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Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Maurizio - 22 agosto 1996
Diario del viaggio in Thailandia, Cambogia, Birmania e India
1/9 agosto 1996

di Emma Bonino

Sua Santità è seduto di fronte a me. Con l'indice della mano destra si tocca la tempia, mentre dice: - "La radice dei nostri problemi è qui dentro. Siamo esseri contraddittori. Sono le nostre contraddizioni che generano i conflitti. Ma i conflitti possono essere una fonte di creatività, se ci adoperiamo per risolverli attraverso la tolleranza e la nonviolenza. Sono invece un principio distruttivo ogni volta che tentiamo di superarliattraverso la violenza."

Sua Santità è il Dalai Lama, il capo spirituale e politico di cinque milioni di tibetani, cui il governo comunista cinese nega da sempre il diritto di autodeterminarsi. Dal 1959 è in esilio a Dharamsala, nel nord dell'India, dove mi trovo anch'io quest'oggi, 8 agosto 1996. Sono alla fine di un lungo viaggio, compresso in meno di dieci giorni, che mi ha portato dapprima in Birmania, poi in Thailandia e Cambogia e infine quassù a 1800 metri di altezza, alle pendici dell'Himalaya. Se comincio dalla fine è per due motivi: perché quelle parole del Dalai Lama ne riassumono tutto il senso, e l'insegnamento, che ne ho tratto; e perché ho l'impressione che tutto si sia mosso, in questo viaggio, lungo un cerchio, che arrivo e partenza siano coincisi nello stesso punto mentale. L'esempio più evidente di questa ricorrenza delle cose, di questa sorta di circolarità, è la Cina. L'ombra della Cina è ovunque. La Cina che rifornisce di armi la giunta militare al potere in Birmania e che tenta di affacciarsi sull'Oceano

Indiano sfruttando le basi navali di quel paese. La Cina, eminenza grigia delle sanguinarie lotte di potere in Cambogia. La Cina, vera ossessione dell'Associazione di Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN). La Cina che occupa il Tibet e costringe all'esilio il suo capo spirituale e politico. La Cina come principale minaccia, anche nucleare, alla sicurezza indiana. La Cina come variabile indipendente e imprevedibile (cosa e chi succederà a Deng-Xiao-Ping?) di tutta l'equazione economica e di sicurezza della regione e, forse, del mondo intero. La Cina come experimentum crucis della capacità dell'Occidente di coniugare la salvaguardia dei propri interessi economici con la difesa della democrazia e dei diritti umani. La Cina, dunque, come fonte di contraddizioni e di conflitti. Contraddizioni e conflitti che il Dalai Lama ci invita appunto a risolvere con la nonviolenza. La prima tappa del viaggio è a Rangoon, capitale della Birmania, il primo di agosto. Sono in sud-est asiatico per verificare di persona come proc

edono i programmi di aiuto umanitario dell'Unione Europea nella regione, e se è necessario o opportuno fare di più. In territorio birmano l'Ufficio Umanitario della Comunità Europea (ECHO), sotto la mia responsabilità di Commissario, finanzia due programmi di dimensioni relativamente modeste. Il primo, per 220.000 ECU (circa 36milioni di pesetas), è amministrato da Médecins Sans Frontières Francia e riguarda il rimpatrio dalla Thailandia di rifugiati Mon, una minoranza etnica per lungo tempo in lotta col potere centrale, col quale è oggi in stato di tregua: si tratta di aiuto sanitario necessario a combattere un'epidemia di malaria particolarmente pervicace, che ha fatto già un numero impressionante di vittime tra i Mon. Il secondo programma, pari a 225.000 ECU (circa 36,5 milioni di pesetas), riguarda un'organizzazione non-governativa (ONG) britannica, World Vision, che aiuta a prevenire gli incendi che nella stagione secca devastano i sobborghi di Rangoon. Si tratta di abitazioni di legno e paglia, addossa

te l'una all'altra in mezzo a immense distese di risaie e acquitrini. La giunta militare al potere nota per il proprio orwelliano acronimo SLORC (State Law and Order Restoration Council) vi ha deportato decine di migliaia di famiglie dal centro della capitale, col duplicescopo di rendere la città più attraente ai turisti e di allontanare le masse popolari dai luoghi del potere. E' un po' come fece Mussolini quando distrusse Borgo Pio a Roma per aprire via della Conciliazione, prova ulteriore che le dittature si assomigliano tutte.

