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Intervento di Emma Bonino

"I due Poli sono il passato, noi siamo il futuro"

Se una cosa e' diventata chiara in queste ultime settimane di sceneggiate politiche - a destra e a sinistra - e' l'abisso che ci divide da entrambi i Poli. Sembra quasi che viviamo in due Italie diverse. Noi ci preoccupiamo di un paese reale che ha un bisogno impellente - per non declinare - di riforme politiche, istituzionali, economiche e sociali. I Poli si preoccupano di un paese virtuale, i cui problemi principali sembrano essere le baruffe napoletane attorno a Bassolino o quelle romane attorno a Storace. Il pronostico e' facile: quale che vinca fra i due Poli, sara' la conservazione a prevalere.

Il centro-sinistra è l'alleanza tra una sinistra tradizionale e una vecchia scuola democristiana che hanno entrambi come referenti vecchi ceti, vecchie classi, vecchie consorterie; che non stanno a guardare alle nuove generazioni.

Il centro-destra, nato riformatore e liberale nel 1994, sta indossando i panni molto piu' confortevoli dell'eterna, immarcescibile Italia dorotea.

Bossi-Buttiglione-Casini da un parte, Bertinotti-Cossutta-Castagnetti dall'altra: sono solo facce diverse della stessa Italia di ieri, aggrappata al vecchio welfare e alle vecchie garanzie, spaventata da quel che succede nel mondo, ottusamente determinata a rispondere alle sfide della globalizzazione, della new economy, dell'ormai possibile "democrazia elettronica", sprofondando un po' piu' di prima la testa nella sabbia. Un numero crescente di italiani capisce, ogni giorno di piu', che nulla cambiera' per loro se a vincere sara' la sinistra piuttosto che la destra, o viceversa. Gli italiani hanno capito che ne' la destra ne' la sinistra possono o vogliono assumersi la responsabilita' di fare le riforme che tutti invocano. Gli italiani hanno capito che la destra e la sinistra si accingono a creare regioni ingovernabili con quaranta partiti-fotocopia dei partiti nazionali.

Noi siamo, nel nostro piccolo, che non e' poi cosi' piccolo, l'unica alternativa a questi due Poli. Siamo qui per candidarci a governare, per mettere in chiaro che solo un successo dei radicali potra' costringere destra o sinistra a cambiare ordine del giorno ed imboccare - in politica come in economia - la strada dell'innovazione gia' percorsa con successo non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa da Gran Bretagna, Irlanda, Olanda.

I Poli rappresentano il passato e noi rappresentiamo il futuro, gli interessi e le aspirazioni delle nuove generazioni. Perche' compito dei governi, come dice l'economista americano Lester Thurow, "è rappresentare gli interessi delle generazioni future al cospetto degli interessi e delle paure di quelle presenti".

Siamo troppo ambiziosi? Non mi pare. C'e' voluta infatti la nitida affermazione elettorale dei radicali alle europee - quel nostro 8,5% - per porre al centro del dibattito italiano la "rivoluzione liberale" contenuta nei nostri referendum, che rappresenta l'unico programma di governo alternativo del nostro paese. C'e' voluta la nostra affermazione elettorale perche' si capisse che la posta in gioco è il destino del Paese: il suo sviluppo o il suo declino.

C'e' chi sostiene che i due milioni e mezzo di voti dati a noi sono stati il frutto di una imprevedibile quanto protestataria, quanto estemporanea esplosione di irrazionalità in seno all'elettorato.

Io penso esattamente il contrario: che il nostro successo elettorale sia il logico effetto e non già la causa della sintonia che si è venuta a creare fra tanti italiani e la "rivoluzione liberale" che auspichiamo. Io penso che il consenso elettorale che suscitiamo (con buona pace di Berlusconi e dei suoi strateghi) è cresciuto e continuerà a crescere nell'esatta misura in cui noi restiamo capaci - e l'oligopolio che domina il sistema mediatico nazionale ce lo consente - di comunicare correttamente i nostri obiettivi.

Se qualcuno - a destra come a sinistra - coltiva l'illusione che i radicali vogliano arroccarsi in una sorta di splendido isolamento, sappia che si sbaglia. Non e' all'Aventino che pensiamo ma a dare battaglia in campo aperto, a incalzare e scalzare le forze della conservazione. A chi pensa, anche fra di noi, che puntiamo troppo in alto, ricordo quello che ha scritto il sociologo della politica Max Weber :"La politica consiste in un lento e tenace superamento di tutte le difficolta', da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. E' perfettamente esatto, e confermato da tutta l'esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile".

