Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
gio 26 giu. 2025
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Centro Radicale - 21 settembre 1999
Speaking notes per Montecchio/PPI/Noi e il Terzo Mondo
10.09.99

Quattro decenni di politiche dello sviluppo: un bilancio fallimentare

Non c'é bisogno di analisi particolarmente sofisticate per accorgersi che svariati decenni di strategie mirate a combattere il sottosviluppo non hanno dato risultati apprezzabili. Il piú banale dei calcoli in termini di costi e benefici dimostrerebbe che non siamo riusciti ad intaccare il gap fra Nord e Sud del mondo; e basta consultare l'andamento dei cosiddetti indici dello sviluppo umano per constatare che proprio le fasce piú vulnerabili dell'umanitá (il miliardo e passa di persone prigioniere della povertá estrema) vedono allontanarsi il miraggio del loro riscatto.

Mentre fanno naufragio tutti i "modelli" messi in cantiere, dai piú semplici ai piú sofisticati, micro e macro, ispirati alla cosiddetta sostenibilitá economica o all'impatto ambientale, nuove piaghe planetarie - penso all'epidemia dell'AIDS - fuori controllo solo nei paesi piú poveri - ipotecano il futuro di intere societá dell'Africa sub-sahariana, regione-simbolo, paradigmatica di un naufragio socio-economico che nessuno sa piú come contrastare.

L'Unione Europea si accinge a varare una nuova Convenzione di Lomé con i suoi 71 paesi partner dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico. Forse bisognava avere il coraggio di azzerare questo strumento comunitario - che rimane il piú importante accordo multilaterale Nord-Sud - per ripensarne a fondo l'impianto e la filosofia. Ma sono mancati all'Europa il coraggio politico e la creativitá. E' inutile nascondersi, infatti, che il mito della "cooperazione allo sviluppo" ha fatto il suo tempo.

Ai fallimenti cui accennavo si accompagna infatti la curva inesorabilmente in discesa delle risorse che i principali donatori destinano bilateralmente al cosiddetto aiuto pubblico allo sviluppo. Ognuno ha le sue ragioni "tecniche" per stringere i cordoni della borsa: per noi europei l'austeritá imposta dai parametri di Maastricht; per gli Stati Uniti un'ondata neo-isolazionista; per il Giappone la crisi economica; la bancarotta per la Russia. Ma io penso che questa "stanchezza dei donatori", come la chiamano gli addetti ai lavori, dipende in primo luogo da un diffuso senso di frustrazione di fronte alla mancanza di risultati, al "pozzo senza fondo" che sta di fronte a tutti.

La controprova di questa frustrazione l'ho trovata, nei miei cinque anni da commissaria europea per l'aiuto umanitario, nella straordinaria sensibilitá e generositá con cui governi e popolazioni di questi stessi paesi donatori abitualmente reagiscono di fronte ai tanti disastri umanitari della nostra epoca. Mentre diminuiscono le risorse disponibili per lo sviluppo, continuano a crescere quelle che i paesi ricchi destinano a limitare le sofferenze e i danni provocati soprattutto da conflitti che la comunitá internazionale non sa o non vuole risolvere. E se sentite dire che l'aiuto umanitario "ruba" risorse alle politiche di sviluppo, sappiate che é una sciocchezza. La veritá é che anche la solidarietá si spegne di fronte all'incertezza dei risultati.

Io non ho ricette pronte per combattere il sottosviluppo. Se ce l'avessi sarei in corsa per un Premio Nobel. Ma sono convinta che uno dei difetti d'origine delle politiche fin qui perseguite - un loro peccato originale - sta in una sorta di illusione economicista, sta nella speranza che si possa ottenere lo sviluppo di intere societá attivando semplicemente meccanismi economici (trasferimento di risorse e know-how, fornitura di infrastrutture) e considerando come un optional, o come un lusso superfluo, l'attivazione del necessario quadro di riferimento politico-istituzionale: il rispetto di alcuni principi basilari e delle norme internazionali che caratterizza gli Stati di diritto.

