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Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Emma - 13 settembre 1999
Catania, 9 settembre 1999
Intervento di Emma Bonino al dibattito organizzato dalla Fondazione Leonardo Sciascia con Emanuele Macaluso

LEONARDO SCIASCIA E' MORTO IL 20 NOVEMBRE 1989

Ho molti bei ricordi di Leonardo Sciascia. Lo ricordo, per esempio salire con passo incerto e timido le scale che portano alla Radio Radicale a Roma. Erano i giorni a cavallo tra il 1980 e il 1981. Le Brigate Rosse avevano rapito il giudice Giovanni D'Urso, per la sua liberazione volevano la pubblicazione di alcuni loro deliranti comunicati. I maggiori giornali, che fino a quel momento avevano pubblicato senza che fosse loro richiesto i documenti dei terroristi, decisero che quella volta no: non si doveva "cedere", non si doveva pubblicare. Naturalmente come oggi sappiamo, e anche allora sapevamo, dietro quella decisione non c'era solo una scelta editoriale. Lo scontro era politico e per certi versi si crearono le stesse divisioni, le stesse lacerazioni, le stesse contrapposizioni nate nei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro. Da una parte il cosiddetto partito della "fermezza", che più propriamente era il partito dell'immobilismo: in attesa del cadavere, magari per far passare, grazie a quel cadavere, i

potesi repressive e liberticide. Dall'altra quello che si volle definire il "partito della trattativa"; partito al quale anche noi radicali venimmo iscritti, pur se non volevamo intavolare alcuna trattativa. Eravamo infatti, per il dialogo. Per tornare a Sciascia: lui, che pure era uno scrittore affermato, le cui collaborazioni dai giornali erano contese e ben pagate, in quell'occasione non trovò nessuno che fosse disposto a pubblicarne gli scritti, appelli diretti alle Brigate Rosse perché lasciassero senza condizioni D'Urso. Così lui, pur così refrattario a parlare in pubblico, andava alla Radio Radicale. Per qualche minuto vergava con la sua penna stilografica nei primi foglietti che gli capitavano a tiro i suoi appelli, e poi con quella voce roca, resa ancora più roca dalle tante sigarette fumate, con quella sua cadenza lenta, si rivolgeva direttamente alle Brigate Rosse.

Credo che se alla fine D'Urso venne liberato, e senza condizioni, lo si debba anche a quegli interventi di Sciascia: ignorati dai giornali, ma che comunque i brigatisti, questo lo sappiamo per sicuro, ascoltavano e valutavano con attenzione.

Ancora sul filo dei ricordi. Era il 1979, bisognava predisporre le liste per le elezioni politiche.

Leonardo aveva già avuto una non felice esperienza politica, quando aveva accettato la candidatura offertagli da Achille Occhetto; aveva accettato ma dopo una lunga esitazione; perché, raccontò poi, la gestione di Occhetto della segreteria regionale siciliana del PCI gli sembrava, nella critica e nell'autocritica dell'esperienza milazzista, la linea giusta per un rinnovamento del partito in Sicilia. Un'esperienza, quella del "milazzismo" che Sciascia giudicò sempre nefasta. Capitò qualche volta che se ne parlasse, e lui, come inseguendo il filo di pensieri lontani, quasi più a se che a noi che lo ascoltavamo, chiedeva: "Non c'era altro modo per sbloccare la situazione?". E poi aggiungeva: "Tutto è meglio della confusione, e con il milazzismo si fece una gran confusione, sia nell'uso dei mezzi che nell'indicazione dei fini". Lo ricordo, perché, se un inciso è consentito, mi sembra di cogliere anche oggi una gran voglia di "milazzismo", ma su scala più vasta, nazionale; e poi perché a proposito di quell'esperi

enza, caro Macaluso, se non sbaglio scrivesti in sua difesa, "una stagione di rinascita dell'orgoglio siciliano", se non ricordo male. Una stagione di rinascita di quello che Sciascia meno amava: il sicilianismo. Lui, prendendolo dal poeta Crescnzio Cane, preferiva il termine "sicilitudine", proprio per contrapporlo al "sicilianismo", per indicare una condizione della ragione e del sentimento diversa da quella che Tomasi Di Lampedusa chiama "la follia siciliana". Il "sicilianismo", diceva spesso, è follia, ma anche mafia.