Siamo decisi a smentire Silvio Berlusconi il quale, spazientito dalla nostra coerenza e dai sondaggi, quelli veri, cerca di esorcizzarci traducendo in sondaggi i suoi desideri che ci inchiodano a un misero 2 per cento, scarso, dei voti. Gli piacerebbe. E quell'8,5% ottenuto a giugno dalla Lista Bonino? Tutto merito del cavaliere: degli spot elettorali su Mediaset (come se non ce li avesse gia' fatturati 7 miliardi) e di una popolarita' che io Bonino avrei acquistato solo perche' Berlusconi mi nomino' commissaria europea e ho poi sviluppato - al momento delle europee - perche' "gli elettori mi percepivano come vicina a Berlusconi". Consentitemi di rispondere, brevemente, su entrambi i punti. Sono naturalmente pronta a ringraziare Berlusconi per avermi nominato (molto malvolentieri) commissaria europea nel '94, a patto che si lasci ringraziare anche per avere partecipato alla decisione di cacciarmi da Bruxelles nel '99. Quanto al mio successo elettorale, che io dovrei alla mia immagine di "donna vicina a Berlu

sconi", constato che nella visione maschio-centrica del cavaliere viene escluso a priori che una persona di sesso femminile possa esistere politicamente in proprio. L'anno scorso mi definiva una protesi di Pannella: ora che ci ha ripensato, ero una protesi sua. Il mio, insomma, e' un destino da protesi. Segnalo questa elegante riflessione berlusconiana a tutte le donne italiane che fossero tentate, un giorno, di votare Forza Italia. Sappiate che darete il voto ad un partito che vi considera delle protesi. Se avete fortuna.

Torniamo alle cose serie. Noi guardiamo alla scadenza del 16 aprile come a un'occasione irripetibile per aggiungere alle modernizzazioni promosse dal pacchetto originario dei nostri referendum (e lo confermiamo: faremo il necessario per rilanciare, opportunamente modificati, 14 quesiti "giustiziati" dalla Consulta) un'ulteriore, decisiva modernizzazione: la trasformazione delle 15 regioni a statuto ordinario in regioni-Stato, in altrettante strutture portanti del federalismo liberale di scuola americana che rimane il nostro traguardo strategico. Noi cerchiamo di contrapporre al "federalismo amministrativo" che piace ai nostri governanti, il "federalismo politico".

Ci siamo illusi che anche i due Poli, cogliendo l'eccezionalita' della scadenza del 16 aprile, ponessero al centro della campagna elettorale la questione istituzionale che e' in gioco; pensavamo che i Poli avrebbero offerto agli italiani una strategia, un modello di riferimento per le future istituzioni regionali. Perché da queste istituzioni scaturirà la fisionomia del federalismo che intendiamo realizzare in Italia.

La nostra proposta è già sul tappeto. Noi vogliamo che i nuovi statuti regionali rafforzino la scelta presidenzialista e prevedano anche per i consigli elezioni uninominali, maggioritarie a turno unico.

Che propongono gli altri? Il centrosinistra tace. Non riesce a mettersi d'accordo sui candidati, figuriamoci sul programma. E il centrodestra? Traccheggia. Tutto quello che Berlusconi ha tirato fuori dal cappello, in vista delle regionali, e' una bozza di progetto federale concepita nell'utero della Lega di Bossi. E poiche' Bossi e' un estimatore del criminale di guerra Milosevic, certamente sa come ripetere i successi del federalismo jugoslavo: perche' anche la Jugoslavia (o quel che ne rimane), non dimentichiamolo, e' una federazione. Ma non e' tutto. Al progetto ispirato da Bossi, il cavaliere ha aggiunto, come e' ormai nel suo stile politico, un clamoroso voltafaccia sul sistema elettorale da adottare per l'elezione dei consigli regionali. Il Berlusconi di oggi dice che i consiglieri regionali devono essere eletti con il proporzionale. Ne e' cosi' convinto che proprio su questo ha rotto le trattative con noi. Peccato che fino a ieri era cosi' convinto del contrario da avere depositato alla Camera un dise

gno di legge costituzionale - l'unico della sua carriera parlamentare - che proponeva per i futuri consigli regionali il sistema elettorale uninominale maggioritario. La proposta porta la data del 7 luglio '94 ed e' co-firmata da altri due convertiti: Francesco Speroni e Giuliano Urbani.