Io credo che nessuna futura politica dello sviluppo possa prescindere dall'aspetto institution building, dall'esigenza di includere tra i fattori che rendono sostenibile il partenariato Nord-Sud la creazione di uno Stato di diritto e il rispetto di leggi e convenzioni internazionali.

Nord, Sud e globalizzazione

La globalizzazione, questo fenomeno che da un decennio rivoluziona il mondo rendendolo sempre piú interdipendente, non consente piú al Nord di ignorare i problemi del sud o di rinviarne la soluzione a tempi migliori. Anche le crisi piú "periferiche" possono avere un impatto sul Nord del mondo: impatto economico-finanziario, come é avvenuto per le difficoltá conosciute dalle "tigri asiatiche" o dal Brasile; impatto in termini geopolitici e di sicurezza, come avviene per via dell'Afghanistan o dei conflitti endemici che affliggono il Mar Rosso e il Corno d'Africa. La globalizzazione "universalizza" persino il martirio di un paese minuscolo e remoto come Timor, sollevando un dilemma: puo' il mondo (o se preferite il Fondo Monetario), "castigando" il paese aggressore, come si é fatto con la Serbia, affrontare le prevedibili conseguenze a catena di una nuova crisi dell'Indonesia e della sua borsa?

La globalizzazione ci sbatte sul naso, in termini di flussi incontrollati di migrazione Sud-Nord, le contraddizioni che lacerano paesi i cui modelli di sviluppo prescindono dallo Stato di diritto. Penso in primo luogo al Mediterraneo ma la questione riguarda intere aree dell'Africa e dell'Asia.

A proposito di globalizzazione, consentitemi una piccola parentesi. E' oggi di moda, specialmente a sinistra e in generale fra coloro che a torto o ragione si considerano progressisti e quindi democratici, sostenere che la globalizzazione é nemica dei poveri e quindi del terzo mondo.

Io penso invece che la globalizzazione offra, ai paesi poveri dotati di dirigenti capaci ed onesti, occasioni di sviluppo molto piú concrete di quante non ne siano scaturite da quarant'anni di "cooperazione".

E' quello che sostiene un testimone privilegiato della nostra epoca come Renato Ruggiero il quale nel 1997, quand'era direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio - il WTO - scriveva : "Vent'anni fa appena il 5% delle importazioni dei paesi sviluppati proveniva da quelli in via di sviluppo. Nel 1990 si é pasati al 15% e nel 1995 al 21%. E le prospettive restano favorevoli. I quindici paesi piú dinamici del commercio mondiale, fra il 1970 e il 1993, sono tutti paesi in via di sviluppo".

E se Ruggiero vi sembrasse un testimone di parte, in quanto ex-capo di un organismo come il WTO, "figlio" della globalizzazione, sentite cosa dice l'economista indiano Jagdish Bhagwati, che insegna alla Columbia University di New York, non esita ad accusare proprio i paesi industrializzati di penalizzare le esportazioni dei paesi in via di sviluppo e considera la globalizzazione come un'amica dei poveri: "L'India é un paese di un miliardo di abitanti e una percentuale molto alta di poveri. Trent'anni di autarchia avevano quasi azzerato la crescita economica mentre le riforme economiche spinte dalla globalizzazione hanno portato il tasso di crescita al 5,5% annuo e consentono di combattere la povertá".

Quanto agli effetti sociali della globalizzazione lo stesso Bhagwati fa un'osservazione che trovo assai efficace :"Se si vuole impedire che una moglie venga picchiata in casa dal marito, serve molto piú trovare un impiego per lei che varare una complicata legge contro di lui".

