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Conferenza Emma Bonino
Partito Radicale Maria Federica - 2 aprile 2000
Centro Congressi Torino Incontra
Torino 1 aprile 2000

Comizio di Emma Bonino

Prologo a scelta

Qualcuno si preoccupa, in questi giorni, perché questa campagna per elezioni regionali, invece di affrontare le vere e scottanti questioni regionali, locali, ruota attorno ai temi della politica nazionale.

Ritornerò su questo punto. Ma voglio dire subito che noi piemontesi siamo, da questo punto di vista, avvantaggiati: perché molti dei nodi della politica regionale riproducono fedelmente, su scala locale, i nodi della politica nazionale. A cominciare dal nodo che a noi radicali sembra il padre di tutti i nodi: l'intercambiabilità fra centro-destra e centro-sinistra, l'intercambiabilità dei loro programmi, dei loro candidati, dei loro stili di governo.

Proprio perché intendono affrontare quelle che mi sembrano le principali questioni del Piemonte, io comincio da qui. A me pare che un numero crescente di piemontesi capisca, ogni giorno che passa, che nulla cambierà per loro se a vincere sarà la sinistra piuttosto che la destra, o viceversa. I piemontesi hanno capito che né la destra né la sinistra possono o vogliono assumersi la responsabilità di fare le riforme che tutti invocano. I piemontesi - insieme a un numero crescente di italiani - hanno capito che la destra e la sinistra si accingono a creare regioni senz'anima, paralizzate da quaranta partiti-fotocopia dei partiti nazionali.

Noi guardiamo alla scadenza del 16 aprile come a un'occasione irripetibile per aggiungere alle modernizzazioni promosse dal pacchetto originario dei nostri referendum (e lo confermiamo: faremo il necessario per rilanciare, opportunamente modificati, 14 quesiti "giustiziati" dalla Consulta) un'ulteriore, decisiva modernizzazione: la trasformazione delle 15 regioni a statuto ordinario in regioni-Stato, in altrettante strutture portanti del federalismo liberale di scuola americana che rimane il nostro traguardo strategico. Noi cerchiamo di contrapporre al "federalismo amministrativo" che piace ai nostri governanti, il "federalismo politico".

Ci siamo illusi che anche i due Poli, cogliendo l'eccezionalità della scadenza del 16 aprile, ponessero al centro della campagna elettorale la questione istituzionale che e' in gioco; pensavamo che i Poli avrebbero offerto agli italiani una strategia, un modello di riferimento per le future istituzioni regionali. Perché da queste istituzioni scaturirà la fisionomia del federalismo che intendiamo realizzare in Italia.

La nostra proposta è già sul tappeto. Noi vogliamo che i nuovi statuti regionali rafforzino la scelta presidenzialista e prevedano anche per i consigli elezioni uninominali, maggioritarie a turno unico.

(digressione polemica sull'editoriale della Stampa di oggi)

Né la sostanziale omogeneità fra destra e sinistra riguarda solo il futuro assetto istituzionale della nostra regione. Dovete scusarmi, ma non ho ancora capito la differenza fra i programmi di Livia Turco ed Enzo Ghigo, e questo a 15 giorni dal voto. Mi sembrano praticamente identici, soprattutto per quanto riguarda la loro parte economica. Prendiamo due esempi significativi: la sanità e le privatizzazioni.

Sulla sanità, entrambi in pratica sembrano rinunciare ad esercitare quel margine ampio di competenze che la legislazione nazionale affida alle Regioni; entrambi vogliono impedire la piena liberalizzazione dei servizi sanitari (pure nel quadro dei finanziamenti assicurati dal SSN), e la competizione fra erogatori pubblici e privati. La differenza fra il mio e il loro programma è che io, quando parlo della sanità, parlo delle prestazioni sanitarie e non delle strutture sanitarie pubbliche; per me, come per tutte le persone ragionevoli, è del tutto indifferente che i fornitori di prestazioni sanitarie- a parità di costo, per i cittadini- siano pubblici o privati. In Piemonte, invece, il 'partito unico' della sanità continua a muoversi come 'sindacato' della 'sanità pubblica'. La chiave della riforma è la competizione fra strutture, possibile solo abolendo il regime degli accreditamenti e rendendo automaticamente fornitori del servizio sanitario nazionale le strutture private autorizzate che sono scelte dai citt