La new economy

Altiero Spinelli, che era un vero liberale e un vero federalista, nonche' un visionario, ripeteva spesso vent'anni fa che il vero scontro non era fra da destra e sinistra ma fra coloro che volevano l'Europa - cioe' il processo di integrazione europea - e coloro che vi si opponevano. Il tempo gli ha dato, anche su questo, ragione. Spinelli aveva capito prima di chiunque altro che solo integrandosi alla famiglia europea - fino ad esserne vincolata - l'Italia poteva essere protetta contro se stessa, e soprattutto contro l'insipienza della sua classe politica. Guardate a quello che succede oggi. Persino i giornali italiani si sono accorti che i capi di governo dei paesi piu' importanti d'Europa - il laburista Blair, il socialdemocratico Schroeder (cosi' come anche il conservatore spagnolo Aznar) - hanno una sola priorita', che non li fa dormire la notte: dare alle loro economie nazionali e ai loro concittadini tutti gli strumenti possibili per non essere tagliati fuori dalla rivoluzione che sta producendo la new

economy, per reggere alla "sfida americana" in termini di competitivita', posti di lavoro, benessere diffuso. E in Italia? In Italia abbiamo un governo che perde il sonno pensando a Bassolino e un giornalismo ipnotizzato dal palazzo, che non riesce ad abbattere la barriera che separa le pagine della politica - in cui si discute di niente - da quelle dell'economia, in cui si discute del destino del mondo, Italia compresa.

Ci vuole il Governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio per ricordarci che la new economy basata su Internet può assicurare all'Italia un nuovo boom economico stile anni '50.

Anzi, Fazio dice: negli anni cinquanta noi abbiamo "copiato" il modello americano fordista taylorista - la catena di montaggio, per capirci - e abbiamo avuto risultati straordinari. Più ancora che gli stessi americani.

A patto però, dice sempre Fazio, che le imprese investano, che vi sia una formazione adeguata e che si facciano con urgenza le riforme (fisco, pensioni, mercato del lavoro, ). Se non si fanno le riforme si perde il treno della nuova economia: esattamente quello che sta succedendo.

Ha ragione il Governatore Fazio: la new economy basata su internet potrebbe essere una grande occasione per avere in Italia un nuovo boom economico. A condizione, però, che l'Italia adegui le proprie regole, anche e soprattutto quelle sul mercato del lavoro, alle nuove esigenze, anziché difendere ottusamente quelle che andavano bene per l'economia fordista degli anni cinquanta.

Il punto è tutto qui: noi vogliamo regole nuove, poche e liberali, per assicurare che l'Italia possa competere nella nuova economia, che possa raggiungere la rapidita' decisionale che e' propria dei sistemi basati sul maggioritario. Noi vogliamo le regole per abitare il futuro, altri, sindacati in testa, vogliono conservare il passato e così condannano l'Italia alla scarsa crescita e alla poca occupazione. Loro difendono gli interessi costituiti, noi vogliamo difendere l'interesse di milioni di giovani, donne e disoccupati che solo grazie a regole nuove potranno trovare un lavoro.

Il referendum sull'Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori sarà una grande sfida per la modernità, che non consiste - come tentano di far credere - nella possibilità di licenziare, ma in quella di assumere. Un mercato del lavoro flessibile non è un "lusso", ma una necessità per milioni di piccole aziende che devono nascere, competere e crescere nel mercato senza confini delle reti telematiche.

Bisogna ancora ricordare che l'Italia ha oggi una crescita economica più bassa di quella degli altri paesi europei, e una disoccupazione più alta (tranne quella della Spagna che però sta scendendo anziché rimanere sostanzialmente uguale come la nostra) ? Bisogna ancora ripetere che la nostra inflazione è stabilmente e sensibilmente più alta della media europea ?

Business week della scorsa settimana titolava: "Ecco perché l'Italia rischia di sciupare il suo futuro in rete". E spiegava.

