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Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Rinascimento - 1 ottobre 1999
Intervento di Emma Bonino alla presentazione del libro di Giovanni Valentini "Il mistero della Sapienza: il caso Marta Russo" Ed. Baldini e Castoldi, 1999.
Milano, Circolo della cultura 30 Settembre 1999

Il pregio più evidente del bel libro di Giovanni Valentini è che si tratta di un libro di autentica cronaca giudiziaria.

Può sembrare una affermazione ovvia, ma il fatto è che -soprattutto negli ultimi 20 anni- si è quasi del tutto perso il costume giornalistico (ed il gusto professionale) di raccontare le vicende giudiziarie facendo parlare null' altro che gli atti del processo.

Da quando i temi della Giustizia hanno conquistato il proscenio della lotta politica, i cronisti giudiziari si occupano di creare o alimentare lo scontro o la polemica politico-giudiziaria, di regola prescindendo dai fatti, cioè dallo studio faticoso, spesso noioso, degli atti processuali.

Ciò che interessa è cogliere la indiscrezione, pubblicare -del tutto acriticamente- la notizia, possibilmente clamorosa, che viene fatta filtrare, in prevalenza quasi assoluta, dagli Uffici delle varie Procure della Repubblica o della Polizia Giudiziaria, in una logica di schieramento, di scelta di campo, che un giornalista può praticare solo a condizione di prescindere rigorosamente dai fatti.

In questo senso, il processo ad Enzo Tortora (1984-1988) è stato forse l' antesignano di questo malcostume giornalistico. La stampa allora, nella sua assoluta prevalenza, si schierò dividendosi tra innocentisti e colpevolisti, o per meglio dire tra sostenitori -per scelta pregiudiziale, dettata da ragioni ideologiche o di convenienza professionale- dell' operato della Procura di Napoli, e suoi (assai sparuti, per la verità) detrattori, i quali di tutto si preoccupavano fuorchè di leggere e conoscere gli atti del processo.

Il processo Marta Russo -da quello che ho potuto seguire e capire dalla lettura dei giornali- ha in gran parte vissuto la stessa sorte: giornalisti -anzi, testate giornalistiche- impegnate a sostenere e difendere ad ogni costo l' operato della Procura (ancora una volta in maggioranza), ma anche testate giornalistiche pregiudizialmente innocentiste. Conoscenza e studio degli atti, in entrambi i casi, un optional.

Perciò, il libro di Valentini ha questo grande pregio: di raccontare, finalmente, i fatti. E si comprende, dalla cura dei dettagli, dalla precisione e dalla efficacia della ricostruzione, dalla sicurezza dei riferimenti, la grande fatica che questo lavoro - il lavoro del cronista- esige e comporta.

Valentini fa parlare i fatti, anche se ovviamente nello studio degli atti, e nella sua esperienza diretta - che pure traspare evidente- nell' Aula della Corte di Assise, egli si è formato un preciso convincimento su questa vicenda. E per quanto non sia rinvenibile, in tutto il libro, alcuna faziosità, alcuna polemica preconcetta, e soprattutto alcun giudizio di merito esplicito, quel convincimento si percepisce con chiarezza.

Ma questo è il secondo aspetto positivo del libro di Valentini, che desidero rimarcare: Valentini non è - o almeno a me così è parso- un "innocentista"; non perora, né esplicitamente, né tacitamente, la categorica certezza dell' innocenza.

Egli si limita ad osservare, con crescente sgomento, lo svolgersi di quelle investigazioni, ed il meccanismo perverso che si innesca quando l' Inquisitore cattura i "suoi" testimoni, per piegarli alla "sua" Verità; e si convince - convincendo tacitamente, ma certamente, il lettore- che un processo che non rispetta le sue regole non può, non deve concludersi con una condanna; e che la privazione della libertà e la gogna civile e morale di due cittadini fondate su tali premesse, è una ferità profonda e dolorosa inferta alla civiltà di un Paese, oltre che alla credibilità della Giustizia.

Tutto ciò prescinde dalla tenaglia innocenza-colpevolezza, cui infatti Valentini chiaramente si sottrae, e che invece è la trappola nella quale si cade con più facilità nell' approccio a queste vicende giudiziarie così clamorose.

E' un errore fatale, che ha però una ragione storica e culturale precisa. Il nostro è un Paese con un DNA illiberale assai difficilmente aggredibile. Lo è nell' economia, lo è nella Giustizia. E' convinzione diffusa tra la gente che una indagine giudiziaria, e poi un processo, abbiano il fine di accertare la Verità, laddove essi costituiscono nient' altro che un insieme di regole attraverso le quali - e nel rispetto delle quali- le parti concorrono a ricostruire una verità la più possibile approssimata ai fatti come realmente accaduti.