Ma a Rangoon, in una sola giornata fitta di appuntamenti, incontro anche altre ONG che, finanziate da fonti diverse da quella comunitaria, svolgono nondimeno importanti compiti umanitari. Si tratta di Médecins Sans Frontières Olanda, che negli stessi sobborghi della capitale cerca di migliorare le precarie condizioni sanitarie; di Médecins du Monde, un'ONG francese che gestisce una campagna di informazione preventiva contro l'AIDS, una piaga che si va diffondendo a ritmi vertiginosi in un paese che è il primo produttore mondiale di eroina ma dove è illegale, per i tossicomani come per qualsiasi altro privato cittadino, possedere siringhe sterili e dove una donna colta in possesso di un preservativo può essere arrestata come prostituta; e infine di Action Contre la Faim, un'altra ONG francese, che assiste il rimpatrio di circa 260.000 Rohingyas, una minoranza etnica di religione musulmana a suo tempo rifugiatasi in Bangladesh per fuggire le persecuzioni e il lavoro forzato - persecuzioni e lavoro forzato

puntualmente ritrovati al ritorno secondo Action Contre la Faim, che ha pertanto dei legittimi dubbi su come le autorità nazionali e internazionali stanno amministrando tutta l'operazione.

Le minoranze etniche sono numerose in questo paese in cui i birmani propriamente detti ammontano a circa il 60 percento della popolazione complessiva. Oltre ai Rohingyas e ai Mon, ci sono i Karen, i Karenni, gli Shan, i Chin e i Kachin - ciascun gruppo con la propria lingua, le proprie tradizioni culturali, il proprio Stato e, quasi sempre, il proprio esercito, in lotta col potere centrale dal 1948, anno dell'indipendenza birmana dall'impero coloniale britannico. Negli ultimi anni, lo SLORC è riuscito a concludere accordi di cessate il fuoco con tutte le minoranze, meno i Karen, una parte consistente della cui popolazione civile si è rifugiata in territorio thailandese. ECHO sostiene questi rifugiati, finanziando (2,3 milioni di ECU, 373milioni di pesetas nel 1995 e 1,2 milioni di ECU, 194milioni di pesetas nel 1996) il lavoro di assistenza sanitaria e alimentare di tre ONG europee: Aide Médicale Internationale, Malteser Hilfsdienst e Dutch Interchurch Aid. Più avanti nel viaggio, in Thailandia, avrò o

ccasione di visitare un villaggio di rifugiati Karen. Che si tratti appunto di un villaggio perfettamente integrato nella natura circostante, che ospita non più di 3000 persone, è già una piacevolissima sorpresa per chi, come me, ha visitato i campi di Goma, nello Zaire, dove si ammassano centinaia di migliaia di profughi rwandesi in condizioni da incubo. Scoprirò anche che sostenere ciascuno di questi rifugiati karen costa appena un quarto di dollaro al giorno: il miglior rapporto costo-efficacia di tutti i programmi di assistenza di ECHO.

Ma il momento politico più alto della mia visita privata in Birmania - lo SLORC mi aveva fatto sapere che non trovava opportuna una visita ufficiale "in questa stagione di monsoni" -è l'incontro con Daw Aung San Suu Kyi, leader dell'opposizione democratica al regime militare. Di lei si sa già tutto ma non fa mai male ripeterlo. E' la figlia di Aung San, eroe della lotta d'indipendenza, assassinato nel 1947, a soli 32 anni, mentre è intento a redigere la costituzione della Birmania indipendente. Suu Kyi ha allora due anni. Crescerà in India, dove la madre viene distaccata come ambasciatore del nuovo Stato. Ecco un primo segno di quella circolarità di cui parlavo all'inizio: l'India, la più grande democrazia del mondo, come rifugio dei protagonisti della lotta democratica in Asia. Il Dalai Lama e la giovane Suu Kyi.