Nel nostro paese solo l'8% della popolazione ha una connessione Internet, contro il 15% in Germania e il 23% in Gran Bretagna. Solo il 14% delle nostre imprese usa Internet per comunicare con i fornitori contro il 25% medio europeo. Nelle nostre scuole c'e' un computer ogni 51 studenti: in Francia uno ogni 31 e in Finlandia uno ogni 11. L'Italia spende in ricerca meta' di quanto spende mediamente l'Europa e un terzo di quello che spendono gli Stati Uniti.

Che fare? Investire in ricerca e formazione, ovviamente. Mettere i computer nelle scuole, per esempio. Ma mentre il nostro governo prevede di spendere per questo meno di 500 miliardi di lire in tre anni, il governo Blair, nello stesso periodo, ne spenderà 5.000. Fate voi, tenendo presente che la spesa pubblica italiana è molto superiore a quella inglese: si tratta solo di avere delle priorità. Il verdetto di Business Week e' senza appello: se l'Italia non si modernizza ai ritmi seguiti dal Nord Europa (riducendo le tasse, liberalizzando il mercato del lavoro, investendo in ricerca) finira' sul versante negativo della new economy, fra gli sconfitti.

Qualcosa si sta muovendo, certo, ma ancora è poco.

La flessibilità del mercato del lavoro non è una condizione sufficiente alla crescita economica, ma è senz'altro una condizione necessaria. In Italia, per esempio, ci sono tre milioni di lavoratori in nero. Si potrebbe sicuramente diminuirne il numero con la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, come accade in Olanda. C'e' una curiosita' che merita di essere rilevata, a proposito di Olanda, il paese che fra quelli dell'Unione fa registrare i risultati migliori in termini di occupazione, competitivita', efficienza, servizi sociali. Ebbene, questi risultati si devono ad un governo di centro-sinistra il cui primo ministro, il socialista Wim Kok - uno dei protagonisti politici della new economy - prima di passare alla politica e' stato un importante leader sindacale. E' stato, per intenderci, il Cofferati olandese. Insomma, mentre in Olanda i sindacalisti incoraggiano il ricorso piu' ampio possibile alla flessibilita' per dare respiro all'economia nazionale e creare benessere diffuso, in Italia que

sti stessi sindacalisti combattono la flessibilita' del mercato del lavoro e la definiscono "una barbarie". E a quale scopo? Per salvare lo strapotere dei propri apparati burocratici, per rimanere - come dice Carlo Callieri - i "soci di riferimento" dei partiti politici.

Non so se la nostra visione del lavoratore contemporaneo sia di destra o di sinistra, poco importa. Ma so che e' chiarissima. Noi riteniamo che ciascuno abbia diritto a un'uguale dote di libertà (libertà da - libertà di), ma che poi ciascuno debba camminare con le proprie gambe. Se qualcuno cade, la comunità lo aiuta a rialzarsi, ma non può camminare al suo posto. Dunque: uguaglianza dei punti di partenza, uguaglianza delle opportunità, e poi via alla differenziazione, ai percorsi diseguali, alle vocazioni di ciascuno, alla responsabilità, al merito.

Noi pensiamo ai giovani "parasubordinati", quelli della "collaborazione coordinata e continuativa" che non hanno alcun tipo di garanzia, manco la mutua. Non vogliamo certo imporne l'assunzione a tempo indeterminato - sono spesso i giovani a non volerla - ma crediamo che debbano poter stipulare contratti ad hoc con i loro datori di lavoro. Tutto alla luce del sole, con grande flessibilità e con - poche - regole chiare.

Se passa il referendum sul reintegro - la cui abolizione è chiesta anche da parte di molte personalità della sinistra - non avremo per nulla "più licenziamenti", ma più assunzioni.

Vi sarà una tale iniezione di fiducia che gli imprenditori che oggi "delocalizzano", cioè portano il lavoro all'estero, troveranno nuove ragioni per rimanere in Italia ed investire qui. Al sud come al nord.

Globalizzazione e debito

Speriamo che gli imperativi e le scadenze che ci pone la new economy non vengano utilizzati per riaccendere, soprattutto nella sinistra più retriva, un dibattito sulla globalizzazione fondato su fantasmi e demagogia. La globalizzazione non é un'ideologia né tanto meno una teoria politica, é soltanto una evoluzione economica in pieno svolgimento: che non serve demonizzare né esaltare. Bisogna imparare a governarla, traendone i vantaggi che offre ed evitando i rischi che comporta.