Nelle società liberali, la Giustizia si occupa e si interessa solo della verità processuale, cioè di quella verità che si è riusciti a ricostruire nel rispetto delle regole processuali; nelle società illiberali come la nostra, la Giustizia pretende di ricercare la verità sostanziale; lì il Magistrato investiga, qui il Magistrato inquisisce; lì il Giudice, se assolve, parla di non colpevolezza, non di innocenza, locuzione che presuppone un accertamento di natura assoluta, quasi morale.

In questo senso, la vicenda narrata da Valentini mi pare davvero emblematica; e non è certo a caso che l' Autore metta in evidenza una frase della arringa di uno dei difensori degli imputati, il Prof. Delfino Siracusano, che ad un certo punto dice: " Qui sono stati calpestati i valori della lealtà e della correttezzaàE' impossibile distinguere il metodo delle indagini dal merito delle indagini. E quando il metodo è sbagliato, il merito è compromesso" (cfr. pag. 173)

E certamente, il metodo seguito dagli inquirenti è impressionante, e conferma che in questo Paese la Giustizia è ancora profondamente intrisa da meccanismi tipici della più classica Inquisizione.

Sono rimasta davvero impressionata dalla lettura delle pagine che riguardano le due testimoni fondamentali, Maria Chiara Lipari e Gabriella Alletto.

Come nel processo agli untori di manzoniana memoria, l' inquirente (o meglio: l' inquisitore) fa del testimone -quanto più vulnerabile e fragile egli è- una preda, che rimarrà nella morsa di acciaio della sua presa solo quando sarà stato raggiunto l' obiettivo, cioè la conferma da parte del testimone-preda della verità che l' inquisitore -magari convinto in buona fede, non è questo il punto- vuole che gli venga detta e confermata.

Il testimone viene minacciato, intimorito, poi blandito, poi colpevolizzato, insomma psicologicamente annientato; ed allora cede, capisce che la salvezza sta nell' adeguarsi a quella Verità, e si adegua, la conferma nei dettagli, con zelo, purchè l' incubo finisca.

In questo senso, il processo di "adeguamento" della Lipari mi ha colpito ancora di più di quello della Alletto, che ha invece fatto maggior scalpore nell' opinione pubblica a causa della proiezione televisiva del famoso video del suo interrogatorio.

Certo, la Alletto piange, si dispera, giura sui suoi figli di non sapere nulla, resiste per settimane, poi crolla disfatta, disperata. Ma la Lipari mi ha colpito ancora di più perché mette in moto un meccanismo di autoconvincimento, di autosuggestione, davvero impressionante.

Il 21 maggio afferma con certezza che "nella stanza non c' era nessuno" (pag.38); poi, il verbale viene misteriosamente sospeso per " accertamenti tecnici" (quali? Chiede giustamente Valentini), ed alla ripresa la teste già precisa che "Non sono sicura, forse qualcuno è uscito dalla stanza frettolosamente, mi ha salutato. Forse ho riconosciuto la voce, ma non voglio accusare un innocente" (pag.41). Afferma comunque con certezza che nella stanza non vi erano donne, dopo alcune ore dirà di ricordare una presenza femminile, dopo sette giorni dirà che c' era la Alletto, rannicchiata in modo strano, tanto che pensò "che ci fa questa qui" . Analogo, impressionante meccanismo per le altre circostanze decisive (lo sparo, la identificazione delle altre persone presenti, addirittura la descrizione dello stato emotivo di costoro), con questa ricostruzione dei fatti "per lampi di memoria", come dice la Lipari, che al suo amico Jacopo -ignorando di essere intercettata- confiderà: Questi fino alle cinque di mattina hanno

voluto assolutamente che dal sub-conscio, dall' ano del cervello proprio, mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine (pag.47); tutto ciò non è altro che l' adeguamento del testimone-preda alla Volontà feroce ed implacabile dell' Inquisitore, che nel caso della Lipari viene difeso e legittimato dalla stessa (ed è questa la cosa che mi ha impressionato di più) come un proprio merito, un segno di un primato morale, un contributo quasi eroico alla causa della Giustizia.

Un sistema processuale impazzito, che consente, avalla ed incoraggia simili metodi, non si ferma davanti a nulla. Non si ferma nemmeno dinanzi alla evidente, cristallina verità della conversazione (intercettata) tra la Alletto e due suoi colleghi: " Mi hanno infilato dentro come una stronza.. Che ne so io che cazzo devo dì, non lo soàPerché dicono che io ci stavo, io non ci stavo. Non mi conviene dire che non c'ero, capito? Lo sanno chi c'era e chi non c'era, però vogliono un teste, una persona affidabile, capito? M' hanno dovuto mettere in mezzo per forza. A me me fanno veramente vacillà la testaà" (pag. 75)

Ed è altrettanto inconfutabile il contributo di verità che dà la stessa Lipari sul metodo degli inquisitori, sempre in quella conversazione con il suo amico, cui confida le minacce del Procuratore Ormanni (Io sputtano lei e suo padre), o quando chiede l' intervento protettivo del padre, sempre inconsapevolmente intercettata (Tu li devi minacciare a questi, gli devi dire che devono arrivare con prove oggettive, non mi possono mettere in mezzo nell' occhio del ciclone, che io già troppo li ho aiutati) (pag. 50)

E' davvero incredibile che un processo istruito in questo modo, con prove raccolte in questo modo, possa giungere fino in fondo, e concludersi addirittura con una condanna.

