BETLEMME CHIAMA EUROPA
Con Arafat nella chiesa della Natività. A Gerusalemme con Peres e negli ospedali arabi. Nel nuovo stato che i palestinesi costruiscono a Gaza. Contando sui contributi Ue.
di Emma Bonino
Un pellegrinaggio laico in Terrasanta, per il Natale della nuova »patria palestinese , a testimoniarvi l'enorme importanza che l'Europa annette al processo di pace in Medio Oriente. Non saprei definire diversamente l'insolita missione natalizia affidatami dall'Unione Europea. Pellegrinaggio verso la Palestina che nasce, ma anche in Israele, da cui la nuova entità si separa non senza traumi.
La prima sosta, lungo il cammino che il pomeriggio del 24 dicembre mi porta dall'aeroporto di Tel Aviv a Betlemme, è nell'ufficio del primo ministro israeliano Shimon Peres a Gerusalemme. Che per fortuna è, nel senso migliore, un visionario. Ti aspetti un uomo schiacciato dagli avvenimenti (la morte di Yitzhak Rabin, la sorda opposizione della destra al processo di pace, l'autonomia palestinese da pilotare, il negoziato con la Siria appena avviato, incertissime elezioni fra dieci mesi) e trovi invece un signore assai calmo, che vede davanti a sé un dopoguerra mediorientale simile a quello dell'Europa, con una comunità di paesi ex belligeranti impegnati a costruire insieme - con l'aiuto dell'Occidente - il loro futuro. Con quattro priorità: acqua, energia, istruzione e turismo.
Da una grande foto appesa accanto alla scrivania di Peres, un altro grande visionario, il fondatore di Israele David Ben Gurion, protegge sorridendo i sogni del suo allievo.
Auguro buona fortuna a Israele e m'immergo nella lunga notte natalizia palestinese, altalena di emozioni mistiche e secolari, ora intime e personali, ora pubbliche e politiche. non ci sono molte veglie natalizie nella mia storia. La memoria, suggestionata dalla magia di Betlemme che si avvicina, non ha latro da rievocare che la chiesa barocca di santa Chiara a Bra, Cuneo, unico luogo dove mi sia capitato di assistere in famiglia alla messa di mezzanotte, immancabilmente celebrata da vecchio parroco. E' la reminiscenza di un caldo rito famigliare prima ancora che religioso.
Da Bra a Betlemme il salto è vertiginoso. E tutto sembra congiurare contro il desiderio di concentrarsi, di partecipare con la necessaria consapevolezza a questo »presepe vivente in cui si celebra il Natale di Gesù e quello della Palestina.
Per raggiungere la basilica dobbiamo fendere una folla esultante la cui euforia patriottica è contagiosamente terrena, politica. Una volta in chiesa, seduta dietro la chiesa di Yasser Arafat, commetto un piccolo peccato di vanità: come faccio a non pensare che stanotte la storia passa proprio accanto alla mia sedia? Cerco di abbandonarmi all'effetto delle emozioni, ma la disciplinata confusione che ribolle alle mie spalle - telecamere, giornalisti, pellegrini che entrano a turno - mi richiama di continuo alla realtà.
Due diverse dimensioni s'intrecciano nel tempio, accompagnate da due diverse sensibilità, una politica e l'altra spirituale. E' decisamente la prima che mi appartiene e mi coinvolge di più. La devozione e il raccoglimento di chi, come il giovane diplomatico che ho accanto, si prostra davanti a Dio fatto uomo, mi incutono grande rispetto, ma sono le parole del patriarca latino Michel Sabbah, che annuncia commosso la consegna dei Luoghi Santi alla prima autorità autenticamente »palestinese della storia, che mi danno i brividi.
Immersa in questa atmosfera di fede, non riesco a reprimere qualche riflessione irriverente. Mi ritorna in mente che ho sempre avuto più rispetto per i cristiani che per i democristiani. Cerco di cogliere il rapporto un po' complesso tra la famiglia Arafat e la religione: all'elevazione il musulmano Yasser lascia la chiesa, ma alla comunione sua moglie Suha - che risulta convertita all'Islam al momento del matrimonio - si alza e riceve la particola. Non sarò certo io, radicale e transnazionale, a meravigliarmi per un'anima che concilia due fedi. Mi meraviglio invece, da donna, quando alla fine della messa il corteo di sacerdoti che ha officiato il rito - una trentina di uomini d'ogni età, venerabili prelati e barbuti diaconi - trasporta nella grotta della Natività il bambinello di cartapesta che incarna Gesù. Stringe un po' il cuore quel bebè solo in mezzo agli uomini, privato di qualsiasi presenza femminile. Un bambinello destinato a una vita difficile, come Yasser Arafat.
