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Conferenza Emma Bonino
Bonino Marta - 24 aprile 1997
Varie * La Repubblica

PERCHE' NON HANNO FIDUCIA

di MASSIMO RIVA

UNO schiaffo rimane uno schiaffo e sarebbe infantile far finta che si tratti di una carezza. Ma certe reazioni Italiane alle cattive notizie giunte da Bruxelles non paiono frutto né di acquisita maturità né di pacata meditazione. Come fa il presidente del Consiglio a bollare come "incompensabili" le previsioni della commissione? Come può il presidente della Repubblica dire addirittura che "il mondo politico deve ribellarsi a una valutazione ragionieristica"? Come possono taluni esponenti dell'opposizione reclamare ad alta voce le dimissioni del governo e l'apertura di una crisi politica sostenendo solo perché fa loro gioco in questo frangente che l'Italia sarebbe ormai già fuori dall'unione monetaria?

A Romano Prodi si dovrebbe forse sottolineare che le stime di Bruxelles sono comunque più favorevoli di quelle rese note sempre ieri dai Fondo monetario e che, comunque, una differenza nell'ordine dello 0,2 per cento è del tutto comprensibile perché rientra nei margini d'errore di qualunque calcolo del genere, come un economista della sua vaglia non può ignorare. A Oscar Luigi Scalfaro occorre segnalare che i parametri di Maastricht non sono stati inventati da qualche travet della contabilità, ma fanno parte di un ben più complesso trattato politico che i governi hanno firmato e i parlamenti ratificato. Quanto ai vocianti soloni dell'opposizione, che a suo tempo polemizzarono contro Maastricht isolandoci dai resto dell'Europa, è il caso di ricordare che questa loro bassa speculazione è proprio il modo migliore per avvalorare la profonda diffidenza che circonda i costumi della politica italiana fuori dai nostri confini.

Ben più realismo e sagacia di tutti costoro hanno mostrato, viceversa, i mercati finanziari che hanno reagito con eloquente compostezza alle stime di Bruxelles sulla finanza pubblica italiana. E non senza ragione: sia perché si tratta è utile ricordarlo di mere previsioni sia perché le cifre incriminate non sono poi così drammatiche. La commissione ci accredita di un disavanzo del 3,2 per cento del PEL nel '97 e di uno del 3,9 nel '98, soggiungendo però che il fatidico 3 per cento di Maastricht potrebbe già essere raggiunto a fine anno in caso di piena efficacia delle misure correttive già adottate.

Non c'è proprio da stupirsi che sui mercati non sia accaduto il finimondo: nella peggiore delle ipotesi, questi dati implicano che la distanza fra l'ltalia e l'euro sarebbe di quattromila miliardi nel '97 e di diciottomila nel '98, cioè colmabile senza lacrime e neppure sangue. Solo con un po' di sudore, che evidentemente la finanza internazionale ci considera almeno al momento ingrado di versare.

Certo che sarebbe stato meglio se da Bruxelles ci fosse arrivata una stima entro il limite del 3 per cento: su questoanche il signore di Lapalisse sarebbe senz'altro d'accordo. Tuttavia le cifre appena dette sono già rose e fiori, per esempio, rispetto a quelle annunciate dal Fondo monetario internazionale che non solo vede più nero per l'Italia ma - guarda caso - anche per Francia e Germania, mettendo tutti e tre questi paesi quasi sullo stesso piano. E qui siamo alla vera nota dolente dell'intera vicenda, che è nota politica assai più e assai prima che contabile.

A ben vedere, infatti, la commissione di Bruxelles ha adottato nei confronti del nostro paese un criterio di giudizio prudente e circospetto che si può riassumere così: se le misure adottate produrranno davvero gli esiti promessi, l'Italia raggiungerà l'obiettivo di Maastricht per il '97 e dovrà poi darsi da fare per rendere stabile e duraturo questo risanamento negli anni seguenti.

In fondo, non ci sarebbe da fare alcuna rimostranza dinanzi a una sentenza così logicamente cauta, se non fosse che la stessa commissione tutt'altri criteri ha adottato nel valutare la posizione degli altri paesi, segnatamente Francia e Germania.

