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Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Mauro - 31 gennaio 1996
EUROPA: ABBIAMO PERSO UNA GRANDE OCCASIONE

Intervista a Emma Bonino di Luisa Arezzo

su "Liberal" di febbraio 1996

Non bisogna rinegoziare i criteri di accesso a Maastricht ma definire modalità e garanzia per i Paesi che entreranno in un secondo momento. Il semestre italiano è fallito già a novembre quando non si è trovato un assetto politico né stabile né credibile.

Piemontese di origine, una laurea in lingue, deputato per diverse legislature con il Partito radicale. Parlamentare europeo dal 1979 al 1983. Fra le sue battaglie storiche quella a favore dell'aborto e del referendum contro il nucleare. Da sempre attiva per la difesa dei diritti umani, dallo scorso anno è commissario europeo con delega in tre settori: politiche per i consumatori, aiuti umanitari e pesca. "Liberal" l'ha incontrata a Roma per un'intervista a tutto campo.

D. Da Martino a Bertinotti, da Alleanza nazionale a Larizza: nel nostro Paese cresce il coro anti-Maastricht proprio durante il semestre di presidenza. E' anche vero, tuttavia, che per soddisfare i parametri di accesso sono necessarie due manovre, una quest'anno e una nel 1997, di circa settantamila miliardi. Ma entrare in questa nuova Europa, da un punto di vista economico e sociale, vale davvero la pena?

R. Il problema è che nessuno si chiede cosa significa restare fuori da Maastricht e del costo economico che comporta il non ingresso in Europa. E questo impone due riflessioni: la prima è che la definizione dei criteri di accesso a Maastricht non è una decisione di Bruxelles. E' una decisione degli Stati membri presa all'unanimità e ratificata dai parlamenti nazionali o tramite referendum. La seconda è che il rientro del debito pubblico italiano è necessario, Maastricht o non Maastricht.

Mi sembra, anzi, che la richiesta di un adeguamento economico da parte di un'organizzazione alla quale partecipiamo come fondatori, sia u motivo ancor più convincente.

Ricordo che Amato, quando tentò la prima manovra nel settembre 1993, si appellò a Maastricht e all'Europa. Senonché questo lodevole tentativo venne poi progressivamente "addolcito" da Ciampi e poi da Berlusconi e ancor più da Dini: se andranno avanti così vorrà dire che lasceremo ai nostri figli soltanto debiti.

D. L'attuale classe politica sta, a suo giudizio, volontariamente allontanando l'Italia dall'Europa?

R. Allo stato attuale, avendo perso non mesi, ma anni preziosi per innescare un processo di adesione europea, nessuna maggioranza, neppure una maggioranza blindata, è in condizione di imporre al Paese due manovre da settantamila miliardi: non tanto perché non sarebbe giusto, quanto piuttosto perché la democrazia si basa sul consenso e dubito che lo avrebbero.

D. Quindi su questo punto non vi è accordo con Mario Monti, l'altro commissario italiano. Condivide invece la sua dichiarazione che se perderemo il treno di Maastricht e dell'Euro saremo tutti più poveri?

R. Sì, credo che questo sia vero. Sono invece piuttosto scettica quando afferma (e ritengo sia un'affermazione politica) che al punto a cui siamo arrivati in Italia si possa attuare, entro l'anno, una manovra di bilancio blindata.

D. Ha una proposta da lanciare?

R. Sì. Bisogna mettersi a discutere e aprire un dibattito non sulla rinegoziazione dei criteri di accesso a Maastricht, che è estremamente velleitario, ma su che cosa succede ai Paesi che, per scelta o perché ancora non possono, ritardano il loro ingresso. Se questi Paesi sono in grado di offrire garanzie sui tempi di ingresso, il vero problema sarà definire che ne sarà di loro mentre attraversano questa zona grigia. Non è ancora stato esplorato, ad esempio, quale potrebbe essere il rapporto del costo del denaro, e quindi dell'economia, tra i Paesi che avranno la moneta unica e quelli che per un certo periodo non ce l'avranno.

D. Lei propone un ingresso ritardato?

R. Sì, io credo che abbiamo perso quattro anni perché dopo Amato nessuno ci ha più provato per davvero. Ora, queste operazioni si possono fare o per convinzione o per stabilità politica. La prima non credo ci sia, la seconda è sotto gli occhi di tutti. Chi è il disgraziato così masochista che si mette a fare una manovra da settantamila miliardi sapendo che deve andare a votare fra un mese, anzi fra due, anzi fra un anno, anzi nel '99?

D. Questo vuol dire che non ci sono speranze?

R. Non dico questo, ma è evidente che un'operazione come quella alla Juppé, giusta o sbagliata che sia, la può fare solo un governo che ha la certezza di rimanere in carica per cinque anni.

