» Lo scenario di oggi e di domani per le strategie aziendali / Globalizzazione e convivenza Cernobbio, 3 settembre 1999
Il dibattito di questo pomeriggio richiama opportunamente alla nostra attenzione i problemi di » coabitazione che l'avanzare della globalizzazione pone a tutti noi. A diversi livelli, aggiungerei. Perché, esistono problemi di coabitazione che si presentano su scala planetaria, a interi popoli e rispettive classi dirigenti catapultati dentro il villaggio globale realizzato, ma ci sono anche i nuovi problemi di coabitazione che le grandi migrazioni producono, su scala locale, in ciascuno dei paesi (e sono tanti) nei quali i flussi umani contemporanei innestano nuove collettività, nuove lingue, nuove culture.
La globalizzazione non é qualcosa che deve ancora avvenire. E' già una realtà della nostra vita quotidiana. Ed é un fenomeno, un mutamento, che non riguarda soltanto la liberalizzazione dei movimenti di capitali o la libera circolazione delle merci. C'é una globalizzazione delle aspettative, delle speranze ; cosi' come assistiamo a una globalizzazione delle idee e delle culture. Si tratta di processi difficili e dalle conseguenze largamente imprevedibili, che proprio per questo provocano ansia, quando non addirittura vertigine e paura. Ma c'é una cosa che dobbiamo sapere : sono processi dai quali non si puo' tornare indietro.
Per quanto riguarda la comunità internazionale, non c'é dubbio che proprio la globalizzazione ha moltiplicato le capacità di autorappresentazione di popoli, culture e leader che il filtro occidento-centrico - scusate il brutto neologismo - ci faceva considerare fino a ieri come » marginali . Senza volere mitizzare nulla, non é forse evidente l'occasione di mutuo arricchimento che vie offerta a noi tutti ? Il processo, beninteso, non é indolore. Il mondo globalizzato non ha aconra imparato a convivere con se stesso. Ma solo il mondo globalizzato puo' secernere, o scoprire gli antidoti per i nuovi problemi, gli strumenti per il riequilibrio e il mutuo adattamento.
A rischio di apparire paternalista, lasciatemi osservare che non é facile per Stati giovani e giovanissimi sostenere sul palcoscenico della storia un ruolo che le nostre prospere e stabili nazioni europee hanno assunto solo dopo secoli di conflitti, lacerazioni e inenarrabili violenze. Ed é una responsabilità di noi europei, di noi occidentali, quella di offrire ai nuovi attori della scena internazionali modelli istituzionali e riferimenti etico-giuridici - a cominciare da quelli che si ritrovano nello Stato-Nazione, di cui noi siamo giustamente fieri - ma che possono anche spingere nazioni emergenti, alla ricerca di identità e riconoscimenti politici, a ripercorrere errori ed eccessi (massacri, aggressioni, » pulizie etniche ) che sono parte della storia di paesi oggi considerati all'avanguardia per democrazia, tolleranza, senso del diritto.
Dobbiamo ammetterlo. La cultura postindustriale, la società dell'informazione navigante su Internet, non offrono ancora alternative valide al modello, certamente invecchiato e forse obsoleto, dello Stato-Nazione. I più ottimisti vedono la soluzione nella formula » globalizzazione più regionalizzazione , ossia il villaggio globale visto come un insieme di aree geografiche, di » quartieri , relativamente omogenei e soprattutto aperti. Riuscirà questa formula, suggestiva quanto vaga, a consentire forme di coesistenza capaci di conciliare, anche a livello istituzionale, le esigenze del » governare con quelle del » convivere ? Lo spero.
Qualcuno ha scritto, appena qualche giorno fa, che la globalizzazione ripropone l'eterno conflitto, vecchio di millenni fra » società aperta e » società chiusa , fra un modello di società (quella aperta) basato sul valore dell'individuo ed un altro (quello chiuso) basato sul predominio del gruppo e dei valori collettivi. Parlo del conflitto affascino' il grande filosofo liberale Karl Popper e ispira oggi l'azione di George Soros, grande teorico - grande visionario - e attore filantropico dell' » Open Society Institute .
Proprio l'affermarsi dello » Stato nazionale di diritto ha portato, in epoca relativamente recente, ad una sintesi fra questi due modelli, ad un compromesso fondato su nozioni come la sovranità popolare, i diritti fondamentali dell'uomo e quelli del cittadino. E' quello che ci ha offerto e continua ad offrirci l'ordine democratico contrassegnato dalla supremazia della politica. E non é poco. Da circa un secolo, tuttavia, la crescente autonomia dell'economia ha progressivamente minato il primato della politica : é già accaduto con l'industrializzazione, accade di nuovo oggi come conseguenza della globalizzazione economica, del proliferare di nuovi paesi industrializzati, delle successive rivoluzioni tecnologiche. La politica rincorre sempre più spesso l'economia.