Prendiamo la "buona azione" appena annunciata dal nostro governo, il condono dei debiti ai paesi poveri, invocato da Jovanotti a suon di rap e presentato da Massimo D'Alema come una storica svolta nella storia dei travagliati rapporti fra Nord e Sud del mondo. Osservazioni pertinenti sono già state fatte, da destra e da sinistra, sui limiti che una iniziativa di questo genere porta con sé, se non é accompagnata da criteri e condizioni ad hoc, paese per paese. A me preme segnalare la superficialità di chi pensa che un paese industrializzato da solo - ancorché, come l'Italia, sia uno dei G7, o G8 - possa incidere con misure unilaterali su una questione complessa e "globalizzata" come quella del debito estero dei paesi poveri.

Se a Palazzo Chigi leggessero più attentamente la stampa internazionale avrebbero trovato - proprio sul tema del debito e proprio una diecina di giorni fa - due avvertimenti, uno più autorevole dell'altro. Il direttore uscente del Fondo Monetario, Michel Camdessus, commentando la riluttanza tutta protezionista dei paesi ricchi ad aprire i propri mercati ai prodotti agricoli e tessili dei paesi poveri, ha detto:"L'apertura dei mercati avrebbe un effetto di lungo termine che permetterebbe ai paesi poveri di generare redditi e ridurre la loro povertà. Senza quest'apertura, la riduzione del debito non produce alcun effetto". A Camdessus ha fatto eco il nuovo direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, Mike Moore, scrivendo sull'Herald Tribune: "Non ha alcun senso bruciare miliardi di dollari in riduzione del debito se nel contempo la capacità dei paesi poveri di alleggerire da soli il loro fardello finanziario viene bloccata dalle barriere commerciali".

Come dire che Jovanotti dovrebbe dedicare un rap a Romano Prodi, e a tutte le 15 capitali dell'Unione europea, per ottenere l'impossibile: una riforma radicale della politica agricola comunitaria e la riduzione drastica delle sovvenzioni europee ai nostri agricoltori. Ora tutti sanno a Bruxelles che é molto più facile per l'Unione regalare miliardi - cancellare debiti inesigibili - piuttosto che far entrare sul nostro mercato unico un solo camion di arance marocchine o di camicie messicane.

Sulla globalizzazione non mi stanco di citare Renato Ruggiero che nel '97, direttore in carica dell'OMC, osservava: "Vent'anni fa appena il 5% delle importazioni dei paesi sviluppati proveniva da quelli in via di sviluppo. Nel 1990 si é passati al 15% e nel 1995 al 21%. E le prospettive restano favorevoli. I quindici paesi più dinamici del commercio mondiale, fra il 1970 e il 1993, sono tutti paesi in via di sviluppo".

Prendete l'India, un paese di un miliardo di abitanti, tradizionalmente uno dei maggiori contenitori mondiali di povertà estrema. "Trent'anni di autarchia" ha scritto l'economista indiano Bhagwati "avevano quasi azzerato la crescita indiana, mentre le riforme spinte dalla globalizzazione hanno portato il tasso di crescita stabilmente oltre il 5% annuo e consentono di combattere la povertà".

Immigrazione

Anche i termini del fenomeno immigrazione cambiano, e cambiano in fretta, mentre si continua a parlarne in astratto, ciascuno coltivando le sue illusioni: i leghisti bossiani ossessionati dal progetto di conservare la purezza della razza padana, (progetto inquietante per le sue implicazioni teoriche e pratiche); i buonisti cattolici e laici convinti che basta fare appello ai valori della solidarieta' e dell'uguaglianza per rendere governabile una mutazione socio-economica epocale che deve essere affrontata dal legislatore, opportunamente assistito dai migliori economisti, sociologi, giuristi.

Anche questo fenomeno, dicevo, sta cambiando. Dal 1994, la maggioranza degli immigrati che chiamiamo extra-comunitari e' di origine europea: sono ex-jugoslavi, albanesi, polacchi, rumeni. Sono cittadini di paesi che prima o poi, nel volgere di una generazione, entreranno nell'Unione europea, saranno inseriti in quell'area di libero scambio e di integrazione politica nella quale l'Italia e' gia'. Cesseranno di essere extra-comunitari mentre da noi ci sara' ancora qualcuno che vuole tenerli oltre le frontiere o rispedirli a casa.

