NEL SEGNO DELLA GIUSTIZIA
di EMMA BONINO
Lo strumento più efficace per prevenire le nuove "catastrofi umanitarie" è l'affermazione del diritto
Fra i grandi cambiamenti intervenuti in quest'ultimo quarantennio c'è sicuramente il fatto che mentre in passato l'aiuto umanitario serviva quasi esclusivamente a fronteggiare emergenze provocate dalla natura - cicloni, terremoti, alluvioni, carestie - oggi la sua quasi totalità serve a limitare i danni di crisi provocate dall'uomo, di conflitti più o meno locali e più o meno feroci.
La cronicizzazione di molte delle crisi contemporanee, che mette in luce l'impotenza degli strumenti tradizionali di contenimento dei conflitti, politica e diplomazia, e anche i limiti dell'azione umanitaria (che non può e non deve sostituirsi a politica e diplomazia), fa cadere molte illusioni su una disciplina - la cosiddetta diplomazia preventiva le cui capacità taumaturgiche sono state celebrate prima ancora che la disciplina stessa prendesse corpo. La verità e che ancora oggi nessuno conosce formule certe per prevenire i conflitti e pochi sono coloro che sono riusciti a risolvere quelli già in atto. L'unico strumento efficace - e antichissimo - per affrontare le conseguenze di qualsiasi conflitto (e prevenire le "ricadute") è quello di rendere giustizia al maggior numero possibile di vittime.
Più mi inoltro nei gironi infernali che sono i teatri delle maggiori crisi umanitarie - dallo Zaire all'Afghanistan, passando per il Caucaso e il Sud Est asiatico - e più mi convinco che la cultura dell'impunità, la memoria collettiva di grandi torti mai riparati, è uno dei fattori decisivi, che scatenano e alimentano i conflitti a base etnica, religiosa, politica. L'umanità contemporanea appare rassegnata alla guerra - ancora oggi considerata da molti come un modo estremo ma necessario di risolvere le controversie - ma non a tutti i suoi orrori, che respinge anzi con forza: l'uccisione di persone inermi, le deportazioni, i campi di sterminio, la pulizia etnica, torture, stupri e via elencando gli strumenti del terrore usati per fiaccare la resistenza di intere collettività.
Il giudizio su questo repertorio di crimini e unanime. Si tratta di delitti resi più gravi, in periodo di guerra, dalla speranzadell'impunità.
E' proprio l'impunità, generando desiderio di vendetta, genera prima o poi nuove guerre, nuove "catastrofi umanitarie". Da qui la conclusione che l'amministrazione della giustizia è forse lo strumento più efficace della "diplomazia preventiva".
Senza il lavoro dei tribunali di Tokio e Norimberga che, all'indomani dell'ultimo conflitto mondiale, hanno stabilito con alcuni casi emblematici il principio della responsabilità per i crimini commessi in tempo di guerra, non sarebbe stato così facile riconciliare il mondo intero con le popolazioni tedesca e giapponese.
Di grandissima attualità rimane ancora oggi il principio secondo cui in nessun modo la natura collettiva del fatto bellico può oscurare" le responsabilità individuali.
Non a caso il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, di fronte al moltiplicarsi delle atrocità commesse nella ex-Jugoslavia, adottava nel luglio del '92 una risoluzione che ammoniva i belligeranti - soldati o miliziani che fossero - ricordando che le persone che commettevano, o ordinavano di commettere, violazioni gravi delle Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario erano da considerarsi "individualmente responsabili di tali violazioni".
Come perseguire i crimini di guerra? Già nel 1947 l'Assemblea Generale dell'Onu affidava alla Commissione per il diritto internazionale l'incarico di studiare l'istituzione di una "Corte penale internazionale permanente".
Purtroppo la guerra fredda e la logica implacabile dei blocchi hanno congelato a lungo alcuni progetti di statuto di Corte penale internazionale elaborati nei primi anni Cinquanta dai vari comitati ad hoc delle Nazioni Unite.
Un caso unico e simbolico di condanna da parte di tribunali nazionali di propri cittadini colpevoli di crimini contro l'umanità - ai danni di popolazioni "nemiche"- resta la condanna negli anni Settanta del soldato statunitense Calley per l'eccidio di My Lai, in Vietnam.
Il proliferare, dopo la caduta del Muro di Berlino, di conflitti locali sempre più atroci (dal Rwanda alla ex-Jugoslavia, passando per Cambogia, Kurdistan, Caucaso, Liberia, Somalia) hanno creato le premesse di quello che viene comunemente definito il "diritto d'ingerenza". Ingerenza non solo militare e umanitaria, va precisato, ma anche giudiziaria. Sono nati così, per decisione del Consiglio di Sicurezza, prima il tribunale ad hoc per i crimini perpetrati nella ex-Jugoslavia ('93) e poi quello relativo al Rwanda.
Una novità assoluta, anche rispetto ai tribunali di Tokio e Norimberga.
Per la prima volta, infatti, specie per quanto riguarda la ex-Jugoslavia, non sono i vincitori a giudicare i vinti ma e la Comunità degli Stati a chiedere conto ai "vincitori" dei loro comportamenti, nel momento stesso in cui si accingono a deporre le armi.
Lo scetticismo da cui era inizialmente circondato il tribunale per la ex-Jugoslavia, visto da taluni come una sorta di tribunale d'opinione, è stato smentito dai numerosi atti d'accusa emanati nei confronti degli stessi leader serbo-bosniaci, poi da alcunerisoluzioni del Consiglio di sicurezza che ribadiscono come l'obbligo di confrontarsi alle richieste del Tribunale costituisca un elemento essenziale degli accordi di pace, infine dall'arresto e dalla detenzione all'Aja del generale Djukic, stretto collaboratore del capo dell'esercito serbobosniaco Mladic.
Ormai, malgrado i limitati poteri di cui dispone il tribunale d'arresto, nessuno degli incriminati si sente assicurato delle impunità.
L'attività dei due tribunali ad hoc mostrando che l' "ingerenza giudiziaria" puó funzionare, ha rilanciato in seno alle Nazioni Unite l'idea di istituire una Corte penale internazionale permanente. E del dicembre del 1994 la decisione dell'Assemblea Generale di insediare un Comitato ad hoc una cui prima relazione e già stata esaminata l'anno scorso, durante la 50a Assemblea dell'Onu. Sembra finalmente avvicinarsi il momento della convocazione di una conferenza internazionale incaricata di negoziare il trattato istitutivo della Corte.
Certo, problemi delicati di natura politica e giuridica restano ancora da definire. Si pensi alla determinazione del tipo di crimini sottoposti alla giurisdizione della Corte, alla problematica collegata alla nozione stessa di aggressione, ai meccanismi di attivazione della Corte e le giurisdizioni nazionali.
Ci sono anche le inevitabili e prevedibili reticenze di alcuni Stati. Ciò non toglie che il momento appare quanto mai favorevole. E indispensabile appare l'impegno di tutti coloro che credono nel valore del rispetto delle regole di diritto perché l'occasione non vada perduta.
Magari battendosi per il raggiungimento di obiettivi realistici.
Non è forse indispensabile che la Corte abbia subito una competenza ampia ed esclusiva: ciò che importa è stabilire un principio di responsabilità e di giustizia su scala internazionale.
La storia, l'esperienza e, si spera, la saggezza degli uomini, porteranno a compimento la realizzazione di quella che fino a ieri sembrava utopia.
Emma Bonino. Commissario europeo responsabile per l'aiuto umanitario; la politica dei consumatori e tutela della salute; la pesca.