Da quell'esperienza in consiglio comunale Sciascia usì delusissimo. Voleva fare parte, raccontava, di "una pattuglia di guastatori. Si tratta semplicemente di fare certe cose e di non farne fare certe altre. Cose concrete". Si accorse dopo qualche settiamana che si doveva stare in consiglio comunale soltanto per lasciare fare le cose che non si dovevano fare, così se ne andò.

Alle elezioni del 1979 Sciascia era corteggiatissimo. L'avrebbero certamente voluto il PSI e il PCI. E lui allora se ne scappò nella sua amata Racalmuto, in quella casetta alla contrada Noce dove andava ogni estate e scriveva le sue storie, i suoi libri. Fu lì che lo raggiunse Pannella. Sciascia stesso poi raccontò che la decisione di accettare la candidatura nelle liste radicali fu improvvisa e sorprendente anche per lui. La scintilla è stato l'incontro con Pannella. Mi rendo conto che non è facile raccontare quello che accadde, sono cose che bisogna viverle, esserci. Ad ogni modo, cercate di immaginarlo: Pannella, questo gigante, grande e grosso; e di fronte a lui Sciascia: mingherlino, silenzioso. Pannella parla, e parla. Sciascia ascolta. Naturalmente non perdeva una sillaba di quello che Marco diceva. Quello che pensava, lo racconterà dopo: pensava al dialogo tra lo scrittore Boris Pasternak, quello del Dottor Zivago, con Stalin, il dittatore. Pasternak aveva chiesto di parlare con Stalin perché vol

eva perorare la causa di un altro poeta perseguitato: Mandelstam. E una sera, all'improvviso suona il telefono a casa di Pasternak, era Stalin in persona. Parlano di Mandelstam , Stalin in termini molto duri; e a un certo punto Pasternak dice a Stalin: "Vorrei incontrarvi".

"Perché?", chiede Stalin.

"Per parlare della vita e della morte", risponde lo scrittore.

Dall'altra parte del filo nessuna risposta, solo il clic della comunicazione interrotta. Stalin non voleva assolutamente parlare della vita e della morte. Ecco, raccontava Sciascia alla fine di questo racconto: mentre Pannella parlava io ho pensato che bisognava parlare della vita e della morte in questo Paese, e che ne parlassi io come scrittore la cui pagina è la più vicina all'azione che si possa immaginare. Io, diceva ancora Sciascia, so di essere questo tipo di scrittore, la cui pagina è proprio al limite dell'azione". E allora la tentazione di entrare nell'azione diretta è stata talmente forte che alla fine vi ha ceduto.

Molti quando Sciascia si è candidato nelle liste radicali si sono detti sorpresi. Penso al suo amico Renato Guttuso, ad altri.

E allora vi racconterò qualcosa forse di poco noto, o di ignoto. Nel corso della sua vita, e a seconda delle occasioni, Sciascia ha dato il suo voto al Partito Radicale - parlo di quello degli anni Cinquanta, al PSI, al PSIUP, al PCI, ai radicali che siamo. Credo che pochi sappiano che negli anni Sessanta i radicali curarono un opuscolo che riguardava appunto il Voto Radicale. Tra gli altri interventi, c'era anche quello di Leonardo. Merita di essere in parte ripreso:

"Se il centro sinistra è destinato a realizzarsi sul piano nazionale così come si è realizzato in Sicilia, penso che non si verificherà alcun rinnovamento. Dico di più: preferirei si tornasse al centrodestra. E mi è già capitato di scrivere che il centrosinistra minaccia di diventare, in effetti, quel cambiar tutto per non cambiar niente che il principe di Lampedusa pone come una costante della storia siciliana Continuerei a votare per il PSI se in Sicilia la sinistra di questo partito fosse effettivamente, concretamente rappresentata Mi pare insomma che qui destra e sinistra, come nella Democrazia Cristiana, nel PSI, siano puri nomi: e ne è prova il centrosinistra regionale Stando le cose come stanno, non mi pare che la DC incontrerà molti ostacoli. Spero soltanto che l'opposizione faccia fino in fondo il proprio dovere".