Per gli studi universitari si trasferisce in Inghilterra, dove conosce il marito, Michael Aris, uno studioso di cultura orientale, docente a Oxford. Trovo il suo nome citato nell'introduzione alla versione italiana dei "Canti d'amore" di Tsan-yan-ghia-tso, sesto Dalai Lama (1683-1706), che porto con me in viaggio - altra coincidenza. Hanno due figli e per anni vivono la vita tranquilla dell'ambiente accademico per eccellenza. Ma nel 1988 Suu Kyi rientra in Birmania per assistere la madre morente. Il paese è nel mezzo di grandi sconvolgimenti: Ne Win, vecchio luogotenente di Aung San e dittatore dal 1962, ha appena ceduto il potere e la gente è per le strade a reclamare democrazia. I militari reagiscono con una strage: l'otto agosto del 1988 migliaia di studenti e lavoratori vengono massacrati nelle strade. Lo SLORC si insedia al potere, mentre Suu Kyi decide di rimanere in Birmania a capeggiare l'opposizione democratica. Nel luglio del 1989 viene messa agli arresti domiciliari, dove resta per sei anni,

sino al luglio dell'anno scorso. Nel 1990, lo SLORC indice le elezioni politiche generali, fiducioso nella vittoria del partito che lo rappresenta. Ma è un calcolo sbagliato: la National League of Democracy di Suu Kyi ottiene l'82 percento dei voti. I risultati delle elezioni, tuttavia, vengono disattesi dai militari, che non permetteranno mai all'Assemblea Nazionale di riunirsi. Nel 1991, Suu Kyi vince il Premio Nobel della Pace.

In tutti questi anni ha visto il marito e i figli un paio di volte. Poteva, beninteso, riunirsi a loro, accettando di lasciare il paese. Ha rifiutato, sapendo che non le sarebbe più stato concesso di rientrare e che senza di lei l'opposizione avrebbe perso il proprio simbolo. Tagliata fuori da tutti i mezzi di comunicazione, ha passato questi lunghi anni di isolamento leggendo - i libri, ovunque in casa sua, hanno finito per seppellire persino il pianoforte, che non suona più - e sottoponendosi a un regime rigoroso quanto a orari e esercizi fisici e intellettuali. Conoscendo questa sua storia, so già prima di incontrarla che mi troverò di fronte una figura del calibro di Gandhi, di Mandela o dello stesso Dalai Lama. Che in più si è già misurata col consenso popolare e può dire a giusto titolo di rappresentare quattro birmani su cinque!

Quando finalmente ci incontriamo indossa un abito viola, lungo e aderente, in cui risaltano le sue forme minute e aggraziate. Ha i capelli raccolti in un nodo dietro la nuca; nodo nascosto da un mazzetto di gelsomini profumatissimi. Sul lungo collo giovanile ha una collana benedetta, dono del Dalai Lama.Poiché anch'io ho al collo un dono del Dalai Lama, una sciarpa di seta, scopriamo subito di avere qualcosa che ci accomuna. Di nuovo, l'inizio e la fine di questo viaggio si sovrappongono.

Parliamo a lungo della situazione politica birmana. Il suo cruccio principale è, comprensibilmente, mantenere l'isolamento internazionale del regime militare. La Birmania è appena stata ammessa come osservatore nell'Associazione degli Stati del Sud Est Asiatico (ASEAN) e già si prevede che tra due anni ne diventi membro a pieno titolo. Qualche impresa estera, inoltre, comincia a investire nel paese - soprattutto nei settori dell'energia e del turismo. Questi sviluppi preoccupano Suu Kyi: mi spiega che gli investimenti esteri non hanno nessuna ricaduta positiva sul tenore di vita della popolazione, in larghissima parte contadini, ma vanno soltanto ad arricchire i membri dello SLORC e i loro familiari e clientes. Auspica l'adozione di forme di restrizione, al limite dell'embargo, dei movimenti di beni e capitali verso la Birmania, almeno sino a quando i militari non accetteranno di dialogare con gli esponenti dell'opposizione democratica, invece di intimidirli e spingerli con ogni mezzo alle dimissioni e