L'immagine riaffiora prepotente la mattina del 25 dicembre mentre visito, nella Gerusalemme araba, l'ospedale Makàssed, spina dorsale del costituendo servizio sanitario nazionale palestinese. Fra i servizi indispensabili che solo il Makàssed (grazie anche agli aiuti umanitari dell'Unione Europea) offre all'intera popolazione palestinese, ci sono le incubatrici del reparto neonatale, dove una mezza dozzina di creaturine che non pesano nemmeno un chilo lottano per non soccombere. La metafora può sembrare scontata, ma niente meglio di quei corpicini in pericolo potrebbe rappresentare l'incerto avvenire della neonata patria palestinese, fragilissimo staterello a pelle di leopardo, fatto di un grappolo di città sulla riva occidentale del Giordano più Gaza, una striscia di deserto lungo il mare. Con un'economia tutta da inventare.
Dopo aver partorito la Palestina con dolore, Israele non riesce ad amare questa sua creatura, che molti israeliani considerano il frutto di una violenza subita.
Alla domanda: »che cosa vi aspettate dall'Unione Europea? Shimon Peres mi aveva risposto senza esitazione: »Aiutare i palestinesi . Inappuntabile. Ventiquattr'ore dopo però, arrivando alla frontiera fra Israele e Gaza, dove qualsiasi viaggiatore (anche un ipotetico investitore-benefattore occidentale) è costretto a lasciare il suo mezzo di trasporto e trascinarsi a piedi il suo bagaglio per un chilometro, fin dentro la »striscia , mi sono resa conto di quanto difficile sia per Israele accettare le conseguenze pratiche della sua scelta.
»Israele riscuote già i dividendi della pace, mentre noi siamo costretti alla mendicità internazionale : con queste parole, senza salamelecchi, mi ha accolto a Gaza Yasser arafat. Non è stato un incontro facile. Abu Ammar mi è parso un uomo stanco, preoccupato, fiero della sua popolarità e del suo prestigio (»Ha sentito ieri sera il patriarca che mi affidava i Luoghi Santi? ) ma visibilmente incerto del suo avvenire. Non ho molta dimestichezza con i leader arabi, con i loro modi e soprattutto con i loro interminabili silenzi. Alla fine ho trovato la lunghezza d'onda per comunicare con Arafat, ma è stato più difficile che con re Hassan del Marocco.
Il padre della patria palestinese non ha un compito facile. Basta calarsi nei suoi panni per sentirsi soli e minacciati dai pericoli. A cominciare dalle prime elezioni libere palestinesi per l'assemblea costituente, in calendario il 20 gennaio, cioè domani. Arafat deve affrontarle accerchiato dall'oltranzismo islamico (»Se io fallisco, il mondo intero avrà di che pentirsene ), dalla diffidenza israeliana (»Non mi lasciano nemmeno costruire un porto qui a Gaza ), dall'estrema cautela della comunità internazionale (»Siamo sommersi dalle promesse ma, ad eccezione dell'Europa, non abbiamo ancora visto niente ). E, oltre a tutto ciò, la difficile coabitazione fra i dirigenti tornati dall'esilio insieme ad Arafat e la nuova generazione di nazionalisti dell'interno, temprati dall'occupazione e legittimati dall'intifada.
Il mio viaggio in Israele-Palestina finisce al municipio di Betlemme, nell'ufficio del vecchio sindaco cristiano Elias Freij, uomo simbolo di una resistenza all'insegna della tolleranza, della moderazione e del senso pratico. Malgrado il suo rango di ministro del Turismo nel governo presieduto da Arafat, Freij non si candiderà alle prossime elezioni. Gli sta più a cuore l'idea di fare di Betlemme »un'Assisi palestinese , un polo di turismo religioso in grado di distribuire lavoro e benessere nel giro di pochi anni. E tira fuori dal cassetto un progetto di sviluppo messo a punto a Roma, dagli esperti del sindaco Francesco Rutelli per chiedermi se posso fare qualcosa.
Sì, la Palestina appena nata è come quei bambini sotto peso che sfidano la vita a Gerusalemme. Cui solo l'Europa comunitaria può e vuole fornire un'incubatrice.