Per inciso: in quell'opuscolo c'era anche un intervento di Pier Paolo Pasolini, che poi, nelle ultime fasi della sua vita troveremo sempre più a fianco di noi radicali. Il suo ultimo intervento, quello che viene considerato il suo "testamento politico" è l'intervento che aveva preparato per il nostro congresso di Firenze, l'intervento dove ci esortava "a continuare a essere irriconoscibili, dimenticare subito i grandi successi, e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari a identificarci con il diverso, a scandalizzare e a bestemmiare". Sciascia era molto legato a Pasolini: nel 1950, quando pubblicò presso l'editore Vardi un libretto, "Le favole della dittatura", Pasolini scrisse un lusinghiero articolo di recensione, e grazie a quell'articolo Sciascia e Pasolini poi si conobbero e diventarono amici.

Quell'opuscolo sul voto radicale, quando si dice, era curato, tra gli altri anche dallo scrittore Elio Vittorini, che dopo la clamorosa rottura con il PCI e gli insulti che aveva ricevuto da Togliatti ("Vittorini se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato", scrisse su Rinascita), aveva accettato di diventare presidente del Partito Radicale e per i radicali era stato eletto consigliere comunale a Milano. E poi, visto che siamo in fase di inciso: Ignazio Silone, scrittore che, soprattutto con "Fontamara" e "Pane e Vino", aveva molto colpito Sciascia; e la sua morte gli lasciò, disse un vuoto. Come tutto si tiene: Silone negli ultimi anni della sua vita si era avvicinato anche lui ai radicali, era soprattutto interessato alle iniziative legate agli obiettori di coscienza, a cui aveva regalato parte dei suoi mobili per arredare la sede e parte della sua biblioteca. Al suo funerale, a Pescina in Abruzzo, c'erano Pannella, una ventina di radicali; un solo comunista, Antonello Trombadori. E Silone, anche se poi con i

l PCI aveva avuto polemiche furibonde, era pur sempre stato uno dei fondatori del partito comunista

Ancora sul filo dei ricordi, e mi scuso se possono sembrare come certamente sono, scoordinati e privi di un filo logico, ma insomma, sto raccontando di una persona amica

Sciascia, chi lo ha conosciuto lo sa, era una persona molto pudica, discreta; curava molto il suo aspetto, era sempre ben vestito, l'avrò visto si e no due volte senza cravatta. Sempre puntualissimo, cortese. La prima volta che andai a casa sua a Palermo devo confessare, ne fui anche un po' intimidita: quelle stanze piene di libri e di quadri: le opere complete di Stendhal, di Bossuet, di Voltaire, le vecchie edizioni di Shakeaspeare, di autori siciliani; ricordo che i libri erano quasi sempre disposti in prima fila. Mi colpì, per esempio che dietro Shakeaspeare vi fossero le opere di Gramsci. E poi Manzoni, Leopardi, Pascoli, Carducci, le vecchie edizioni della Medusa, di Longanesi, del Saggiatore; i tanti quadri che rivelavano amore per la pittura e il disegno. Insomma, all'apparenza Sciascia era sideralmente lontano dal nostro mondo radicale. E invece era radicale quanto e più di noi. Sapete, era il 1987. Gli anni in cui da soli si agitava la questione della Giustizia Giusta. Enzo Tortora era stato a

rrestato quattro anni prima. Sciascia tra i primi aveva capito la mostruosità di quell'arresto e dell'operazione giudiziaria nel suo complesso:850 arresti, decine e decine di omonimie, scoperte però dopo che le vittime avevano già scontato settimane di carcere; nel solo processo di primo grado le assoluzioni furono 104 Per Sciascia quella della giustizia era diventata una specie di ossessione. Aveva sostenuto le nostre iniziative referendarie, riteneva sacrosanta la responsabilità civile del magistrato e anche la separazione delle carriere. E scrisse un articolo, che vi leggo in parte:

"Marco Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge, della giustizia. Ce ne saranno altri, ma senza volto e senza voce, immersi e sommersi in partiti la cui sensibilità ai problemi di diritto soltanto si manifesta quando qualche mandato di cattura raggiunge uomini del loro apparato: per il resto se ne stanno in silenzio; e anzi, certi arbitri dell'amministrazione della giustizia, quando toccano altri, di altri partiti, li mettono in conto dell'alacre ed esatto agire dei giudici. Pannella e le non molte persone che pensano e sentono come lui, e con le quali mi onoro di stare, si trovano dunque ad assolvere un compito ben gravoso e difficoltoso: ricordare agli immemori l'esistenza del diritto e rivendicare tale esistenza di fronte ai giochi di potere che appunto nel vuoto del diritto o nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce. Si fa quel che si può: e per richiamare l'attenzione degli italiani su un così grave e pressante probl

ema, Pannella è spesso costretto - lui, che a ben conoscerlo è uomo di grande eleganza intellettuale - a delle sorties che appaiono a volte funambolesche e grossolane ".