Ma io faccio politica, e perciò mi chiedo: quale è il problema, cosa si può fare per intervenire sulla distorsione del nostro sistema giudiziario? Come possiamo conquistare al nostro Paese un sistema processuale autenticamente liberale?

Non voglio a tutti i costi "annettere" Giovanni Valentini alle mie posizioni politiche, ma non mi è certo sfuggita una sua considerazione, che mi pare centrale. "La costruzione di questo castello, senza mettere in discussione la buona fede di nessuno, e senza neppure ipotizzare complotti o depistaggi, passa come un work in progress attraverso i gradi intermedi di giudizio: il Giudice per le Indagini preliminari che emette l' ordinanza di custodia cautelare, e il Tribunale della Libertà che respinge la richiesta di revoca degli arresti. Anche qui non c'è bisogno di immaginare una macchinazione per constatare che, in forza della contiguità e della colleganza con il Pubblico Ministero, nei fatti la tanto conclamata <> del GIP non esiste, o comunque si riduce a una ratifica quasi burocratica e automatica dell' accusa" (pag.118)

Bene, sono proprio d' accordo con Valentini, il problema centrale della riforma liberale della Giustizia penale è tutta qui (a tal proposito, lasciatemi dire che la frase più grave che i PM dicono alla Alletto durante il famoso interrogatorio è quando, prospettandole l' arresto se non collabora, il dott. La Speranza le dice"Il GIP è d' accordo, so' tutti d' accordo").

Il problema è la necessaria terzietà del Giudice, e dunque la separazione delle carriere tra Giudici e Pubblici Ministeri. Solo un giudice che non abbia ragioni di colleganza, o di difesa corporativa, o di quotidiana frequentazione con il P.M., o che non provenga, magari da pochi mesi, da quello stesso Ufficio; solo un Giudice che si ponga di fronte al PM con la medesima, necessaria distanza e diffidenza con la quale si pone nei confronti dell' avvocato difensore; solo quel giudice potrà garantire un processo giusto ed equo, un processo che si svolga ad armi pari tra accusa e difesa.

Naturalmente, di separazione delle carriere si parla da anni: convegni, dibattiti, polemiche giornalistiche, ma nella più assoluta paralisi del sistema legislativo.

Ora, questo Paese ha la grande occasione di decidere su questa questione, di stabilire, grazie ai referendum radicali, con un si o con un no se si vuole che PM e Giudici abbiano carriere separate. Non più inutili discussioni e polemiche, ma la concreta possibilità di introdurre seri meccanismi di separazione delle carriere già dalla primavera del 2000!

Il mistero della Sapienza è una storia affascinante, raccontata in modo affascinante: ma il fatto è che, se non si traduce lo sgomento, lo smarrimento o l' indignazione che essa provoca in una concreta iniziativa politica, sarà dimenticata in breve tempo, ed una ingiustizia sarà stata inutilmente consumata.

Così, lo stesso discorso può e deve farsi con riguardo alla responsabilità civile dei magistrati. Se non si afferma il principio che un Magistrato, o un Giudice, deve rispondere personalmente dei suoi errori, se si continua ad alimentare il senso di impunità, di irresponsabilità, il sistema giustizia non può funzionare.

Con Enzo Tortora, e sulla scia della sua vicenda processuale, presentammo -come tutti sanno- un referendum che trionfò nel Paese. Oltre l' 80% dei cittadini disse si alla responsabilità civile dei magistrati. Il Parlamento, però, tradì e sovvertì la volontà popolare, approvando una legge perfino peggiore di quella abrogata, e che infatti non ha prodotto una sola sentenza in materia di responsabilità civile dei magistrati.

Oggi ancora un nostro referendum chiede di abrogare quella legge - truffa. Anche in questo caso, una possibilità maledettamente concreta di introdurre elementi di civiltà liberale nel nostro sistema processuale ed ordinamentale.

In conclusione: lo splendido lavoro da cronista di Giovanni Valentini è un contributo di verità importantissimo, un riflettore acceso sulle profonde disfunzioni del sistema giustizia. Mi piace pensare che, proprio per questo, sarà anche - piaccia o no a Valentini- un contributo importante per il successo dei referendum radicali per una Giustizia più giusta.

 
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