di Emma BoninoRelazione tenuta alla Fondazione Piaggio Istituto Universitario Europeo di Firenze, 17 marzo 1996
Jean Monnet. Era il 24 di dicembre quando nelI'ufficio di Shimon Peres è stato evocato quel nome. E, insieme con Monnet, la grande intuizione di coloro che all'indomani del conflitto mondiale volevano riuscire ad avere un'Europa senza più guerre. Quei "visionari" padri dell'Europa sognarono di creare, partendo da un impulso economico iniziale - la Comunità del Carbone e dell'Acciaio -un'entità politica nuova, al di sopra e al di là degli egoismi nazionali: un'Europa federale. Così come allora vincitori e vinti voltarono pagina e la storia cambiò il suo corso, Israele e Palestina, oggi, potrebbero fare lo stesso, mettendo in comune energia e acqua, per una pace solida e una stabilità prospera. Questa l'idea del Presidente Peres, una convinzione che lo guida nel difficile momento della realizzazione del processo di pace e nella distensione dei rapporti con Palestina, Giordania e Siria.
Jean Monnet è ricomparso quella domenica pomeriggio di dicembre sull'altra sponda del Mediterraneo: attuale e reale perché l'Unione Europea, pur tra mille difficoltà, si dibatte per essere qualcosa di diverso da un'area di libero scambio. Era la vigilia di un Natale storico per tutto il Medio Oriente, il primo Natale dopo il ritiro delle truppe israeliane da Betlemme, città santa per i cristiani di tutto il mondo, dove Arafat, di lì a poche ore, avrebbe assistito nella Chiesa della Natività al rito della Santa Messa. C'ero, come testimone della presenza dell'Unione Europea, e quando Shimon Peres ha pronunciato quel nome ho capito che l'Europa può essere un modello fuori delle sue frontiere: un modello di integrazione, unico al mondo, un modello da esportare, per la pace, la sicurezza e la stabilità, e per lo sviluppo, o meglio, la maturazione di società civili che questo modello-politico, economico, ma soprattutto culturale - possono condividere. Proprio per questo l'Unione può e deve giocare nell'area del M
editerraneo un ruolo di impulso.
Vorrei partire da qui, dall'ufficio di Shimon Peres a Gerusalemme, per intraprendere un viaggio lungo la riva Sud del Mediterraneo, mare che ha unito e diviso, spazio senza frontiere in cui le civiltà millenarie non hanno potuto fare a meno di incontrarsi, scontrarsi e svilupparsi. Dal Marocco, alla Siria, passando per la Tunisia, l'Algeria, la Libia, l'Egitto, la Palestina: realtà peculiari accomunate dal Mediterraneo e, oggi, anche da un forte vento di democratizzazione e liberalizzazione in campo economico. Dappertutto si assiste ad una sempre più forte richiesta di partecipazione alla vita politica da parte della società civile e alla crescita di movimenti politici opposti ai regimi dominanti. Ma in queste società, peculiarità e paradosso, i gruppi politici che in modo più articolato rappresentano l'opposizione all'ordine prevalente sono quelli fondamentalisti. Si tratta, comunque, di fenomeni che dimostrano una maturazione dell'opinione pubblica araba, conseguenza della scomparsa dell'Unione Sovietica e
della globalizzazione dei mercati, che ha costretto le élites dominanti a porsi la questione del rapporto con il radicalismo islamico - la principale corrente populista degli anni '90 - e a cercare delle risposte. E proprio il modo in cui gli Stati e i regimi hanno reagito allo sviluppo di questi movimenti può essere preso come parametro per valutare il grado di liberalizzazione e democratizzazione raggiunto sulla sponda Sud del Mediterraneo, un'area in cui i modelli politici liberali e democratici stentano ancora ad affermarsi.
I paesi della sponda Sud del Mediterraneo sembrano, dunque, disposti a buttarsi dietro le spalle vecchie e nuove tensioni. Anche questa è una conseguenza della caduta del muro diBerlino, un crollo che ha innescato fenomeni che stentiamo a capire e ai quali non riusciamo ad adeguarci: le istituzioni e e organizzazioni internazionali, che avevamo creato per l'ordine uscito da Yalta, vacillano e falliscono.