D. Quali confini dovrebbe avere questa "zona grigia"?

R. Intanto dovrebbe dare garanzie sulle tappe di avvicinamento: noi non entriamo adesso ma, è solo un esempio, nel 2002. E' possibile trovare un consenso su una scadenza intermedia per i Paesi che non possono entrare subito? Questo vuol dire essere in grado di delineare uno scenario internazionale ed europeo fatto a due stadi, che non significa assolutamente l'Europa a due velocità. A me pare tuttavia che questa strada non sia quella intrapresa dai Paesi che si trovano nelle nostre stesse condizioni.

D. Propone quindi di costruire una piattaforma comune con nazioni come la Spagna e la Grecia?

R. Sì, e questo il vero obiettivo che dovremmo porci. E invece si perde tempo a cercar di rallentare gli altri nel medio periodo.

D. Questo consentirebbe anche di condizionare l'asse franco-tedesco?

R. E' evidente. E invece che facciamo per essere più scaltri? Ci illudiamo di frenare gli altri con patetici tentativi e cerchiamo di boicottare la moneta unica. Ma la moneta unica, specialmente se accompagnata da un governo dell'economia - su questo punto sono assolutamente in sintonia con la proposta di Delors - è una sfida da raccogliere senza ulteriore indugio per l'economia del 2000. Il problema non è come ritardare gli altri, ma come accelerare noi. E' chiaro che tutto questo sfuggirà se Berlusconi continua velleitariamente a proporre di rivedere i parametri di Maastricht.

D. Proviamo a dare un contenuto meno vago alla moneta unica visto che lei è anche la responsabile delle politiche per i consumatori: la sua introduzione cosa cambierà nella vita di tutti i giorni al cittadino comune?

R. Se non facciamo una grande campagna di informazione per spiegare le conseguenze positive che la nuova moneta comporterà, la situazione cambierà solo in peggio e si rischia di trasformare l'Euro in un boomerang e in un ulteriore elemento di euroscetticismo. Questo perché l'introduzione della moneta unica ha veramente senso solo in termini macroeconomici. Per mia mamma come per il pescatore calabrese, sarà solo un gran fastidio visto che dovrà imparare a usare una moneta con i decimali. Ma c'è anche una forte componente psicologica da non sottovalutare, visto che la moneta simboleggia anche l'identità nazionale.

D. Quali progetti state programmando per sensibilizzare la gente?

R. Intanto io credo che il nostro interlocutore non sia né il grande imprenditore né il grande banchiere, che sono certamente dalla nostra parte. Coloro ai quali dovranno arrivare messaggi positivi sono i 370 milioni di cittadini europei. Poi i programmi: far convivere un periodo di doppia esposizione dei prezzi, garantire che sarà automatico il cambio di valuta sui contratti quotidiani quali il telefono, il gas e così via. Insomma bisognerà inventarsi dall'ora dell'Ecu nelle scuole, agli accordi con le grandi imprese per lanciare il "Monopoli" dell'Ecu come regalo di Natale '97, alla settimana di simulazione e così via.

D. Durante questo semestre di presidenza era logico supporre che l'Italia, Paese mediterraneo per eccellenza, sviluppasse politiche specifiche in questa direzione. Eppure non sembrano esserci segnali di questo tipo. Con noi la politica del mediterraneo è destinata a indebolirsi ancor di più o a rafforzarsi?

R. Intanto una descrizione: se guardiamo geograficamente l'Unione è evidente che la maggior parte dei Paesi membri ha maggior interesse ai Paesi del nord e dell'est. Tuttavia ci sono alcuni commissari tra cui io, che se parlano di sicurezza e stabilità europea, riconoscono che quanto meno le frontiere dell'Europa sono due, una a nord e una a sud.

Abbiamo ottenuto un primo segnale a Cannes quando sono stati stanziati circa 4.700 miliardi per il sud a fronte di 6.000 miliardi per il nord. Poi è stata la volta di una brillantissima presidenza spagnola che ha messo in campo tutte le risorse interne ed esterne e in sei mesi ha portato a casa tre accordi fondamentali con la Tunisia, Il Marocco e Israele e ne ha impostati altri quattro altrettanto importanti: Algeria, Siria, Giordania e Palestina. Abbiamo poi un altro fronte mediterraneo, quello fra il balcanico e il mediterraneo, con i Paesi della ex Iugoslavia e l'Albania verso i quali devono indirizzarsi una serie di interventi assolutamente prioritari. Metto tutte queste affermazioni sul tavolo per affermare che teniamo la presidenza europea in un momento delicatissimo che rischia di marcare la situazione di non ritorno, visto che le prossime tre presidenze saranno gestite dall'Irlanda, dall'Olanda e dal Lussemburgo, Paesi con priorità decisamente lontane dalle politiche in favore del Mediterraneo.

