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Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Maria Federica - 15 ottobre 1999
Discorso di Emma Bonino sulla pena di morte
Columbia University

New York 14.10.99

Trovarmi in una università americana, fra americani che si battono per l'abolizione della pena di morte mi emoziona, e mi richiama alla mente alcune immagini del febbraio scorso - rimaste scolpite nella mia memoria - che i network televisivi diffusero la mattina scorso in cui il mondo seppe che Karla Faye Tucker era stata giustiziata a Huntsville, Texas, nel penitenziario "The Wall". Rivedo il lettino della prigione, ripenso all'iniezione letale che - per la prima volta dopo un secolo - aveva dato la morte di Stato ad una donna, e rivedo il volto di quella donna: colpevole, rea confessa, condannata e giustiziata malgrado le richieste di grazia giunte in Texas dal mondo intero.

Pochissime esecuzioni, negli ultimi anni, avevano suscitato come quella della Tucker una cosi' vasta mobilitazione, popolare e di opinion makers in molti paesi del mondo; raramente un'esecuzione aveva richiamato fuori dalla prigione in cui veniva consumata una così accesa protesta contro la pena capitale.

Lascio ai mass-mediologi il compito di analizzare il "Caso Tucker", il suo significato, i suoi risvolti. Ho da fare, da parte mia, qui con voi, una riflessione sul Caso Tucker che riguarda noi abolizionisti e la nostra battaglia. Una riflessione sulle emozioni che ogni esecuzione pubblica puntualmente suscita - allo stesso tempo - nelle coscienze degli abolizionisti e in quelle di coloro che ancora credono nella legittimità della pena di morte. Emozioni forti e contrapposte, che polarizzano e radicalizzano la discussione. Emozioni profondamente umane, che spostano però l'attenzione dal supplizio in sé alla persona del suppliziato. Innescando una dinamica obbligata, uno scenario fortemente emotivo in cui la stessa persona assume insieme i ruoli di eroe positivo e negativo; che viene santificata in qualche modo dalla pietà e dall'amore di chi vuole impedirne l'assassinio; e viene demonizzata senza pietà da chi, per dimostrare l'opportunità della morte di Stato, ha bisogno di mostri ad ogni costo. Mi chiedo se

questa periodica contrapposizione delle emozioni non finisca per rendere più difficile il dialogo, per approfondire il fossato che separa i due schieramenti.

Meglio sarebbe, io credo, tenere separata la questione di fondo - la questione della pena capitale - da altre questioni riguardanti i singoli casi: come la colpevolezza o l'innocenza del condannato, la simpatia o l'avversione che egli puo'suscitare. Non ci hanno insegnato che il reato va separato dal reo? Non é forse per questo che riteniamo ingiusta la pena capitale anche se inflitta al più disumano fra i carnefici della ex-Jugoslavia, al più feroce fra I génocidaires del Rwanda? Non é forse per questo che, ispirandoci ad un passo della Bibbia, abbiamo scelto come nostro motto e insegna "Nessuno tocchi Caino"?

Cinque anni di esperienza da Commissario europeo per l'azione umanitaria, cinque anni al cospetto di tutti gli orrori del nostro tempo - dai Balcani all'Africa, passando per lo Sri Lanka e il Centramerica - hanno reso ancora più forte la mia convinzione che nessun delitto (nessun orrore) può essere cancellato o anche soltanto riparato da un altro delitto (da un altro orrore) eseguito, freddamente e razionalmente, in nome di uno Stato.

Di questo stesso avviso sono stati giuristi e politici che, redigendo nel luglio scorso a Roma il Trattato istitutivo della International Criminal Court per i crimini contro l'umanità, hanno escluso la pena di morte anche per questo tipo di reati. Io credo che questa scelta costituisca un importante passo avanti verso la definitiva messa al bando della pena di morte dal diritto internazionale.

Un esempio può valere molto più di intere campagne d'opinione. Penso all'unica condanna - a una pena detentiva - comminata finora dal Tribunale dell'Aja nei confronti del criminale serbo-bosniaco Tadic. Eppure i crimini di Tadic sono infinitamente più gravi - é evidente - rispetto a quelli commessi da qualunque dei 3.000 condannati a morte negli Stati Uniti o da coloro che

- cito a caso - salgono sul patibolo per truffa in Cina, per avere bestemmiato in Afghanistan, per traffico di droga in Arabia Saudita.

Insomma chiediamoci se, al fine di mobilitare le coscienze contro la pena capitale sia davvero necessario dividere il mondo fra buoni e cattivi, creare martiri e fare leva sui buoni sentimenti. Chiediamoci se questa mobilitazione non debba piuttosto essere invocata in difesa - prima di tutto - di noi stessi e della nostra dignità di persone umane: perché l'applicazione della pena di morte in nome della società rende noi tutti, membri della società, moralmente simili al criminale che vogliamo punire.

Io sono fra coloro che pensano che la grande democrazia americana, temprata anche dalle battaglie per il progresso dei diritti civili, una democrazia che ha dimostrato di considerare la libertà e la dignità della persona come un bene da salvaguardare, sia essa stessa patrimonio dell'umanità. Ebbene, quando ascolto tanti americani ripetere che la salvaguardia di libertà e dignità non vale per chi si macchia di determinati crimini. Io dico invece che vale ancora di più. E' facile infatti garantire i diritti di chi rispetta le regole. Ma non dimentichiamo che un tempo - non molto tempo fa - diritti civili e libertà non erano garantiti in misura uguale per tutti. Ne erano esclusi alcuni per il colore della loro pelle (ieri in Sudafrica e ieri l'altro qui in America); ne sono esclusi ancora oggi esseri umani per il loro sesso (penso alle donne afghane o saudite); o per la casta sociale di origine, o per altro ancora.