La verita' e' che anche il fenomeno dell'immigrazione, se analizzato laicamente, spinge verso misure di liberalizzazione, a cominciare dal mercato del lavoro. La verita' e' che i paesi dell'Europa ancora statalista, come il nostro, con un mercato del lavoro ingessato come il nostro, invece di porsi il problema teorico e pratico dell'integrazione, offrono agli immigrati extracomunitari due opzioni, diversamente mortificanti: o essere assistiti o essere espulsi.

La verita' e' che la legge italiana sull'immigrazione (come altre leggi partorite dall'Europa che si dice progressista) sembra ispirata da Haider: perche' rifiuta la competizione economica con la forza lavoro straniera; perchè riflette, con chiusure sociali e culturali, una paura irrazionale della globalizzazione.

Cerchiamo di essere razionali e razionalmente visionari. Fra vent'anni l'Italia sara' ricchissima di pensionati e poverissima di contribuenti attivi. I quali contribuenti-lavoratori saranno, in una percentuale sempre crescente, o extracomunitari o - per quello che dicevo prima - "italiani di prima generazione". Detto questo, che interesse ha l'Italia a respingere questi suoi "nuovi cittadini" - prima di accettarli come tali - nel purgatorio dell'illegalita', dove piu' forte e' il richiamo della criminalita'? Ci chiediamo noi radicali (e ce lo chiediamo insieme agli esperti delle Nazioni Unite, insieme al governatore della Banca d'Italia Fazio): ma perche' un paese anagraficamente vecchio come il nostro deve considerare insuperabile - come un tabu'- l'attuale quota di popolazione immigrata, che è del 2%, cioe' meno della meta' della quota media europea (del 5%) ed equivalente a un quarto di quella esistente nella grande, solida e organizzata Germania?

La quale Germania, peraltro, cosciente delle statistiche Onu secondo le quali l'economia europea avra' bisogno di 40 milioni di stranieri entro i prossimi 25 anni, sta pensando di aprire ulteriormente le sue porte. Soprattutto all'immigrazione qualificata, prevalentemente asiatica, spendibile sul fronte delle tecnologie e della New Economy. Li avete letti anche voi i dati Ocse secondo i quali gli stranieri producono gia' entro i confini dell'Unione europea 900.000 miliardi di ricchezza e pagano 300.000 miliardi di tasse.)

Che cosa proponiamo? Noi partiamo dalla constatazione che, paradossalmente, l'unica immigrazione liberalizzata (si fa per dire) e' quella illegale, che nessuno riesce a controllare. E perche'? Perche' abbiamo reso l'immigrazione regolare pressocche' impossibile, perche' manteniamo quote d'ingresso bassissime, rigidamente riservate a un piccolo gruppo di paesi "eletti". Noi proponiamo invece di governare l'andamento degli ingressi, di adeguare le quote di entrata alle tendenze demografiche e alle effettive compatibilita' del nostro sistema produttivo. Noi proponiamo che gli immigrati vengano, come gia' avviene in tutti i paesi che hanno imparato a gestire l'immigrazione come un fattore di sviluppo, accolti secondo criteri economici e non burocratici.

Il modello da seguire ce lo anticipa, ancora una volta, il Nord-Est, dove fra il '93 e il '99 gli stranieri residenti sono piu' che raddoppiati. In Veneto sono gia' di provenienza extracomunitaria un avviato su dieci, e due operai generici su dieci. Ma c'e' di piu': senza l'apporto dei lavoratori extracomunitari interi settori agricoli sarebbero fuori mercato. Chi mungerebbe le mucche in Valtellina? Chi raccoglierebbe gli ortaggi in Campania e Puglia? Chi farebbe la vendemmia in Sicilia? Quali collaboratori e collaboratrici domestici terrebbero in ordine le case di noi italiani ormai abituati al benessere?

E visto che nessun governante italiano lo ha ancora fatto. Visto che nessun sindacalista italiano sembra poterselo permettere, per non rovinarsi la carriera. Ebbene facciamolo noi radicali. Ringraziamo le centinaia di migliaia di lavoratori stranieri che lavorando onestamente, sfidando le vessazioni burocratiche, ci aiutano a fare funzionare il nostro paese, il suo fisco cosi' rapace e il suo fragilissimo sistema previdenziale. Grazie.