D. Ma porteremo a casa quattro accordi e avvieremo felicemente i progetti di ricostruzione nella ex Iugoslavia, oppure no?

R. Sono letteralmente inferocita per lo scenario che si delinea. Abbiamo sprecato la nostra occasione. Abbiamo impiegato sei mesi per definire l'accordo con il Marocco e i lavori, in Spagna, erano stati impostati già da prima. La ricostruzione della ex Iugoslavia: si dice che chi comincia bene è a metà dell'opera, ma vogliamo cominciare? E' evidente che le risorse ottenute a Cannes, se non saranno investite, non rimarranno finalizzate al Mediterraneo quando scatteranno le altre presidenze. Già pochi mesi fa abbiamo dovuto batterci come dannati, io, Papoutsis, Oreja, per evitare tagli improvvisi.

D. La sua è una critica radicale verso il mancato indirizzo da parte del governo italiano?

R. Certo, la presidenza è solo il motore. Non è che la Spagna una volta salita alla presidenza è andata improvvisando in ordine sparso: era già stato definito cosa dovesse fare. Proprio per questo io credo che abbiamo già perso il semestre italiano. Lo abbiamo perso lo scorso novembre nel non trovare un assetto politico nel Paese.

D. Ma arrivati a questo punto, è possibile impostare ancora qualcosa oppure no?

R. Dovremmo fare di necessità virtù, perché è questa la situazione, ma non so se saremo in grado di farlo: insomma io non so neanche se andremo a votare oppure no. Inoltre è un dato oggettivo che l'amministrazione francese o tedesca - in termini di efficienza - non è paragonabile a quella italiana. Anche loro hanno votato durante il semestre di presidenza, che magari non sarà stato brillante ma ha funzionato. Ma c'era una bella differenza: loro avevano stabilito la data delle elezioni, e avevano potuto impostare un'agenda di lavoro. Qui nessuno sa nulla. Quando sento Susanna Agnelli dire: »che problema c'è, tanto io non mi candido , mi vien da dire che il problema non è certo se lei si candida o meno. Io posso dire che a fine marzo ci sarà la conferenza intergovernativa e che il problema è la sua preparazione. So che il ministro Fagiolo (rappresentante italiano nel gruppo di riflessione per la Conferenza intergovernativa, ndr) sta facendo il giro delle capitali e mi fa piacere, anche se non so con quale mand

ato o con quali ipotesi di lavoro. Cosa propone: di cambiare alcune virgole del trattato di Maastricht oppure c'è una posizione del governo italiano che vuole una politica estera comune? Io non lo so. E poi non dimentichiamoci che esiste anche un problema di politica interna che riguarda il diritto di cittadinanza, il trattato di Schengen...

D. Mi sembra di cogliere alcune critiche sull'operato del ministro degli esteri Susanna Agnelli.

R. Ci conosciamo da sempre, solo che lei ha una concezione elitista della politica estera. Quando dichiara che non può essere criticata dalla stampa italiana perché rappresenta il Paese e pertanto deve essere considerata fuori dalla mischia, siamo su posizioni nettamente divergenti, poiché io ritengo che la politica estera debba essere oggetto di confronto, di dibattito e di scontro democratico.

D. Ritiene che questo semestre sia un'occasione mancata anche per colpa sua?

R. Certamente sì.

D. Tornando a Schengen: i Paesi europei hanno sempre accusato l'Italia di avere una linea troppo confusa per entrarne a far parte. Il decreto del governo, che ha suscitato tante polemiche e che è appena stato reiterato, in che direzione ci porta?

R. Non lo conosco in maniera approfondita. Posso dire che quando ho appreso che è consentita l'espulsione su semplice incriminazione ho subito associato all'immigrato il concetto di pentito. Immagino già denunce, fondate e non, finalizzate a ottenere benefici personali. Si vuole scatenare una guerra tra poveri e soprattutto non si vuole affermare uno Stato di diritto. Questo è per me inaccettabile. E non ci porta da nessuna parte.

D. Quale politica intraprenderebbe se dovesse essere lei a dettare la linea?

R. Intanto due considerazioni. La prima di ordine culturale: il nostro Paese non era preparato a subire uno shock multietnico, sia per motivi storici (non aveva le colonie) che politici (non ha avuto la grande immigrazione turca come ad esempio la Germania). Non ha saputo e non sa vivere la diversità come ad esempio hanno saputo fare gli inglesi. Né è stato o è in grado di gestire il fenomeno in termini positivi e propositivi, come ha fatto di recente la Germania con i Paesi dell'est. Noi ci troviamo "vittime" di una "invasione in cui si confrontano due culture diverse: quella buonista dove c'è posto per tutti e quella razzista che è per sua natura intollerante. Ora, è necessario definire delle regole senza caratterizzarci come razzisti. E queste regole devono essere accompagnate da una politica verso i Paesi di provenienza dei flussi migratori.

