell'idea Nato di Combined Joint Task Forces (CJTF), che Europa e Stati Uniti possono intraprendere azioni militari in proprio avvalendosi delle strutture comuni. Il problema principale del capitolo di difesa, comunque, sta nel fatto che quattro paesi dell'Unione sono neutrali (Austria, Finlandia, Irlanda e Svezia) e due (Dan
imarca e Gran Bretagna) fortemente restii all'idea dell'integrazione militare. Non è escluso, quindi, che dalla Conferenza intergovernativa si esca con risultati assai meno ambiziosi di quelli da me auspicati,tipo più strette relazioni politiche e amministrative tra Unione europea occidentale e Unione europea.
Da più parti, e sommessamente anche da quella pidiessina, si tende ad accettare di porre l'Europa sotto l'ombrello di dissuasione nucleare francese e inglese. Perchè, allora tanto strepito sugli esperimenti in Polinesia?
Le due cose non vanno necessariamente assieme: si puo' credere nella deterrenza nucleare ma ritenere superflui gli esperimenti. Del resto, è proprio questa la posizione delle due maggiori potenze nucleari, Stati Uniti e Russia. Da parte mia, trovo frustrante che l'Unione europea non abbia avuto alcuna voce in capitolo nella decisione francese. Per me la vera questione è un'altra: puo' l'Europa continuare ad ascrivere a una pura logica intergovernativa materie come quella della difesa militare, inclusa la dissusione nucleare? La mia risposta è no. Tanto più nel campo della dissuasione, dove circa quarant'anni di esperienza in seno alla Nato hanno mostrato che gli arsenali nucleari non possono essere controllati con metodi intergovernativi: solo il paese che possiede le testate le controlla realmente. Dunque, il passaggio della forza di dissuasione francese (o inglese) dal livello nazionale a quello europeo non potrà realmente avvenire se non in un'Europa veramente federale: farlo prima sarebbe solo illusorio
e cosmetico. Naturalmente, antinuclearista da sempre, mi auguro che l'Europa federale per la quale mi batto sarà in grado di fare a meno dello strumento di dissuasione nucleare.
Barcellona, quale è il suo giudizio sull'effettiva volontà dell'Europa di spostare risorse a vantaggio della crescita economica e sociale nei paesi dell'altra sponda del Mediterraneo, considerato che spesso alle parole non sono seguiti i fatti?
L'Europa ha dimostrato, a Barcellona, di avere buona volontà e di aver capito che per raggiungere la sicurezza e la pace è necessario instaurare tra tutti i paesi dell'area un "patto di stabilità" il cui quadro di riferimento generale è l'accettazione comune delle principali istituzioni e norme internazionali, ma anche di alcuni valori fondamentali come lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, la messa al bando di ogni forma di razzismo, xenofobia e discriminazione. La parola-chiave che riassume la politica mediterranea dell'Unione europea è sviluppo: infatti, la stabilità non è vista come un fine in sé, bensi' come la premessa necessaria per accelerare, in modo duraturo, il ritmo dello sviluppo sociale ed economico. Naturalmente l'instaurazione di un vero partenariato euromediterraneo richiede, sul versante umano e sociale, una grande disponibilità al dialogo e al rispetto reciproco fra culture e religioni diverse, ma l'Europa sembra aver percepito l'importanza della c
ongiuntura storica grazie alla quale la quasi totalità dei paesi mediterranei della sponda sud appare disposta a mettere la sordina alle tensioni locali, vecchie e nuove. L'obiettivo finale è la creazione, entro il 2010, di un'area di libero scambio: un progetto ambizioso, che richiede a tutti politiche ispirati ai principi dell'economia di mercato e dell'integrazione, tendenti alla modernizzazione del settore privato e al trasferimento delle tecnologie. L'Italia in questoprocesso deve giocare un ruolo propulsivo, di spinta, per attirare le attenzioni dell'Unione europea su questo aspetto della politica estera: lo deve fare non solo per la sua posizione all'interno dell'Unione, ma anche per l'Europa, che non puo' considerare l'allargamento a Est come la soluzione definitiva dei problemi di sicurezza e stabilità del continente. Insisto su questo aspetto: l'Italia deve lavorare per prima, e in particolare in questi mesi di presidenza, per dissipare i potenziali malintesi connessi all'allargaqmento. E il miglio
r modo per farlo è proprio quello di porre la politica euromediterranea tra le priorità del suo programma.