Capita che i fautori della » società chiusa reagiscano alla dissociazione fra economia e politica, fra economia e cultura, - il secolo che sta per chiudersi ci fornisce al riguardo esempi allarmanti - in maniera estrema e funesta. Di fronte all'insicurezza prodotta dalla caduta di barriere e frontiere nascono movimenti che, per ripristinare l'egemonia della politica non esitano a - uso una formula del sociologo francese Alain Touraine - a identificare lo Stato » con un patrimonio nazionale, razziale, etnico, religioso . Conosciamo bene questa deriva antiliberale, anticapitalista - e soprattutto totalitaria - perché essa ha ispirato certe aberrazioni del nazifascismo e dello stalinismo, entrambi impegnati a proteggere i propri paesi contro le malefatte di un'economia » denazionalizzata e apolide , fino a schiacciare i connazionali » traditori al soldo dello straniero .
La più vistosa e pericolosa variante contemporanea del totalitarismo é certamente l'integralismo, che non é solo religioso, e che quando é religioso non é solo musulmano. Non voglio qui improvvisare un'analisi dei rapporti cosi' complessi fra religione e politica. Mi limito a constatare la ricorrente inclinazione dei regimi guidati da forze islamiche estremiste a combattere il capitalismo straniero e più in generale la cultura occidentale, il » Grande Satana . Ma non meno perniciose, né meno totalitarie mi paiono altre forme odierne di integralismo, basate sul nazionalismo e l'etnicismo : e penso ovviamente in primo luogo alla Serbia di Milosevic. Più in generale credo si possa affermare che non c'é regime autoritario della nostra epoca, anche quelli instaurati da »tiranni laici come Saddam Hussein e Gheddafi, che non trovi una qualche buona ragione per combattere la globalizzazione. E poi menarne vanto. In realtà gli uomini forti che dominano queste » società chiuse (dai Talibani a Gheddafi, passando p
er il colonnello Chavez al potere in Venezuela) sono pronti ad ogni sorta di compromesso economico con l'Occidente, quando si tratta di materie prime, armi, tecnologie, infrastrutture : l'unica globalizzazione che non tollerano é quella dei diritti umani, del pluralismo, della libertà individuale.
Tiranni che tuonano ogni giorno contro la rapacità dell'Occidente e delle sue multinazionali, ma ignorano, o fingono di ignorare, che proprio la globalizzazione ha ottenuto, in termini di lotta al sottosviluppo, risultati assai più concreti di tante presunte » rivoluzioni e soprattutto di quattro decenni di politiche internazionali dette dello sviluppo. E' quello che sostiene un testimone privilegiato del nostro tempo come Renato Ruggiero, che nel 1997, ancora di direttore generale in carica dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO, scriveva (cito) : » Venti anni fa solo il 5% delle importazioni dei paesi sviluppati proveniva da quelli in via di sviluppo. Nel 1990 si é passati al 15% e nel 1995 al 21%. E le prospettive restano favorevoli. I quindici paesi più dinamici del commercio mondiale, fra il 1970 e il 1993, sono tutti paesi in via di sviluppo . (fine della citazione)
Qualcuno osserverà legittimamente che, malgrado i benefici effetti della globalizzazione e malgrado l'ottimismo del WTO, organismo internazionale » figlio della globalizzazione, il mondo conta ancora oltre un miliardo di esseri umani prigionieri della povertà estrema e senza alcuna ragionevole speranza di uscirne. Io mi limito a rilevare che per il momento l'unica ricetta che abbia dato qualche risultato nella lotta al sottosviluppo, nel correggere I confini fra » Nord e Sud sembra essere proprio quella globalizzazione che secondo terzomondisti e paladini delle » società chiuse é stata concepita per schiacciare i più deboli.
E veniamo ai problemi di coabitazione che i flussi migratori, collegabili anch'essi alla mondializzazione dell'economia, creano all'interno dei singoli paesi. Dei paesi d'accoglienza, ovviamente, come il nostro. Che cosa fanno, che cosa possono fare i governanti e i singoli individui dei paesi le cui società sono più segnate dalla presenza di » nuovi cittadini portatori di lingue, religioni e costumi più o meno sconosciuti ?