all'esilio come fanno oggi. Quando mi chiede cosa intende fare l'Europa al riguardo, le spiego che la Commissione ha in corso un'inchiesta sul lavoro forzato e sul lavoro minorile nel suo paese. Giacché entrambi i fenomeni sono diffusissimi è quasi certo che la Commissione proporrà al Consiglio di togliere alla Birmania l'accesso al Sistema di Preferenze Generalizzate (tariffe doganali più basse per le esportazioni dei paesi in via di sviluppo verso l'Europa). La misura avrebbe un valore largamente simbolico, essendo il danno economico stimabile per lo SLORC limitato a circa 30 milioni di dollari. Per giunta, le dico, resta da vedere cosa deciderà il Consiglio, che ha appena respinto una proposta danese di ritorsioni economiche contro Rangoon - proposta avanzata in seguito alla morte in carcere nel giugno scorso dell'ex console danese e amico di famiglia di Suu Kyi, James Laender Nichols, condannato dallo SLORC a tre anni di detenzione per il possesso "illegale" di un fax e di una fotocopiatrice.

Continuare a isolare lo SLORC resta comunque il nocciolo del messaggio lanciato dal Suu Kyi. Persino negli aiuti umanitari vede un pericolo di strumentalizzazione da parte del regime. Le spiego a lungo che la politica comunitaria in materia è rigorosamente indirizzata ai bisogni delle popolazioni, è apolitica e neutrale, e prescinde dai governi, cui chiede solo un impegno di non-interferenza con la distribuzione degli aiuti. Capisco che al riguardo c'è bisogno di una maggiore conoscenza reciproca, per dissipare eventuali malintesi e incomprensioni.

Lascio Rangoon il sabato pomeriggio, 3 agosto, più o meno alla stessa ora in cui migliaia di birmani, sfidando la repressione, si radunano davanti all'abitazione di Suu Kyi a University Avenue per ascoltare il suo discorso settimanale. Ripenso al colloquio con lei e mi chiedo quali dovrebbero essere le priorità dell'azione diplomatica europea nella regione. Procacciare affari o favorire lo sviluppo democratico? - poiché è evidente che nella circostanza le due cose sono in contraddizione. E le contraddizioni generano conflitto - mi diràpoi il Dalai Lama. Mi chiedo anche quanto siano realistici i discorsi di cosiddetta realpolitik, secondo i quali l'Asia è un caso a sé, è una cultura poco permeabile alle nostre tradizioni democratiche. Messi in condizioni di votare, tuttavia, i birmani rifiutano in massa la dittatura. Se venisse indetto un referendum, sono sicura che abolirebbero anche il lavoro forzato e quello minorile. E poi, tutti questi paesi, non hanno liberamente sottoscritto impegni internazional

i - a cominciare dalla carta delle Nazioni Unite - cui è doveroso richiamarli quando occorre?

Passata la domenica in Thailandia con la visita ai rifugiati Karen che ho già ricordato, il lunedì 5 agosto sono in Cambogia. La grande emergenza di questo paese sono i circa 8 milioni di mine anti-uomo, disseminate dappertutto - l'intero paese conta circa 11 milioni di abitanti. Ciascuno di questi ordigni è costato qualche dollaro, contro le migliaia che ne occorrono per neutralizzarlo. Tradurre in denaro il loro lavoro, tuttavia, non rende pienamente giustizia agli artificieri. Occorre vederli, stesi carponi a disinnescare una carica che può farli saltare in aria da un momento all'altro, per rendersi veramente conto di quale improbo compito si tratti. L'occasione per comprendere questa realtà mi viene offerta nel corso di una visita al Cambodia Mine Action Center, dove specialisti provenienti dagli eserciti di tutto il mondo addestrano gli sminatori cambogiani. Mi spiegano, d'altronde, che non c'è altro mezzo che questo: quelli meccanici non bonificano il cento per cento di un terreno. Vanno bene per

aprire un passaggio a un esercito. Non per far tornare i contadini sulla terra con la ragionevole sicurezza di non saltare da un momento all'altro su una mina.