Voi sapete che i radicali si lamentano e denunciano per la pessima informazione o la nessuna informazione. E per questo vengono bollati come vittimisti. Chissà se anche Sciascia faceva parte dei vittimisti. E' un fatto, comunque che Sciascia, scrittore italiano tra i più richiesti alla collaborazione da parte dei giornali, quando si trattava dei radicali, si vedeva chiuse le porte; anche quelle dei giornali su cui abitualmente scriveva. L'articolo che vi ho appena citato, è stato sì pubblicato, ma non in Italia. Lo ha pubblicato El Pais, lo hanno potuto leggere gli spagnoli, non gli italiani. E qualcosa vorrà pur dire.

Sto parlando da un bel po', e come temevo, di Sciascia riesco a raccontare ben poco.

Una volta Sciascia confidò si essersi sentito per tutta la vita come il pesce volante di Voltaire: "Se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano; se si immerge sott'acqua, se lo mangiano i pesci". Una condizione, aggiunse, "bellissima, anche se tremenda". Poi, con una punta di malinconia, si era domandato: "Quanti sono oggi in Italia, gli uomini di lettere disposti ad accettarla e a viverla?".

Lo vediamo. Nessuno, si può dire.

E ora che Sciascia non c'è più, profittando del fatto che non si può più difendere, c'è chi non gli vuole risparmiare l'ultimo oltraggio, l'estrema offesa: l'omologazione. Non essendo stato possibile inquadrarlo da vivo, si tenta di imbalsamarlo e di inghiottirlo da morto. Lui che era stato bollato via via come un "codardo", che si era sentito definire "iena dattilografa", che era stato accusato di essere un venduto trotzkista

La verità indubbiamente rende scomoda la vita a chi la dice; e Leonardo nel corso della sua vita ha detto troppe e insopportabili verità. Un tipo di impegno che si paga duramente. Il prezzo è la solitudine, l'isolamento.

Quando lo invitammo a scrivere sulle nostre pubblicazioni, rispose con una lettera molto bella: "Bisogna, come diceva Seneca per gli schiavi, cominciare a contarsi. Si scoprirà allora che siamo isolati, ma non soli. Non numerosi, ma sufficienti per cotnrapporre come diceva De Sancris "l'opinione" alle "opinioni" correnti".

Non ci sono certo mancate, le occasioni, per contarci.

Un momento di grande polemica fu quando si trovò implicato in una causa con il segretario del PCI Enrico Berlinguer; per quella polemica ruppe anche un'amicizia di sempre, quella con Guttuso. Era accaduto che Sciascia, in una riunione della commissione parlamentare 'd'inchiesta sul caso Moro, di cui era componente, aveva rivelato che in un colloquio avuto a Botteghe Oscure, alla presenza del pittore, aveva appreso da Berlinguer di sospetti collegamenti tra la Cecoslovacchia e il terrorismo; e di una imminente espulsione di diplomatici cecoslovacchi dall'Italia. Il segretario del PCI smentì la cosa, Sciascia la confermò. Berlinguer querelò per diffamazione. Sciascia controquerelò. Finì all'italiana, un'archiviazione generale: la querela di Berlinguer era infondata perché non si potevano perseguire parlamentari per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni. Quella di Sciascia venne archiviata perché "la falsità dell'onorevole esclude la calunnia". Come il magistrato abbia potuto arrivare a def

inire "falsità" la versione data da Sciascia non è chiaro, dal momento che il "falsario" in questione non è mai stato neppure interrogato.

Scoppiò poi il caso P2: Sciascia sull'Espresso scrisse un articolo garantista; ricordò che i 953 delle liste di Gelli erano stati accusati e condannati ancora prima di essere sottoposti a regolare processo. Mise in guardia dalle tentazioni di "giustizie sommarie"; esortò a giudicare e condannare non tanto per reati associativi, quando per singoli e specifici crimini. L'Unità non trovò di meglio che accusarlo di insensibilità. Non mancò chi insinuò che così si difendeva Gelli.