A questi due Stati si sono accreditati, senza la minima riserva neppure di forma risultati di finanza pubblica che al momento appaiono appesi a congiunture politiche ed economiche altrettanto, se non più, aleatorie e problematiche di quella italiana.

In Francia il presidente Chirac ha apppena indetto elezioni anticipate al dichiarato fine di dare al paese un governo che realizzi le misure necessarie per l'ingresso nell'unione monetaria. Ciò significa: 1) che a Parigi si ammette di dover fare ancora ulteriori interventi per stare nei famosi parametri. 2) che solo il risultato del voto potrà dire se la Francia sarà o non sarà più sul sentiero di Maastricht. Quindi: o la commissione di Bruxelles ha capacità divinatorie in proposito ovvero la sua pronuncia costituisce un atto di sfacciata partigianeria a favore dei nostri cugini d'Oltralpe.

Parimenti può dirsi per la Germania. Non solo il Fondo monetario, ma ieri la stessa Bundesbank ha tirato le orecchie al governo di Bonn invitandolo a fare presto qualcosa per riportare in linea un bilancio che non marcia al 3 per cento di disavanzo. E non basta: sempre ieri a Bonn si è consumata un'incresciosa rottura fra maggioranza e opposizione nel negoziato per il varo di quella riforma fiscale che è l'asse portante del piano economico sottoposto all'esame di Bruxelles.

Con tutte queste variabili aperte, come ha potuto la commissione prendere per buone senza fiatare le promesse tedesche? La risposta è una sola: ha accantonato ogni criterio di cautela e ha compiuto un altro atto di clamoroso favoritismo.

E qui siamo al punto cruciale: perché questa politica dei due pesi e delle due misure? Anziché abbandonarsi allo sdegno e all'irritazione umanamente magari anche comprensibili, il nostro presidente del Consiglio (ma con lui un po' tutta la classe politica del paese) dovrebbe sforzarsi di trovare una risposta più razionale a questo scomodo interrogativo. Anche perché questa risposta esiste e mette radici in una lunghissima catena di inadempienze italiane verso l'Europa.

Per decenni non siamo stati capaci neppure di spendere le migliaia di miliardi di investimenti che Bruxelles ci offriva, siamo sempre stati fra gli ultimi a recepire le varie direttive della Comunità, abbiamo garantito la fine delle sovvenzioni alle imprese pubbliche ma siamo ancora oggi alle prese con il dossier Alitalia, abbiamo promesso le privatizzazioni ma non abbiamo realizzato neppure un decimo degli impegni mentre siamo sempre prontissimi a chiedere proroghe, eccezioni e rinvii di ogni genere.

Diciamola, dunque, tutta: è vero che ieri a Bruxelles siamo stati oggetto di un'occhiuta cautela risparmiata ad altri, ma questa discriminazione è il frutto di anni e anni di cattivi comportamenti da parte nostra. Prendiamone atto: la nostra politica e meno credibile di quella altrui.

C'e forse qualcuno che pensa di potersi stupire per questa constatazione? Da qui, dunque, ci si deve muovere per portare l'Italia all'appuntamento del gennaio '99. E quel che occorre fare non c'è neppure bisogno di leggerlo nelle raccomandazioni di Bruxelles.

Si tratta di rendere stabile e durevole il risanamento dei conti pubblici sostituendo le misure tampone con acconci interventi su una spesa pubblica, soprattutto previdenziale, diventata socialmente iniqua e finanziariamente insostenibile. Ma non solo: si tratta anche di chiudere presto la partitadella riforma del sistema politico certo assai più urgente di quella della giustizia per sciogliere il nodo dei ricatti, degli scavalcamenti e delle manovre di basso conio che tengono sempre in bilico l'azione del governo.

Tutte cose che a Roma tutti conoscono: da Prodi a Scalfaro, fino ai loro oppositori. Macché 3,0 ovvero 3,2: l'Europa non è mai stata così a portata della nostra mano. Purché noi la si voglia davvero.

 
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