Le mine continuano a mietere in Cambogia circa trecento vittime al mese. I bambini per lo più muoiono sul colpo. Gli adulti perdono gli arti. Handicap International Belgio si occupa appunto di provvedere protesi ortopediche alle vittime e di avviarle alla riabilitazione. Negli ultimi quattro anni, ECHO ha devoluto al dramma cambogiano - mine, ma anche necessità mediche e alimentari - più di dieci milioni di ECU (poco più di 1,6 miliardi di pesetas), ai quali vanno aggiunti altri 8 milioni di ECU (circa 1,3 miliardi di pesetas) provenienti da altre linee di bilancio della Commissione europea nel 1995-96. Qui come altrove (Angola e Afghanistan per esempio) tocco con mano il confine tra l'umanitario e la politica: impegnamo, noi occidentali, grandi risorse per tentare di alleviare il dramma delle mine, e poi non riusciamo a trovare il consenso internazionale per abolirne la produzione, il commercio e l'uso. Sicché sminare diventa una fatica di Sisifo e l'aiuto umanitario una foglia di fico che copre l'impo

tenza della politica.

Il futuro politico della Cambogia resta appeso a un processo di pace cominciato nel 1991 e ancora assai fragile. Di questa fragilità mi rendo conto visivamente nel corso di una visita, purtroppo molto rapida, al magnifico complesso archeologico di Angor Wat, quando mi indicano delle colline distanti qualche chilometro dal nostro punto di osservazione. Su quelle colline, mi dicono, ci sono i Khmer rossi. Anche in questo caso lascio il paese, il 6 agosto, con più domande che risposte. Mi chiedosoprattutto quanto occorrerà ancora ai cambogiani per superare tutti i traumi psicologici che hanno subito nel corso di qualche decennio: la guerra del Vietnam prima, i killing fields di Pol Pot poi e ora, quando finalmente sembrava tutto finito, questi ubiqui assassini: le mine anti-uomo.

Il 7 agosto sono in India: un'intera giornata di viaggio per raggiungere, la sera, Dharamsala, dove trascorro un giorno e mezzo. Tra i primi incontro il Dalai Lama che mi accoglie ricordando la visita ufficiale in Italia che avevo organizzato quando ero ancora segretario del Parito radicale che, già allora, aveva per simbolo il volto di Gandhi stilizzato. Un'altro tassello di un domino che, alla partenza di questo viaggio, non avrei mai immaginato di mettere insieme. Il governo tibetano in esilio mi mostra, con dovizia di particolari, ogni aspetto della sua attività: l'accoglienza e l'inserimento dei profughi che continuano ad affluire dal Tibet (ve ne sono circa 150.000 nella sola India), la biblioteca, l'università e gli altri centri culturali dove viene fatto ogni sforzo per mantenere l'identità di un popolo oppresso e sradicato. Nel 1995-96, ECHO ha provveduto circa 1,1 milioni di ECU (178milioni di pesetas) di aiuti ai rifugiati tibetani. Da parte sua, il Parlamento europeo ha appena approvato, per

iniziativa del gruppo radicale, uno stanziamento di 1,5 milioni (243milioni di pesetas) di ECU in loro favore. Tutte misure necessarie ad aiutare la comunità tibetana in esilio - che in ogni caso provvede da sola, con i proventi del proprio lavoro, a tre quarti dei bisogni complessivi - in attesa di una soluzione politica che restituisca a questa gente il diritto a decidere del proprio destino nella propria terra. La palla di questa partita politica è interamente nel campo cinese, poiché il Dalai Lama non pone alcuna precondizione all'avvio di un dialogo politico con Pechino, mentre rimane fermissimo sulla propria linea di assoluta nonviolenza nella risoluzione del conflitto.

Ed è appunto questa, mutuata dal Dalai Lama, l'unica certezza con cui torno in Europa: nel terzo millennio, in un mondo popolato da dieci miliardi di persone, i conflitti potranno essere risolti solo attraverso il dialogo, la tolleranza e la nonviolenza.

 
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