ONU e NATO attendono riforme per essere messe in grado di far fronte non più alla guerra fredda, bensì alle mille guerre, quei piccoli micro conflitti che falciano centloala di migliaia di civili in ogni angolo del pianeta. E l'Unione Europea? Può lasciarsi sfuggire questa coincidenza storica che le permetterebbe di aiutare i Governi democratici ad affrontare il crescente peso politico dei movimenti islamici, anche di quelli fondamentalisti? Può, l'Europa, non prendere in considerazione il fronte Sud che bussa alle sue porte? Può rinunciare ad avere, nell'area mediterranea, un ruolo di leadership politica? Insomma: il prossimo banco di prova della politica estera della UE è il bacino del Mediterraneo. Come due treni destinati ad incrociarsi - a causa di quel processo di globalizzazione che è la grande rivoluzione di questa fine millennio - la sponda Nord e quella Sud del Mediterraneo devono evitare lo scontro frontale. L'Unione ha lo strumento per farlo: si chiama partenariato globale.
Il partenariato globale, ovvero una politica commerciale accompagnata da accordi di cooperazione nei settori più diversi - energia, ambiente, piccole e medie imprese, finanziamenti - non è una novità: la UE lo ha già utilizzato nel processo di allargamento ai Paesi dell'Europa centro-orientale. Si tratta del solo strumento a disposizione, e gestito direttamente dalla Commissione, per parlare all'esterno con una voce sola, l'unico modo in cui questa Unione priva di una politica estera e di difesa comune può mettere in campo una politica coerente.
Sviluppo è la parola-simbolo della politica mediterranea dell'Unione Europea: infatti la stabilità non è il fine bensì la premessa necessaria per accelerare il ritmo dello sviluppo sociale ed economico, ed il mezzo per renderlo duraturo. L'instaurazione di un vero partenariato euro-mediterraneo richiede una grande disponibilità al dialogo ed al rispetto reciproco fra culture e religioni diverse, ma l'Europa sembra aver capito: per raggiungere la pace e la sicurezza è necessario instaurare fra tutti i Paesi dell'area un patto il cui quadro di riferimento è l'accettazione comune delle principali istituzioni e norme internazionali e di alcuni valori - come lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani, la messa al bando di ogni forma di razzismo, xenofobia e discriminazione. Un progetto ambizioso che richiede a tutti politiche ispirate ai principi dell'economia di mercato e dell'integrazione, tendenti alla modernizzazione del settore privato e al trasferimento delle tecnologie. L'Unione, alla Conferenza di
Barcellona che si è tenuta nel mese di novembre dello scorso anno, ha lanciato la sfida mediterranea e ha dato il primo colpo al muro della frontiera meridionale, al Mediterraneo percepito non come denominatore comune, ma come linea di frattura. Il partenariato globale euro-mediterraneo è un grande esercizio di diplomazia preventiva che permetterà di rispondere a quelle che i cittadini europei vedono come minacce: la pressione migratoria e l'integralismo religioso. E' solo l'inizio, ma il segnale è inequivocabile: l'Europa ha scelto la cultura del dialogo che conduce alla stabilità politica e allo sviluppo di un'area di scambi liberalizzati e di cooperazione economica. Jean Monnet sarebbe contento di questo "modello di esportazione": e con lui tutti coloro che si sentono eredi di quel progetto e fanno del loro meglio per non diventare degli orfani.
Ma è solo l'inizio: e allora che fare? L'Europa, a Barcellona, ha compiuto il primo passo, un gesto simbolico che non basta perché è necessario rendere operativa l'iniziativa euro-mediterranea. Bisogna farlo subito, magari sfruttando il semestre di presidenza dell'Italia che ha ereditato i risultati brillanti della Spagna. Ma invece di essere un vantaggio - dopo di noi presidenti dell'Unione saranno per vari turni Paesi del Nord certomeno interessati alle tematiche mediterranee - la presidenza italiana rischia di essere un'occasione perduta. Ma continuo a sperare che il nostro Paese riesca ad imporre la questione euro-mediterranea come priorità dell'Unione.