E se parliamo di diritti umani fondamentali, ci accorgiamo che l'area dell'esclusione si estende ancora di più.

Ebbene:

- se esistono diritti umani globalmente condivisi;

- e se la difesa di questi diritti ha spinto la comunità internazionale a sancire il suo diritto-dovere di "ingerenza umanitaria" dovunque avvengano violazioni gravi;

- bisogna cominciare a considerare le pene capitali come un delitto contro l'umanità che deve essere impedito.

Qualcuno mi accuserà di essere retorica. Pazienza. Io penso davvero che ogni persona uccisa in una camera a gas o su una sedia elettrica, da un plotone d'esecuzione o da un cappio di corda, non é soltanto un cittadino americano, cinese, mediorientale, africano o di uno qualsiasi dei 72 paesi che ancora praticano il supplizio capitale. Quel morto é uno di noi, il cui assassinio - ancorché "legale" - ci offende così come ci ha offeso l'assassinio in massa dei bosniaci, dei timorensi, dei rwandesi e così via.

Nessuno Stato democratico, nemmeno gli Stati Uniti, può illudersi di "democratizzare" la pena di morte; o illudersi che ci sia una qualche differenza fra la morte inflitta con un'iniezione letale, in nome di istituzioni democratiche, e la morte inflitta per impiccagione da una dittatura come quella cinese. Siamo di fronte allo stesso, identico delitto. Lo ha sancito nel '97 la Commissione Diritti Umani dell'ONU, definendo la pena di morte una negazione dei diritti umani e approvando per questo la prima risoluzione per la moratoria delle esecuzioni.

Cresce, d'altra parte, con il passare del tempo, il numero dei paesi che, aderendo alla moratoria, aderiscono all'enunciato della risoluzione, secondo il quale "l'abolizione della pena di morte contribuisce all'innalzamento della dignità umana e al progressivo sviluppo dei diritti umani".

Che fare? Di tutte le battaglie in favore della dignità della persona questa per l'abolizione della pena di morte appariva - fino a qualche anno fa - una delle più lunghe e difficili. Perché c'é un filo rosso che collega - scavalcando frontiere e continenti, attraversando scelte ideologiche e ossessioni religiose - tutti coloro i quali continuano a credere nella "necessità" del supplizio capitale. Poi abbiamo scoperto che anche noi abolizionisti abbiamo un'ispirazione comune, una causa comune che fa proseliti ai quattro angoli del mondo. E abbiamo capito di avere trovato l'arma giusta - la moratoria, cui questa conferenza é consacrata - per spaccare il blocco dei paesi favorevoli al patibolo.

Le Nazioni Unite hanno un appuntamento che può essere storicamente rilevante. L'Assemblea Generale in corso qui a New York entro dicembre potrà chiedere di fermare le esecuzioni in tutto il mondo. A giugno del '98 gli Stati membri dell'Unione Europea si sono pronunciati unitamente per l'abolizione della pena di morte e hanno deciso di lanciare un'offensiva internazionale contro le esecuzioni capitali. I Quindici hanno definito l'azione contro la pena capitale nel mondo »un elemento intrinseco della politica dell'Unione europea in materia di diritti umani . Un obiettivo politico ora perseguito da tutti i Paesi membri dell'Unione. La moratoria consente agli Stati che la applicano di guadagnare quel tempo necessario per trovare nuove forme di pena alternative alla pena capitale. E' una moratoria quella che l'ABA sta chiedendo qui in America, dove esiste uno dei sistemi giuridici più

garantisti, fra le democrazie avanzate. Ma neanche questo garantismo - come dimostrano i dati e i casi che ci avete illustrato - é sufficiente; esso finisce spesso per arrendersi e abbandonare chi é condannato a morte al suo destino.

Ho conosciuto avvocati volontari che si concentrano di volta in volta su singoli casi, spesso disperati, di imputati per reati capitali dando battaglia senza tregua alla pena capitale nei tribunali e nelle prigioni di questo Paese. Sto incontrando in questi giorni condannati nelle carceri e persone che sono state scagionate dopo molti anni di reclusione nel braccio della morte perché innocenti. Condivido e cercherò di sostenere anche da parlamentare europea il lavoro pragmatico che di giorno in giorno viene portato avanti qui negli Stati Uniti da chi si oppone al sistema della pena di morte, da chi vuole aiutare questo grande paese, la sua democrazia e le sue istituzioni a liberarsi dall'insostenibile responsabilità di praticare l'omicidio di Stato.

Questo 1999 può essere l'anno decisivo per la moratoria decisa dalle Nazioni Unite, per giungere ad una dichiarazione solenne che sia il coronamento del lavoro fatto sul terreno.

Ieri ero in carcere in Illinois , ho incontrato alcuni condannati a morte. Nelle prossime settimane cercherò di visitare altri detenuti e sarò insieme a voi e a tutti coloro che in questi anni si sono battuti per questo obiettivo alle Nazioni Unite, in un percorso che in queste settimane dovrà unire la voce di tutti perché il voto dell'ONU non resti chiuso nel Palazzo di Vetro. Un voto che non é per niente scontato. I nostri avversari sono agguerriti e c'é il rischio che alla fine non tutti i Paesi che la presentano la difendano concretamente. Per questo c'é bisogno del sostegno dell'opinione pubblica in queste settimane e di creare un forte dibattito anche qui negli Stati Uniti. Questa conferenza e l'impegno che ci ha messo nell'organizzarla la Columbia University e l'Italian Accademy da questo punto di vista sono ammirevoli e preziose.

Se all'ONU vinceremo, non sarà un punto d'arrivo ma una nuova partenza. Una tappa importante che aprirà un cammino difficile da compiere insieme.

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