di Sergio Talamo
(MondOperaio, marzo 1997)
Radicale storica, oggi Commissario europeo per gli Aiuti umanitari. Con la stessa rabbia
Un mondo senza coraggio né anima, un'Europa che precede a vista, "gigante economico, nano politico e verme militare", un'Italia priva di una politica estera degna di questo nome. Un quadro spietato, desolante, per nulla edulcorato da reticenze e convenienze diplomatiche. Del resto se uno si presenta da Emma Bonino in cerca di messaggi cifrati e mezze verità, ha davvero sbagliato indirizzo.
L'antica regola secondo cui ad una signora non è bene chiedere gli anni, per la Bonino vale due volte. In effetti sembra esserci da sempre, col suo fare instancabile che contrasta l'aspetto minuto e fragile, da "apostola" di utopie luminose e inarrivabili. Da due anni, poi, nel suo incarico di Commissario europeo "per gli aiuti umanitari", pare veleggiare ancora più in alto rispetto al rissoso cortile della politica italiana. Quando meno te l'aspetti, spunta dallo schermo tv o da un giornale, e li accende di una febbre improvvisa.
Arzilla come una quindicenne alla prima festa, attiva come un boy scout ad un campeggio estivo, Emma Bonino trotta senza requie per tutto il mondo. Mille posti e mille drammi, e un solo grande obiettivo: costringere il debolissimo "governo del pianeta" a intervenire dove una vita vale meno di zero.
Incontriamo la Bonino in un delle sue ormai rare soste a Roma, e nella sua casa piccola e deliziosa di Trastevere ci sembra a suo agio come una bambola. Almeno fino a quando non le chiediamo come si sia sentita nel ricevere il prestigioso "pallone d'oro" della politica internazionale.
Onorevole Bonino, cosa si prova ad essere nominati "politico europeo dell'anno"?
La domanda le giunge inattesa. Ed è curioso vedere che la stessa donna che sa affrontare il sangue e lo strazio e urlare all'indifferenza e al cinismo, di fronte alle sue stesse sensazioni arrossisce e quasi incespica nelle parole: "Beh non so cosa banalmente non so cosa mi devo inventare per non essere banale. Mi ha fatto molto piacere altro non so dire. In più il riconoscimento è arrivato nel giorno in cui mi sentivo particolarmente 'al freddo', cioè quando la forza multinazionale in Zaire ha deciso di sciogliersi prima ancora di andarci. Raccontando l'immensa bufala che non c'era più bisogno, che tutti erano tornati in Ruanda. Invece tutti sapevano che non era vero, che mancavano all'appello almeno cinquecentomila persone. Io e le agenzie umanitarie lo abbiamo detto e ridetto. Ma era Natale, c'era il panettone, i regali ".
Quindi, tutti a casa.
"Tutti a casa. E noi ci sentivamo non solo disperati ma anche umiliati a sentirci raccontare che le potenze militari con generali, satelliti, intelligences, hardware e know how si fossero persi per strada cinquecentomila uomini".
E gli europei?
"Gli europei, da soli, non sono in grado di andare da nessuno parte. L'altra lezione sostanziale della vicendaZaire è che oggi, nel mondo, c'è un solo vero attore di politica estera e una serie di cavalieri. Il costo di questa situazione stato pagato con l'abbandono nella foresta di centinaia di migliaia di persone e duecentomila sopravvissuti che abbiamo ritrovato nel campo di TingiTingi. A quelli che sono spariti nessuno pensa più: morti di fame, massacrati chissà".
Lei per anni ha chiesto dall'Italia, in cortei e manifestazioni, l'intervento del mondo sulle emergenze umanitarie. Oggi che si trova nella stanza dei bottoni sembra avere la stessa rabbia impotente di allora.
"Sì probabilmente è così. E non è un problema istituzionale, ma politico. Il casoZaire è emblematico: esiste un problema umanitario ma non si può risolvere con i soli strumenti umanitari. Le Nazione Unite, alla fine della guerra mondiale, dissero: i conflitti ci saranno sempre, ma esiste una soglia minima per cui i civili hanno diritto all'assistenza medica e umanitaria. Una sorta di 'soglia dell'orrore' che non doveva essere più varcata. E da qui sono nate le varie convenzioni internazionali. Ma il fatto è che quando ci sono un milione e duecentomila rifugiati che premono su una frontiera, il compito di una organizzazione umanitaria è solo quello di cercare di sfamarli. Ma resta la questione politica, che spetta alla comunità internazionale".
