LE FRONTIERE NON FERMINO LA GIUSTIZIA
di Emma Bonino
Il mandato d'arresto internazionale che pesa sul capo di Radovan Karadzic e Ratko Mladic, accusati di crimini odiosi contro popolazioni inermi, non ha ancora tolto ai due leader serbo-bosniaci né la libertà di circolare né quella di influenzare le sorti del loro Paese. Ma li ha trasformati, agli occhi del mondo, in due paria infrequentabili. Come il tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia, anche quello di Arusha per il Rwanda ha dovuto superare enormi difficoltà per riuscire a farsi consegnare una ventina fra i presunti responsabili del genocidio commesso nel '94.
A fronte di questi primi risultati ottenuti in nome di una giustizia penale senza più frontiere, "globalizzata", rimangono casi clamorosi di impunità. E' riemerso recentemente dalla boscaglia cambogiana il famigerato Pol Pot, che ha sulla coscienza lo sterminio di circa un milione di suoi connazionali. E' vecchio e malato, ma rimane indisturbato da qualsiasi forma di giustizia. E che dire dei "liberatori" del Congo-Zaire, cui dobbiamo il rovesciamento del dittatore Mobutu ma anche la liquidazione fisica di oltre 200 mila profughi rwandesi e burundesi?
Dopo la guerra, si sa, forte é la voglia di dimenticare e diffuso é il timore che la ricerca degli autori dei crimini possa ostacolare la riconciliazione e il ristabilimento della pace. Ma non é cosi'. Chi voglia una pace duratura - non una semplice tregua, in attesa della rivincita - deve ristabilire un minimo di giustizia. Se non si sconfigge la cultura dell'impunità, infatti, il desiderio di vendetta rischia di prevalere prima o poi sul desiderio di pace.
"Non c'é pace senza giustizia". Cosi' si chiama l'associazione fondata da noi radicali per rilanciare in seno alle Nazioni Unite l'idea di costituire una Corte penale internazionale permanente cui la comunità internazionale affidi il compito di giudicare i crimini contro l'umanità non più caso per caso - con tribunali ad hoc - ma sistematicamente, senza vincoli temporali o territoriali. La mia esperienza di Commissaria europea agli aiuti umanitari mi insegna che, alla radice delle grandi emergenze umanitarie contemporanee (Bosnia, Grandi Laghi, Cambogia, domani l'Algeria?), si trovano sempre la violazione sistematica del diritto internazionale e delle convenzioni umanitarie. Dalla violazione delle regole nascono i crimini di guerra. La nostra idea - che ha cessato da tempo di apparire come un'utopia - é di creare un deterrente giudiziario contro questi delitti internazionalizzando la giurisdizione riguardante i crimini più gravi, istituzionalizzando la cosiddetta "ingerenza giudiziaria" affinché le frontiere
nazionali non si trasformino in strumenti di impunità.
Anche la storia ci dà ragione. Dopo la seconda guerra mondiale la comune repulsione nei confronti delle atrocità commesse condusse alla creazione dei Tribunali di Tokyo e Norimberga. Questi tribunali hanno stabilito il principio della responsabilità personale per i crimini commessi in tempo di guerra, nella speranza che la lezione servisse alle generazioni future. Qualche anno dopo, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite affidava alla Commissione per il diritto internazionale l'incarico di studiare l'istituzione di una Corte penale internazionale permanente, ma la guerra fredda congelò entusiasmi e progetti.
Con il venir meno dell'ordine di Yalta ed il proliferare di guerre sempre più feroci si è risvegliata l'esigenza di istituire una giustizia internazionale che faccia da argine alla barbarie dilagante. Così, sotto la spinta di un'opinione pubblica sempre più traumatizzata da immagini che riproponevano alla memoria orrori degni di Auschwitz, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha istituito prima il tribunale ad hoc per i crimini perpetrati nella ex-Jugoslavia (1993) e poi quello relativo al Ruanda (1994). Nonostante le difficoltà incontrate, l'esperienza di questi due tribunali ha dimostrato che l'"ingerenza giudiziaria" può funzionare ed ha rilanciato l'idea di una Corte penale internazionale permanente. E del dicembre scorso la risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu che chiede la convocazione di una Conferenza internazionale entro la fine del 1998 - probabilmente a Roma - per istituire tale Corte.
Vuole il destino che il Partito Radicale Transnazionale e l'associazione "Non c'é pace senza giustizia" vedano arrivare questa vittoria in un momento difficile della loro storia. Nel mezzo di una campagna di iscrizione tutta in salita. E' la conferma che le grandi battaglie ideali, slegate dall'attualità, appassionano le coscienze ma non l'opinione pubblica. Non per questo da radicali perderemo il vizio di lanciare "utopie".
Tanto più che, anche per questa vicenda della Corte penale internazionale, é ancora presto per cantare vittoria. Nei prossimi mesi il Comitato delle Nazioni Unite incaricato di predisporre un progetto di Statuto della Corte affronterà problematiche giuridiche e politiche di grande complessità. E più che mai necessario che venga ribadita ai quattro angoli del mondo la volontà di vedere infine istituito un primo nucleo di giustizia penale internazionale."Non c'è pace senza giustizia", dal canto suo, continua la campagna internazionale aperta nel luglio scorso a Parigi alla presenza di Boutros Boutros-Ghali, Robert Badinter, Bernard Kouchner, Giovanni Conso, Marco Pannella ed altri che credono in questa battaglia. Il 12 e 13 settembre prossimi sarà Malta ad ospitare giuristi e militanti dei diritti dell'uomo dell'area mediterranea. Altre manifestazioni si terranno dall'America latina al Subcontinente indiano, dagli Stati Uniti all'Africa, per terminare a Roma nel giugno del '98.Il percorso verso la conferenza
di Roma, quella che dovrà istituire la Corte, è ancora lungo ed irto di ostacoli, ma la posta in gioco è cosi' importante da moltiplicare le energie di coloro (compresi i governanti italiani degli ultimi anni, per fortuna) i quali credono che il mondo non debba essere retto dalla forza e dalla violenza ma piuttosto dal diritto e dalla giustizia.