La preoccupazione più diffusa oggi è che ci si avvii, per effetto di Maastricht, a una fase di crescente egemonia tedesca all'interno dell'Unione. Lei condivide tale espressione?
No, perché guardare alla Germania come a una potenza con ambizioni egemoniche indebolisce l'idea di Europa e la costruzione di un'Unione politica. Il Trattato di Maastricht, con i suoi teutonici criteri di convergenza per l'Unione economica e monetaria (Uem), non ci è stato imposta da nessuno e tanto meno dalla Germania, bensi' è stato firmato all'unanimità dai governi degli Stati membri e ratificato dai parlamenti nazionali o addirittura direttamente dai cittadini tramite referendum. Anche solo per questa ragione, ovvero perché è necessario saper rispettare gli impegni che si prendono per di più in maniera cosi' solenne, ritegno fuorviante il dibattito in corso, un dibattito che non coglie il punto centrale del problema. Come verranno regolati i rapporti tra chi starà dentro e chi resterà fuori? E' questo i vero problema: che cosa succederà a quei paesi che entreranno più tardi a far parte della terza fase dell'Unione monetaria? Quali garanzie avranno mentre attraversano questo limbo, questa zona grigia non
ancora definita? Temo le demonizzazione perché dietro di esse c'è sempre mancanza di trasparenza. Quando si dice che la disoccupazione è colpa di Maastricht si vuole nascondere il fatto che, invece, sono state le politche nazionali dissennate a costringere - con o senza Maastricht - molti stati europei, tra cui il nostro, ad avere a che fare con un debito pubblico dalle dimensione elefantiache. Prendiamo il caso dell'Italia: rispettare la richiesta di adeguamento economico e di rigore finanziario che arriva da un'istituzione che ci vede tra i paesi fondatori costerebbe molto meno, in termini sociali, che lasciare in eredità ai nostri figli soltanto debiti. Eppure dopo la legge finanziaria del 1993 di Amato, che si appellà all'Europa e a Maastricht, nessun governo anche se tecnico - ha avuto il coraggio e la lungimiranza di imporre sacrifici. Cosi' oggi, dopo tre finanziarie, ci scagliamo contro Maastricht, il parafumine delle nostre debolezze in campo politico.
L'iniziativa centro-europea era stata concepita, a suo avviso, anche in funzione di riequilibrio rispetto al ruolo politico ed economico della Germania? Oggi forse per effetto della scarsa dinamicità della politica estera italiana, assistiamo al tentativo tedesco di guidare anche questa operazione: lei condivide questo giudizio o ritiene che ci sia spazio per una diversificazione di ruoli da parte degli Stati membri più importanti?L'apertura dell'Unione europea verso i paesi dell'Europa centroorientale dopo il crollo dei regimi comunisti, dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo la fine della Guerra Fredda, era una necessità per il Vecchio Continente, una scelta obbligata per la stabilità dell'Europa del dopo 1989. Non si trattava di riequilibrare il peso economico e il potere politico tedesco, né tantomeno l'opposto, ovvero obbedire ai desideri della Germania, appena riunificata, che aveva interessi economici in quei paesi. L'allargamento a Est continua a essere una sfida per l'Unione, che quando conterà t
renta membri, o avrà snellito i propri meccanismi decisionali oppure rischierà la paralisi. Non è detto che l'Ue sarà capace di adattarsi a questo cambiamento, riformando profondamente le proprie istituzioni. Staremo a vedere se la Conferenza intergovernativa saprà sciogliere questo nodo. Ma, al di là dei rischi, delle difficoltà e delle incognite che ancora incombono sul futuro dell'Unione - si pensi alla definizione del calendario in base al quale si effettueranno le adesioni - lo spostamento della frontiera dell'Ue verso est è, come ho già detto, una scelta obbligata. Naturalmente, come sottolineavo prima, l'Unione europea deve porsi oggi un'altra priorità, il Mediterraneo: in quest'area l'Italia e gli Stati membri del sud dell'Europa giocheranno un ruolo fondamentale.