proprio vero, come si dice, che l'erba può ricrescere sui campi di battaglia ma non sotto i patiboli. Alle guerre, l'umanità ha dovuto da sempre se non abituarsi, almeno rassegnarsi. un momento di follia collettiva, di esplosione dell'irrazionale, in cui ognuno pensa di battersi per difendere quello che considera il suo spazio o interesse vitale, contro un nemico che incarna ogni minaccia e ogni male. Auguriamoci che un giorno i nostri discendenti guardino con distacco alla nostra epoca, chiedendosi come mai popoli ritenuti civili non trovassero un sistema meno barbaro di risolvere i propri contrasti.Qualche progresso, certo, è stato fatto in questi ultimi decenni: maggiore controllo degli armamenti, qualche accordo regionale mirante ad evitare l'insorgere di conflitti, un po' di "diplomazia preventiva". Ma rimane l'amara constatazione che la guerra è ancora oggi considerata, in seno alla comunità internazionale e all'interno di talune comunità nazionali, un modo estremo ma necessario di risoluzione delle controversie.
Rassegnata alla guerra, l'umanità non sembra per fortuna disposta né ad abituarsi né a rassegnarsi a tutti i suoi orrori, e li respinge conforza: le uccisioni di persone inermi, le deportazioni, i campi di sterminio, la "pulizia etnica", le torture, gli stupri, il terrore utilizzato per fiaccare la resistenza delle collettività. Tutto ciò viene unanimemente percepito come un repertorio di atti criminali, aggravati - in periodo di guerra - dalla speranza dell'impunità nutrita da chi li commette. Non accade di solito che, finiti i combattimenti, tutti hanno voglia di dimenticare e pensare all'avvenire, mettendo le atrocità accadute sul conto dell'odio e del fanatismo generato dalla guerra stessa? E invece no. L'esperienza insegna infatti che bisogna punire i delitti, ristabilire un minimo di giustizia, se si vuole che la pace raggiunta posi su basi solide e non sia una semplice tregua in attesa della rivincita. L'impunità genera desiderio di vendetta e, prima o poi, nuove guerre.
Senza il lavoro dei tribunali di Tokio e Norimberga che, all'indomani dell'ultimo conflitto mondiale, hanno stabilito con alcuni casi emblematici il principio della responsabilità per i crimini commessi in tempo di guerra, non sarebbe stato così facile riconciliare il mondo intero con le popolazioni tedesca e giapponese.
Un principio che ancora ai nostri giorni rimane essenziale difendere é quello secondo cui in nessun caso la natura collettiva dello scontro bellico può fare da schermo alle responsabilità individuali. E' del 13 luglio 1992 la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che, di fronte al moltiplicarsi della notizie sulle atrocità commesse nella ex-Jugoslavia, ammoniva i belligeranti - soldati e miliziani - ricordando che le persone che commettevano o ordinavano di commettere gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario erano da considerarsi "individualmente responsabili di tali violazioni".
Un largo consenso esiste da tempo in seno alla comunità internazionale circa la necessità di perseguire i colpevoli di crimini contro l'umanità. Tanto che già nel 1947 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite affidava alla Commissione per il diritto internazionale l'incarico di studiare l'istituzione di una Corte penale internazionale permanente. Purtroppo la guerra fredda e la logica implacabile dei blocchi hanno congelato a lungo alcuni progetti di statuto di una Corte penale internazionale elaborati nei primi anni cinquanta dai Comitati ad hoc delle Nazioni Unite. La condanna negli anni Settata del soldato americano Calley, da parte di un tribunale statunitense, per l'eccidio di My-Lai in Vietnam, resta un caso unico di condanna da parte di tribunali nazionali di propri cittadini colpevoli di crimini contro l'umanità ai danni di popolazioni "nemiche".
Ci sono voluti la caduta del muro di Berlino ed il proliferare di conflitti locali sempre più atroci - dalla Somalia alla ex-Jugoslavia, passando per la Cambogia, il Kurdistan e il Rwanda - per creare le premesse di quello che viene oramai comunemente definito il "diritto d'ingerenza". Ingerenza non solo umanitaria e militare ma anche giudiziaria. Sono nati così, per decisione del Consiglio di sicurezza, prima il Tribunale ad hoc per i crimini perpetrati nella ex-Jugoslavia (1993) e poi quello relativo al Rwanda (1994). Una novità assoluta, anche rispetto ai tribunali di Tokio e Norimberga. Per la prima volta, infatti, in particolare nel caso del Tribunale sulla ex-Jugoslavia, non sono i vincitori a giudicare i vinti, ma é la Comunità degli Stati a chiedere ai "vincitori" conto dei propri comportamenti, nel momento stesso in cui sono in procinto di deporre le armi.
Lo scetticismo da cui era inizialmente circondato il tribunale per la ex-Jugoslavia, visto da taluni come una sorta di tribunale d'opinione, è stato smentito dai numerosi atti d'accusa emanati nei confronti degli stessi leader serbo-bosniaci, poi da alcune risoluzioni del Consiglio di sicurezza che ribadiscono come l'obbligo di conformarsi alle richieste del Tribunale costituisca un elemento essenziale degli accordi di pace, infine dall'arresto e dalla detenzione all'Aja del generale Djukic, stretto collaboratore del capo dell'esercito serbo-bosniaco Mladic. Ormai, malgrado i limitati poteri di cui dispone il Tribunale quanto alla possibilità di fare eseguire i suoi mandati d'arresto, nessuno degli incriminati si sente assicurato dell'impunità.
L'attività dei due tribunali ad hoc, mostrando che l'"ingerenza giudiziaria" può funzionare, ha rilanciato in seno alle Nazioni Unite l'idea di istituire una Corte penale internazionale permanente. E' del dicembre del 1994 la decisione dell'Assemblea Generale di insediare un Comitato ad hoc una cui prima relazione è già stata esaminata l'anno scorso, durante la 50esima Assemblea dell'Onu. Sembra finalmente avvicinarsi il momento della convocazione di una conferenza internazionale incaricata di negoziare il trattato istitutivo della Corte.
Certo, problemi delicati di natura politica e giuridica restano ancora da definire. Si pensi alla determinazione del tipo di crimini sottoposti alla giurisdizione della Corte, alla problematica collegata alla nozione stessa di aggressione, ai meccanismi di attivazione della Corte, alle regole applicabili o al tipo di cooperazione tra la Corte e le giurisdizioni nazionali. Ci sono anche le inevitabili e prevedibili reticenze di alcuni Stati.
Cio' non toglie che il momento appare quanto mai favorevole. E indispensabile appare l'impegno di tutti coloro che credono nel valore del rispetto delle regole di diritto perché l'occasione non vada perduta. Magari battendosi per il raggiungimento di obiettivi realistici.
Non è forse indispensabile che la Corte abbia subito una competenza ampia ed esclusiva: ciò che importa è stabilire un principio di responsabilità e di giustizia su scala internazionale. La storia, l'esperienza e, si spera, la saggezza degli uomini, porteranno a compimento la realizzazione di quella che fino a ieri sembrava utopia.