Nel pieno delle polemiche sul terrorismo, e l'impegno che si chiedeva ed esigeva agli intellettuali, Sciascia si vide incollata la paternità dello slogan: "Né con lo stato, né con le BR". Il PCI gli rimproverò aspramente di dire ciò che pensava; e di pensare ciò che diceva. Sciascia allora decise di tacere. Lo si definì "arrogante per i suoi silenzi".

E sì che la posizione di Leonardo era chiarissima:

La spiegò, per esempio, su Panorama: "Mi attaccano gratuitamente e scioccamente. Ho detto: vale la pena di difenderlo questo nostro Stato? Così com'è, no. Non vale la pena difenderlo. Così come va diventando, siamo noi che dobbiamo difendercene".

Insomma: se a slogan bisognava fare proprio ricorso, allora più propriamente si sarebbe dovuto dire: "Contro questo Stato, e contro le Brigate Rosse".

All'Espresso, in occasione dell'omicidio del sindacalista genovese Guido Rossa, disse: "Io non nessuna affezione per lo Stato così com'è, ma ne ho molta per la Costituzione. Lei mi chiede: ma proprio io che avrei lanciato la teoria: "Né con lo Stato, né con le BR"? Io non ho mai formulato questo slogan. E' nato dalla deformazione della mia valutazione negativa della classe politica italiana, valutazione che continua a essere tale. Ma ciò significa volere che questa classe dirigente cambi, non che si avveri il sogno delle BR: Naturalmente io mi sarei comportato come Rossa, pur tenendo conto che bisogna fare i conti con il se stesso sconosciuto. Dico di più: che denuncerei qualsiasi tipo di reato contemplato dalle leggi. Ho dei doveri verso me stesso, e verso gli altri, lasciando perdere lo stato".

Nei giorni del caso Moro Leonardo è stato attaccato con violenza; e il suo libro L'Affaire Moro stroncato ancora prima di essere letto. Per tutti, Eugenio Scalfari, che polemizzò con Leonardo stroncando il libro senza averlo letto. In un suo articolo di fondo su Repubblica gli faceva dire cose che nel resoconto dell'intervista, pubblicata nelle pagine interne, non c'era

Le ultime polemiche riguardano la mafia, l'antimafia, i cosiddetti professionisti dell'antimafia. Al di là dei casi specifici, è chiaro che Leonardo poneva una questione di metodo. E credo facesse bene a porla. Ad ogni modo, voglio chiudere per ora leggendo una pagina di un libro che ho sfogliato di recente, I disarmati di Luca Rossi. Se si va alle pagine 319-320 si legge una riflessione di Giovanni Falcone, mai smentita. Ascoltate:

"Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. In questo condivido una critica dei conservatori: l'antimafia è stata più parlata che agita. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un'epopea, non siamo superuomini: e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t'impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere es

tremamente impopolare, ma la verità è questa ".

Questo Falcone. Per inciso, e chiudo davvero: quando al Consiglio Superiore della Magistratura si doveva decidere se doveva diventare o meno capo dell'ufficio istruzione di Palermo, e gli venne preferito Antonino Meli, due dei tre rappresentanti di Magistratura Democratica gli votarono contro. Uno dei due era Elena Paciotti, ora parlamentare europea dei DS, già presidente dell'Associazione Nazionale dei Magistrati.

Furono Leoluca Orlando, Carmine Mancuso e Alfredo Galasso a denunciare Falcone al CSM accusandolo di tenersi chiusi in cassetto la verità sui delitti eccellenti che avevano insanguinato Palermo.

E' stato Alessandro Pizzorusso, componente "laico" del CSM, eletto dal PCI, a scrivere sull'Unità a scrivere un lungo articolo dove si sosteneva che Falcone non era affidabile, e che non gli si doveva dare l'incarico di Procuratore Nazionale Antimafia perché aveva accettato l'incarico di direttore generale degli affari penali offertogli da Claudio Martelli.

Non so cosa direbbe e cosa farebbe Leonardo oggi. Certo mai come in questi tempi ci manca il conforto del consiglio e della critica di quest'uomo, buono e giusto.

 
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