Governare un paese, oggi, vuol dire in primo luogo renderne l'organizzazione sociale ed economica compatibile con le regole e le esigenze del sistema economico mondializzato. Nello stesso tempo, il condizionamento sociale si indebolisce e le istituzioni di tipo tradizionale perdono peso e ruolo, lasciando uno spazio sempre maggiore alla vita privata e ai movimenti spontanei. Si chiede il sociologo francese Alain Touraine, ancora lui: » Com'é possibile continuare a parlare di cittadinanza e dmocrazia rappresentativa allorché gli eletti guardano al mercato mondiale e gli elettori alla propria vita privata ? (fine della citazione
Fra tanti fenomeni tumultuosi innescati dalla globalizzazione, ce n'é almeno uno - la globalizzazione delle coscienze - che va molto a rilento. Se é vero infatti che la televisione, la regina dei media, mette ogni giorno in relazione diretta il nostro vissuto privato con la realtà globale, la nostra confortevole quotidianità con i drammi e gli orrori del nostro tempo, l'emozione (le molte emozioni) che noi proviamo davanti alla tv assai difficilmente si trasforma in motivazione, o azione, a carattere politico. » » Una parte di noi é immersa nella cultura mondiale mentre un'altra parte, privata di uno spazio pubblico in cui possano formarsi e applicarsi delle norme sociali, si chiude o nell'edonismo o nella ricarica di appartenenze immediatamente vissute . Ci ritroviamo insomma ad un tempo sia » cittadini del mondo , ma senza responsabilità, senza diritti e doveri ; sia difensori di uno spazio delimitato - privato, nazionale, etnico - al quale istintivamente ci aggrappiamo.
Insomma, per parlare chiaro. Non abbiamo grandi difficoltà a indignarci di fronte ai diritti violati - e a capire le ragioni - delle donne afghane, del popolo tibetano e dei nazionalisti di Timor massacrati davanti ai seggi elettorali ; ci é molto più difficile capire e accettare le ragioni (cosi' evidenti) che rendono ineluttabile la scelta (faccio solo un esempio fra tanti) di centinaia di migliaia di nordafricani che vengono a cercare lavoro e dignità umana sulla sponda nord del Mediterraneo. E' come se il conflitto fra » società aperta e » società chiusa si riproducesse non solo all'interno di ciascun paese ma addirittura all'interno di ciascuna coscienza.
Della società multietnica si puo' dire, come della globalizzazione, che non si tratta di qualcosa che deve ancora avvenire, di un'ipotesi fra tante : essa é già la nostra realtà quotidiana. Prima impariamo a gestire questa realtà - che appare molto più ricca e stimolante della realtà di ieri - e meglio sarà per tutti.
Ci si chiede : come gestire l'impatto sociale della globalizzazione ? In assenza di ricette - sia globali, sia locali - il mio istitnto di liberale e di liberista mi dice che la via più sicura é quella di investire sulle risorse dell'individuo. Soprattutto in un paese come il nostro, dove si trovano paladini della » società chiusa ad ogni angolo : nel settore pubblico come in quello privato ; nei partiti di destra e di sinistra ; fra intellettuali laici e cattolici. D'altra parte, se il nostro paese rischia di mancare l'appuntamento con la globalizzazione non é soltanto per l'impreparazione a gestire una società multietnica. L'Italia rischia di uscire declassata dal grande rimescolamento di carte indotto dalla mondializzazione anche e soprattutto perché é una società molto più » chiusa che aperta, che scoraggia l'individuo e ne frustra le capacità in ogni modo : un paese la cui macchina amministrativa riesce a esasperare l'ammalato, il viaggiatore, l'utente di qualsiasi servizio pubblico, il lavoratore e
l'imprenditore. Siamo un paese dove le imprese non delocalizzano più a Taiwan o in Romania ma più banalmente a Mentone, in Alta Savoia o in Austria.
Non abbiate paura. Non voglio approfittare di questo microfono per promuovere i referendum radicali. Concludo ripetendo che la sfida della globalizzazione puo' essere affrontata con maggiore serenità puntando sull'individuo. Perché la storia ci insegna che ogni tentativo omologare tutti gli individui ad un unico modello si é trasformato in un incubo ; e ogni tentativo di accettare e legalizzare un numero illimitato di » differenze porta alla segregazione o alla guerra civile. Solo l'individuo, dotato di libertà, resiste istintivamente a ogni ideologia che voglia metterlo o in armonia con l'ordine del mondo o con quello della comunità.
Consentitemi di finire con un'ultima citazione di Touraine : » Il ricorso all'individuo é l'unica risposta alla dissociazione fra economia e cultura, l'unica fonte possibile di movimenti sociali che si contrappongano sia ai signori del cambiamento economico, sia ai dittatori comunitari .