Esiste oggi una "comunità internazionale", o è solo una convenzione linguistica?
"Comunque ci siamo inventati le Nazioni Unite. E anche se sono passati vari decenni, a me pare che il problema non sia di 'modello istituzionale' che non funziona, ma di interessi politici contrastanti. I paesi che siedono nel Consiglio di sicurezza hanno obiettivi spesso antitetici. E senza coesione politica non ci sono soluzioni umanitarie che tengano. E' l'indifferenza del mondo, in sostanza, a fare esplodere le crisi umanitarie".
Lei è stata in prima linea anche a Sarajevo. Ma l'agonia della Bosnia fa riflettere su un paradosso: come è possibile che sempre più spesso, a chiedere un intervento militare si trovino sulla stessa sponda forze libertarie e pacifiste e addirittura il Papa, mentre i governi, statalisti e militaristi, tacciono imbarazzati?
"Perché c'è chi crede alla realpolitik a qualunque costo: se poi la pagano cinquecentomila hutu, poco male. E' vergognoso, ma è così. Dall'altra parte, c'è la coincidenza di sensibilità diverse: gli umanitari, missionari, i religiosi in loco in Zaire, il missionario dell'ultimo paesino sperduto, di frante alla resa della comunità
internazionale, ha provato la mia stessa umiliazione, il mio stesso senso di rivolta rispetto alle bugie e al cinismo. Non a caso, pur senza grandi coordinamenti fra noi, abbiamo chiesto tutti insieme l'intervento militare".
In sostanza, lei dice: chiede l'intervento militare chi vive direttamente i drammi della popolazione civile.
"Certo. Del resto si tratta di norme che non ci inventiamo noi, ma che sono previste da tante convenzioni internazionali".
Norme piuttosto ipocrite se, come lei dice, ogni problema va ricondotto a scelte politiche.
"Per molti anni non è stato proprio così, perché, ad esempio, sulla Croce Rossa non si sparava mai. Anche i più grandi conflitti non venivano meno a questa regola. Oggi dopo la caduta del muro di Berlino, è cambiato tutto. Anche le stesse modalità dei conflitti hanno seguito un degrado inarrestabile. Se prima si sparava alla centrale elettrica piuttosto che al ponte x, si occupava la televisione piuttosto che l'aeroporto, dal 1990, dalla messa in discussione dell'ordine di Yalta, i conflitti piccoli e grandi hanno assunto connotati diversi: la Bosnia e il Ruanda insegnano. Le morti civili non sono più una casualità: le guerre che stiamo imparando a conoscere hanno come 'target' proprio le popolazioni civili. Una volta l'obiettivo è lo sterminio dei bosniaci, un'altra degli hutu. E mentre ormai sparare alla Croce Rossa è diventata una prassi e si combatte anche nei campi Onu, il mondo non riesce a contribuire a soluzioni politiche durature. Intanto si diffonde un senso di impunità che investe tutti, dal picc
olo dittatorello all'ultimo soldato".
Cosa è cambiato in sostanza?
"E' venuto meno l'ordine garantito da Yalta. Un 'ordine del terrore', magari, ma su cui i rapporti internazionali poggiavano stabilmente. Tutti abbiamo fotografato la caduta del Muro, ma nessuno ne ha tratto davvero le conseguenze".
Quindi, la gente che soffre è in mani peggiori oggi che nel periodo della guerra fredda e del bipolarismo UsaUrss.
"Diciamo che non c'è più nessuno schema. Prima, se il più piccolo paesino cambiava alleanze, scatenava interessi e reazioni. Oggi, ad esempio, l'Africa è scomparsa dalla mappa geopolitica delle grandi potenze. In altre parole è ostaggio dell'indifferenza del mondo".
Lei non è sostenitrice della politica di noningerenza; e accusa la comunità internazionale di indifferenza e cinismo. Più colpevole Washington o l'Europa?