E la criminalita'? Certo, c'e' anche la criminalita' extracomunitaria, da aggiungere a quella nazionale, che gode di ottima salute. Ma anche su questo punto bisogna sforzarsi di essere laici e razionali. Le statistiche giudiziarie ci dicono che la criminalita' extracomunitaria e' figlia in primo luogo della clandestinita'. Ci dicono anche (cito l'ultimo rapporto Istat, quello 1998) che l'86,5% degli stranieri denunciati e/o indagati era in posizione irregolare. Ci dicono che la percentuale di procedimenti contro stranieri costituisce l'11,4% del totale: dal che si deduce che l'incidenza degli immigrati regolari sul tasso di criminalita' (intorno all'1,5%) rimane inferiore alla loro incidenza demografica (che e' del 2%).

Sicurezza

I cittadini del nostro paese hanno un vero problema di sicurezza, di cui la criminalita' extracomunitaria e' solo uno degli aspetti. Ad ogni nuovo allarme su questo fronte (ieri le gesta criminali dei contrabbandieri, oggi l'anonima sequestri che torna alla ribalta) governo e opposizione si fanno concorrenza sul terreno della demagogia. E cosi', invece di ammettere cio' che appare evidente, che il problema sicurezza e' la conseguenza diretta dello sfascio della giustizia e dell'inefficienza del nostro Stato, governo e opposizione sfoderano (polemizzando solo in apparenza) la collaudatissima retorica dell'emergenza.

Come mai il contrabbando organizzato di sigarette riesce a sottrarre allo Stato il controllo di una parte del territorio nazionale? Perche' i contrabbandieri offrono una soluzione - illegale, criminale, ma efficace - a due problemi concreti della comunita': un tasso di disoccupazione insopportabile e il costo eccessivo delle sigarette.

Invece di ragionare su questo paradosso (di una fetta di societa' italiana che preferisce i "servizi" offerti dall'illegalita' e volta le spalle allo Stato) governo e opposizione ci propongono un ennesimo pacchetto sicurezza, ci ripropongono la cultura delle leggi d'emergenza, basata su una diminuzione delle garanzie per i cittadini. Il che spiega - se ce ne fosse bisogno - come mai l'Italia sia il paese piu' condannato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: con 361 condanne l'anno scorso e 173 in questo scorcio di 2000; con 3652 dossier aperti a carico dell'Italia nell'ultimo anno, contro i 356 dell'Austria o i 184 della Grecia .

Solo noi radicali continuiamo a battere sul tema della giustizia giusta, continuiamo a dire che una magistratura come la nostra che incute nel cittadino timore anziche' fiducia - una magistratura che ha bisogno in media di tre anni per chiudere un processo penale e sette per un processo civile, e' una magistratura malata. E solo noi radicali, con i referendum sulla giustizia sopravvissuti al filtro della Corte Costituzionale, offriamo agli italiani la possibilita' di varare in un solo giorno, il prossimo 21 maggio, alcune riforme concrete della giustizia.

Cari amici, non posso concludere senza ricordare che la nostra voglia di sconfiggere i conservatori di destra e di sinistra fin dalle prossime elezioni regionali, si scontra nell'immediato con la necessita' di non soccombere all'accanimento burocratico che ci impone - a noi come a tutti i partiti - di raccogliere migliaia di firme in ogni provincia. Dico questo per infondere coraggio in coloro che questo lavoro stanno facendo e per promettere agli elettori che i consigli regionali dove i radicali saranno presenti avranno fra le loro priorita' la modernizzazione dei processi elettorali, fino all'introduzione del "voto elettronico". E' di questi giorni la notizia che alcuni giudici dell'Arizona hanno autorizzato per primi il voto elettronico per le primarie, fra qualche settimana. Cio' che apre la strada a forme di democrazia elettronica gia' per le prossime presidenziali americane di novembre. Siamo, ancora una volta, ad anni luce dalla nostra realta' nazionale.

Anch'io in Piemonte, se la mia regione vorra' eleggere me alla presidenza e i candidati radicali al consiglio, mi battero' per la modernizzazione istituzionale, sociale ed economica di un lembo d'Italia che ama stare all'avanguardia. Per questo e non per "azioni di disturbo" (come piace pensare a qualcuno) io corro in Piemonte, a conferma della voglia radicale di vincere e governare. Anch'io voglio vincere e governare, proprio in quel Piemonte da dove - come sosteneva Piero Gobetti - fu condotto, grazie a Cavour, il primo esperimento italiano di rivoluzione liberale, in politica e in economia.

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