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Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Maurizio - 13 agosto 1996
GIORNI IN BIRMANIA? UNA CASERMA CHE STUDIA DA TIGRE ASIATICA
la più chiusa dittatura militare del continente punta allo sviluppo ma continua i massacri e la repressione

IL FOGLIO, pag.3

Nella capitale Rangoon bambini-schiavi al al lavoro, grattacieli e pubbicità di computer. Ma possedere un fax è illegale e chi propone riforme costituzionali rischia vent'anni di galera. Gli appelli del prendo Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e gli imbarazzi diplomatici dell'occidente.

Rangoon. Sorridono immersi nel fango, i piccoli schiavi birmani. Sono una cinquantina, vestiti di straccio, a passarsi l'un l'altro blocchi gocciolanti di argilla fino a caricarne un camion. Hanno dodici, tredici anni e una certezza: non saranno mai disoccupati. Il regime militare di Rangoon ha risolto il problema alla radice sfruttando il lavoro dei birmani fin dalla giovane età. Qui a Hlaing Tharyar, trenta chilometri dalla capitale, gli schiavi bambini sudano gratis per trasformare una distesa di fango in Fmi City cinquemila villini a schiera che solerti venditori si affannano a presentare come frutto di investimenti "puramente birmani".

Ma tutta Rangoon è un cantiere. In centro, accanto alle grandi pagode d'oro che attraggono qui 20 mila turisti l'anno, altri ragazzini si arrampicano su paurose impalcature di corde e bambù per costruire decine di nuovi alberghi, supermercati, business center. Esagerando, qualcuno lo ha già definito un boom economico. La Birmania ha fatto registrare negli ultimi quattro anni una crescita costante del 6 per cento e prevede di mantenerla per il prossimo quinquennio, senza aggiustamenti strutturali e senza alcun intervento di Banca mondiale e Fondo internazionale. Presto a Rangoon aprirà una borsa valori, ma con un deficit commerciale crescente e riserve valutarie agli sgoccioli è difficile credere a quanti prevedono la nascita di un nuovo "tigrotto" asiatico. Soprattutto perché la giunta militare al potere dall'88, dopo aver ignorato la cocente sconfitta subita nelle elezioni del '90, continua a governare il paese come fosse una caserma spendendo il 40 per cento del proprio budget per la difesa.

Rangoon una città che ha cambiato volto

Ma la Birmania sta cambiando. A Rangoon, fino a due anni fa, le poche auto erano le Mercedes nere coi vetri oscurati dei generali. Oggi la motorizzazione è di massa, il traffico caotico. Basta alzare la testa per vedere grattacieli di vetro, nuove palazzine dalle bizzarre architetture moderne, alberghi nuovi di zecca e semivuoti con ascensori superveloci che raggiungono vette di desolazione architettonica. Per le strade, giganteschi cartelloni pubblicitari disegnati a mano lodano le caratteristiche dei computers Macintosh, senza però specificare che il possesso di un computers è illegale (come del resto quello di fax e fotocopiatrici), a meno di non avere un permesso governativo. Che nessun privato cittadino si sognerebbe mai di chiedere. Altri cartelli ricordano, in birmano e in inglese, i "desideri del popolo": "schiacciare gli elementi esterni distruttivi, opporsi a chi esprime visioni negative e mette in pericolo la stabilità dello Stato".

E' tuttavia probabile che i desideri dei birmani non coincidano totalmente con quelli suggeriti dai cartelloni. Per i giovani yuppies di Rangoon, con i "longi" di stoffa arrotolati attorno alle gambe al posto dei pantaloni e il telefonino alla cintola, il desiderio sembra essere quello diarricchirsi, viaggiare, acquistare qualcuno dei prodotti che cominciano ad apparire nei supermercati: forni a microonde, videoregistratori. Per la maggior parte dei birmani, quelli cioè non legati alla ricca casta militare, un desiderio diffuso (ma ammesso raramente e sottovoce) è quello di non essere più periodicamente deportati dall'esercito per lavorare gratis come portatori durante le continue campagne militari contro gli Stati etnici che circondano la piana di Rangoon.

Nonostante quello che il governo definisce un cessate il fuoco, firmato da 15 dei 16 gruppi ribelli, la guerra in realtà non è mai finita. Anzi, il precario equilibrio etnico si è rotto e oggi lungo i confini con Thailandia, Laos, Cina e Bangladesh è l'inferno. Le offensive del Tatmadaw (l'esercito di Rangoon), sono condotte con ondate umane successive di ragazzi mandati allo sbaraglio dopo due settimane di addestramento. Si massacra, si tortura, si deporta, e sono almeno due milioni gli appartenenti ai gruppi minoritari che hanno scelto i campi profughi o che vi sono stati trasportati a forza. Assisterli non è impresa facile, anche per le difficili relazioni con i paesi vicini. "Bangkok non ha alcuna intenzione di irritare i birmani" - confida sotto anonimato un responsabile umanitario - " e spesso i movimenti dei rifugiati vengono pianificati da Rangoon secondo il vecchio criterio del 'divide et impera' e vengono poi messi in atto con la tacita collaborazione dei militari di Bangkok". I quali poi non ricon

oscono neppure lo status di rifugiati ai birmani, rendendo impossibile l'intervento dell'Alto commissariato per i Rifugiati dell'Onu.