D. Quindi una politica di sviluppo e di stanziamenti finanziari?

R. Esatto. Per prevenire una immigrazione tanto urgente affrontiamola in due maniere, da una parte con una legge ferma (ma sempre nello Stato di diritto), dall'altra con politiche di sviluppo. Non solo, bisogna incentivare una politica di canalizzo dei flussi migratori. Ci sono dei Paesi richiedenti, come l'Argentina, l'Australia, il Canada e la Namibia. Ma è chiaro che se non sono pubblicizzati rimangono sconosciuti all'emigrante del Ghana. Una politica di incentivi costa, ma il pienone da noi costa altrettanto, se non di più.

D. Che cosa trova in questo incarico delle sue grandi battaglie storiche?

R. Sostanzialmente due cose: innanzitutto mi occupo di aiuti umanitari e cerco di far capire che l'aiuto è certamente la farina e l'antibiotico, ma è anche l'aiuto psicologico e l'inserimento delle donne violentate in guerra nella ex Iugoslavia. Che non è così scontato. Poi mi occupo della protezione delle vittime. Il diritto umanitario non si ferma alle porte delle carceri e l'aiuto non è un po' di carità pelosa in cui la buona volontà è un elemento necessario ma non sufficiente.

D. Emma Bonino e le donne: lo scorso anno si era schierata contro la posizione del Papa alla Conferenza del Cairo. Poi ha scelto il silenzio dopo la "lettera aperta" da lui scritta e inviata alla Conferenza di Pechino. Eppure sono molte le voci, anche cattoliche, che si sollevano contro il suo pensiero, considerato reazionario. Cosa ne pensa?

R. Che il Papa fa il suo mestiere e non capisco perché dovrebbe fare il femminista. La Chiesa è una potenza secolare e il problema è se gli altri resistono. Casomai mi chiederei se gli Stati laici fanno il loro dovere.

D. Noi possiamo definirci uno Stati laico?

R. Beh, alla fine degli anni Settanta pensavo di sì, dopo aver ottenuto la libertà della coscienza e la differenza fra Stato e cittadino; certo oggi la situazione è compromessa e la risposta mi crea qualche imbarazzo. Ma non dimentichiamoci che lo Stato laico è l'unico in grado di garantire la tolleranza.

D. Cosa pensa del presidente della Camera Irene Pivetti?

R. Irene è un'integralista, doverista, stakanovista. Per come la ho conosciuta posso dire che ritengo pericoloso un suo difetto: crede che un cattolico sia una persona superiore con il compito di convertire gli altri. Non ha lo spirito laico di chi pensa che ognuno può professare la propria religione e che, anzi, è tutelato da uno Stato in grado di garantire la convivenza di tutti. Se uno comincia a pensare che il cattolico è un essere superiore ne possono conseguire una serie di altre cose...

D. Una delle situazioni che si prospettano per risolvere l'attuale crisi di governo è quella di dar vita a un'Assemblea costituente. Cosa ne pensa?

R. Il mio modello è quello americano o anglosassone, e penso che il nostro Paese ha bisogno di una dieta di partiti alla "slim fast". Se poi fra dieci anni si avrà voglia di rimettere un terzo partito si vedrà. Ma nel frattempo si devono confrontare due forze.

D. Un sistema bipolare?

R. Bipartitico, non bipolare; che in Italia significa coalizioni di cinque partiti da una parte e cinque o sette dall'altra.

D. Veniamo a Pannella: suo grande amico e compagno di molte battaglie. Due anni fa lo ha seguito quando i radicali si sono schierati con il Polo. Lo appoggerebbe anche oggi?

R. Assolutamente sì. Sono sempre d'accordo con lui, ma non perché ne sia plagiata. Anzi, ricordo che lui era assolutamente contrario alla campagna sul nucleare del '78, e invece poi si rivelò uno dei nostri maggiori successi.

D. Lei è sempre stata una donna "in prima linea", così intransigente e volitiva, come vive questo incarico dove è certamente d'obbligo l'uso della diplomazia?

R. Innanzitutto cercando di imparare e poi apprezzando le possibilità che mi si offrono. E' ovvio che adesso sono nella posizione di non dover chiedere a nessuno e che, oltre a strillare, ho delle altre possibilità.

Solo che è un comportamento da introiettare lentamente, visto che automaticamente mi viene da strillare: per vent'anni ho fato solo questo. La differenza è semmai che io ascolto anche chi strilla e questo mi consente di ribadire (se ce ne fosse bisogno, ma nel nostro Paese direi di sì) che le regole della democrazia sono quelle inventate tanto tempo fa: uno sta all'opposizione e uno fa le regole.

 
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