Chi demonizza la globalizzazione, considerandola come un complotto capitalista anziché un fenomeno del nostro tempo con il quale misurarsi, dovrebbe chiedersi come mai si trova al fianco di tutti i tiranni del mondo contemporaneo. Fateci caso: non c'é regime autoritario, integralista o laico che sia, da quello degli ayatollah a Gheddafi, dai Talibani a Saddam Hussein, che non si vanti di combattere la globalizzazione e l' "imperialismo occidentale" di cui essa sarebbe figlia. In realtá tutti gli uomini forti di cui parliamo sono pronti ad ogni sorta di compromesso economico con l'Occidente, se si tratta di materie prime, armi, tecnologie, infrastrutture faraoniche. L'unica globalizzazione che non tollerano é quella delle convenzioni internazionali, dei diritti umani, del pluralismo, della libertá individuale.

Non vorrei a questo punto che qualcuno, a cominciare da Giulio Andreotti, navigatore di lungo corso delle relazioni internazionali, mi sospettasse di volere fare l'anima bella. Non sono cosí ingenua da non capire che la diplomazia e gli interessi nazionali si fanno interagendo con i regimi che esistono e non con quelli che si vorrebbe esistessero: ma resto convinta che per un paese dove vige uno Stato di diritto la diplomazia piú realista, quella - per cosí dire - piú sostenibile é una diplomazia che concilia la dose necessaria di realismo con la fedeltá ai principi e ai valori di cui ci dobbiamo sentire custodi.

Stento a credere nella buona fede di coloro che invocano il cosiddetto "relativismo culturale" per accettare come cosa normale a casa d'altri la legalizzazione di cio' che a casa nostra consideriamo violazioni dei diritti fondamentali della persona : pena di morte, mutilazioni sessuali ed altri orrori. Mi si rizzano i capelli quando vedo mister Murdoch, uno dei grandi del capitalismo mondiale, uno dei profeti del villaggio globale realizzato, che pur di conquistare il mercato cinese non esita a sostenere che il cittadino cinese non sa che farsene della democrazia e che il Dalai Lama é un monaco medievale, oscurantista e un po' vanesio.

Qualche pensierino sulla societá multietnica e multireligiosa

(dopo l'eventuale pistolotto sulla societá multietnica come fenomeno giá in atto)

- Un ruolo capitale, su questo fronte, puó svolgere il mondo cattolico. Lo dico da laica, estranea a qulsiasi cultura religiosa (ma non alla spiritualitá), cui é capitato spesso in questi ultimi anni di trovarsi nella stessa trincea con i cattolici: in sintonia con il Vaticano nelle battaglie contro la pena di morte e per l'istituzione di un Tribunale penale internazionale; in simpatia con i missionari, donne e uomini, nelle lande piú infelici del mondo;

- la cultura cristiana costituisce oggi in Italia un alleato prezioso per chiunque ritenga che la sfida della multietnicitá va affrontata con tolleranza, rispetto dell'altro e - soprattutto - con spirito di apertura. Visto che il guscio della monoetnicitá si é ormai rotto anche in Italia e non puó essere ricostituito;

- l'"altro", nell'Italia di oggi, é soprattutto l'Islam, la religione-civiltá di gran parte dei "nuovi cittadini"; e dalla nostra capacitá di conoscere e capire i musulmani con cui siamo destinati a coabitare dipende in gran parte il nostro futuro prossimo;

- lasciatemi citare le ultime frasi di un articolo che Jacques Attali, uno dei piú lucidi fra gli intellettuali francesi prestati alla politica, ha scritto sulla necessitá per gli europei di coabitare con l'Islam :"La metá dell'umanitá ha oggi meno di 25 anni, é molto povera e in gran parte musulmana. Essa assiste, sui mille schermi del secolo, allo spettacolo delle ricchezze che si dividono, grazie ai loro fondi-pensione, i prosperi pensionati dell'Occidente. Essa aspira a trovare il suo posto. E tocca a noi aiutarla. La gioventú musulmana é destinata a modellare il nostro prossimo secolo non meno di

Internet e della genetica.

 
Argomenti correlati:
stampa questo documento invia questa pagina per mail