Il colpo di Stato del terribile "Slorc"

Ormai sono 34 gli anni di dittatura militare. Indipendente dal '48, la Birmania entrò nel tunnel della dittatura con il colpo di Stato del generale Ne Win, nel '62, che diede il via a una disgraziata politica di "via birmana al socialismo" e portò un paese ricco di risorse nella lista dei più poveri del mondo. Nell'88, dopo mesi di proteste nei quali i militanti per la democrazia vennero massacrati a migliaia, l'élite militare si riorganizzò, Ne Win lasciò il posto ai nuovi generali che si diedero il nome di Consiglio di Stato per il ripristino della legge e dell'ordine.

La cacofonia dell'acronimo inglese, Slorc, non può identificare meglio una giunta militare che fa dell'assoluto arbitrio la regola di governo. Lo Slorc cambia nome al paese, alle città, persino ai fiumi (la Birmania diventa Myanmar, Rangoon si trasforma in Yangon) e mette in atto la panoplia classica dei regimi autoritari: legge marziale, stampa di regime, arresti arbitrari e torture per gli oppositori politici che vengono internati nella famigerata prigione di Insein (che il quotidiano di regime definisce "l'università della vita"). Nell'89 lo Slorc mette agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, figlia del mito dell'indipendenza birmana e leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld), maggior partito dell'opposizione. Poi per darsi una patente internazionale di democratici, i generali convocano libere elezioni, ma sbagliano clamorosamente i conti: pur sapendo che con molta probabilità avrebbero perso, contavano di poter ottenere una quantità sufficiente per far pendere la bilancia ancora dalla loro

parte. Errore: I'Nld prende l'82 per cento dei voti, ai generali non resta che rovesciare il tavolo. E continuano a governare sostenendo di non potere passare la mano prima della approvazione di una nuova costituzione.

Diritti umani e investimenti miliardari

Ma sei anni dopo, la Conferenza nazionale incaricata dallo Slorc per redigere il nuovo testo è ancora al lavoro. Aung San Suu Kyi, che nel '91 ha ricevuto il Nobel per la pace e che ha riacquistato la libertà solo l'anno scorso, sta anche lei lavorando ad un testo costituzionale.Esercizio utile ma rischioso, visto che una recente legge punisce con venti anni di reclusione il reato di "redazione non autorizzata di costituzione". Ridicolo, forse, ma la questione è seria Il vero "problema birmano" è proprio quello del tipo di struttura federale che il paese si saprà dare e del grado di autonomia che sarà concesso a Shan, Karen, Kachin, Karenni, Mon e gli altri popoli che non hanno mai riconosciuto l'autorità di Rangoon e con i quali la capitale dovrà trovare un modus vivendi.

La bestia nera dello Slorc resta lei la "signora della democrazia" che ogni weekend arringa i suoi dal cancello di casa sua, davanti all'università. Aung San Suu Kyi gode di una popolarità immensa e i militari non possono toccarla, perché ormai è un simbolo riconosciuto in tutto il mondo. Per l'Antigone di Rangoon c'è un solo modo per costringere al dialogo i generali: un embargo internazionale, delle sanzioni, o almeno delle precondizioni molto chiare da parte di qualunque investitore straniero in Birmania. La settimana scorsa la signora Suu Kyi ha ricevuto a Rangoon il Commissario europeo per l'aiuto umanitario Emma Bonino, e le ha ripetuto la sua tesi: "il regime non va aiutato, e anche quello che noi definiamo 'aiuto umanitario' finisce con l'essere un sostegno che non porta alcun beneficio alla popolazione birmana".

Per ora le risposte restano un capolavoro di equilibrismo. Il senato Usa ha appena bocciato una legge che prevedeva dure sanzioni commerciali contro i generali di Rangoon, ma il testo approvato minaccia un blocco economico se le violazioni dei diritti umani dovessero peggiorare. L'Asean ha ammesso la Birmania in qualità di osservatore, con la mezza promessa di una membership a pieno titolo tra qualche anno, se i generali non combineranno troppi pasticci. Ma lo Slorc ha interpretato il via libera delI'Asean come un certificato di buona condotta, e ha salutato con gioia le dichiarazioni del ministro degli Esteri giapponese Ikeda, il quale ha criticato la Suu Kyi per aver condannato i paesi che aiutano fianziariamente la Birmania (dunque soprattutto il Giappone, grande elemosiniere di Rangoon).

L'Europa, come al solito, si muove in ordine sparso. La Francia che con Total ha il maggiore investimento straniero in Birmania (un oleodotto da 400 milioni di dollari realizzato con l'americana Unocal), non ha alcuna intenzione di rimettere in discussione il progetto. Londra, che pur consente a Aung San Suu Kyi di comunicare col mondo attraverso la propria ambasciata, è anche il maggior investitore straniero e di sanzioni non vuol sentir parlare. Chi preme in questo senso sono i danesi, il cui console onorario a Rangoon, James Nichols, arrestato per possesso illegale di fax, è morto in galera il 22 giugno scorso "per aver mangiato cibi troppo grassi" (secondo il ministro degli Esteri birmano Ohn Gyaw). "Certo, potremmo portare la proposta di sanzioni al Consiglio di sicurezza attraverso Francia e Gran Bretagna" - ha detto la Bonino al Foglio dopo l'incontro con la Suu Kyi -"sarebbe un segnale politico, ma dubito che l'Europa possa raggiungere una unanimità. E anche se fosse, che senso avrebbero le sanzioni

in presenza degli aiuti massicci che arrivano da Pechino?". Per Bonino la sola arma efficace di pressione si chiama "positive conditionality", una politica dei piccoli passi in grado di commisurare progressi democratici e aiuti economici.

 
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