"La mia impressione è che le maggiori responsabilità siano dell'Europa: che praticamente non c'è, non esiste come tale. E le sue polemiche con gli Stati Uniti sono del tutto sterili: se intervengono è 'yankee go home' se non intervengono li invochiamo. Gli Usa, nel bene e nel male, hanno una loro linea politica precisa. Quando parlano, parlano con una voce, se cambiano idea tutti riparlano con la stessa voce. E usano tutti gli strumenti della politica: diplomatici, economici, militari. E' esattamente ciò che l'Europa non solo non fa, ma mi pare di capire non intenda neppure di fare in futuro. Noi abbiamo 15 politiche diverse. Chi qualche anno fa si è fatto un salto a Sarajevo, avrà potuto vedere che 15 ambasciatori agivano in perfetta disarmonia. Ognuno chiamava la sua capitale, e quindi avevamo i proserbi, i procroati, i probosniaci e i proniente."
E l'Unione di cui si parla tanto?
"Siamo riconosciuti come una grande potenza commerciale, ma non c'è alcuna conseguente assunzione di responsabilità. O Clinton interviene da qualche parte e magari c accodiamo, oppure non ci spostiamo di un millimetro. Insomma, o con loro o nulla: senza di loro non si può. Ci ostiniamo a non voler diventare un attore credibile della politica estera. Ha ragione quel ministro belga che ha detto che l'Europa è un gigante economico, un nano politico e un verme militare. E questa Maastricht solo monetaria non è sufficiente. In questo senso io sono una spinelliana, o una pannelliana, che è la stessa cosa: la politica viene prima dell'economia.
La moneta unica, che pure è un fatto positivo, non può bastare. A chi risponderà, ad esempio, un'eventuale Banca centrale europea?".
Lei esprime una linea alternativa a quella ufficiale dell'Onu e dell'Europa. Chi ha trovato come alleato?
"In realtà non esiste da nessuna parte, oggi, un progetto globale, un disegno di organizzazione mondiale. Non c'è all'Onu: tutto il dibattito sulla riforma del Consiglio di sicurezza è inadeguato. Ci si occupa di chi entra e chi esce, e non del suo ruolo politico, della sua efficienza. Io credo che le Nazioni Unite degli anni 2000 potranno funzionare solo se si rafforzano gli organismi regionali: l'Europa da una parte, l'Africa, un'organizzazione asiatica, l'America latina. E dovrebbero essere queste entità a possedere un seggio nel Consiglio di Sicurezza. Quindi, il problema non è che ci sono Francia e Inghilterra, devono esserci anche Germania o Italia o Giappone. Il problema è che dovrebbe essere l'Europa in quanto tale, con una turnazione fra i suoi Stati, a sedere nel Consiglio".
Un assetto rivoluzionario. Che ne penserebbe, ad esempio, Pechino?
"Guardi, non c'è bisogno di andare tanto lontano. La contrarietà la troviamo anche a Bonn o Parigi. Nessuno ha voglia di cedere sovranità. Ma anche qui il problema è di politica: se esiste un'Europa unita, non si capisce che ci facciamo Francia e Inghilterra nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. Se poi dovesse entrare come membro permanente anche la Germania, potremo dire addio per sempre al sogno dell'Unione politica del nostro continente".
A livello mondiale esistono ancora a suo parere una destra e una sinistra?
" No, sui temi di fondo della politica internazionale destra e sinistra non sono più i miei punti di riferimento. Anzi, non capisco nemmeno più il senso di queste parole".
Tra le 15 politiche estere dell'Europa qual è quella della Farnesina?
"Mi sembra che da un bel po' di tempo l'Italia ha tali e tanti travagli interni, che sul palcoscenico mondiale è praticamente assente. Basta leggere i giornali: la tendenza è quella di guardarsi l'ombelico. Se uno vive a Bruxelles e legge di colpo un giornale italiano, viene preso da un senso di vertigine: grande spazio a un raffreddore di Di Pietro .".
Un pianeta inerte, insomma, in cui gli Usa fanno i loro interessi e l'Europa sta a guardare. Non è un quadro incoraggiante, eppure il Commissario europeo Emma Bonino non si scoraggia. Continuerà a parlare, con la sua voce querula e a volte straziata. Come Madre Teresa di Calcutta, come il presidente di una Onu che ancora non c'è , come il Papa, come un matto che fa comizi a nessuno nel bel mezzo di Central Park.
Alle spalle Emma ha un passato lontano e sbiadito, fatto di cortei, sitin e rabbiosi digiuni per saziare la fame degli altri. Ma negli occhi ha ancora il lampo raro di chi ci crede.
Di chi attraversa le epoche e le illumina, con la caparbietà un po' folle delle persone libere.