adini in alternativa a quelle pubbliche. Inoltre solo un incentivo alla competitività potrebbe salvare le strutture pubbliche efficienti ed impedire che l'aumento costante della spesa sanitaria vada a finanziare non un'estensione delle possibilità di cura e della qualità delle prestazioni, ma le inefficienze e i deficit gestionali delle Asl pubbliche.

Sulle privatizzazioni, è la stessa storia. La situazione è da anni 70. La Regione è proprietaria o comproprietaria di società di software, di sperimentazione tecnologica e di studi ambientali, di aeroporti (Biella e Caselle), di enti di gestione di parchi, di mercati, e di istituti di ricerca. Un programma intelligente- che è insieme un programma di 'bilancio', di promozione e liberalizzazione economica in settori che dovrebbero naturalmente essere affidati all'iniziativa privata- dovrebbe articolarsi attraverso due punti chiari: la completa dismissione delle società con finalità economiche e la rifocalizzazione della funzione e degli obiettivi per perseguire l'interesse pubblico dei pochissimi enti che ha ancora senso mantenere sotto il controllo regionale.

Su questo punto, centrodestra e centrosinistra parlano la stessa lingua: vogliono entrambi consolidare le partecipazioni di controllo e di comando, e proprio nei settori strategici: infrastrutture, terziario, servizi di innovazione.

In questa chiave, l'aeroporto di Caselle, il CSI e l'IPLA dovrebbero essere restituite al mercato, e l'attività della FinPiemonte regionale essere finalizzata alla promozione delle iniziative imprenditoriali nei settori della new economy, dei servizi e del terziario avanzato. Tenere in vita 'enti strumentali' pubblici mentre il mercato offre alle stesse amministrazioni alternative pi- convenienti, significa solo perpetuare il sottobosco clientelare e il sistema di mangiatoie politiche e partitiche che ben conosciamo. Potrebbero, Ghigo e Turco, come sollecito da almeno 10 giorni, indicarmi una sola ragione per cui un'impresa di software come il CSI - che, se affidata invece, come avviene in tutto il mondo, al capitale privato avrebbe la possibilità di divenire un'azienda trainante dell'economia regionale- dovrebbe rimanere un consorzio pubblico di enti locali?

Permettetemi, a questo punto, di passare in rassegna gli altri punti essenziali del nostro programma

Noi vogliamo delegificare, vogliamo cioè ridurre il numero delle leggi regionali e limitare l'attività legislativa regionale ai soli casi in cui sia veramente indispensabile, perché crediamo che esista una correlazione diretta fra il numero delle leggi prodotte e il numero di problemi che derivano per i cittadini dall'applicazione di queste leggi. Oggi le leggi regionali sono 1690: più di quante ne servano, più di quante é possibile farne rispettare. Questa regione produce Leggi e non Governo. E' come un'impresa che decidesse di produrre, anziché servizi, circolari interne.

Noi vogliamo gestire in modo sano e virtuoso il bilancio regionale, crediamo sia possibile addirittura risparmiare attraverso manovre serie e responsabili. A fronte di recenti bilanci regionali che hanno fatto esplodere le spese di mera gestione, mi sembra invece possibile ridurre le spese correnti dell'1% l'anno, e questo per tutti i cinque anni del mandato, e destinare questo risparmio agli investimenti, alla riduzione della fiscalità regionale (o per meglio dire al congelamento del margine d'aumento delle aliquote IRAP e IRPEF, unici strumenti del tanto sbandierato federalismo fiscale). Secondo i nostri calcoli si tratterebbe di circa 100-150 preziosissimi miliardi l'anno. Non è un obiettivo utopistico, ma un'operazione semplice, che qualsiasi impresa potrebbe fare e saprebbe fare, un'operazione a costo zero, razionalizzando l'organizzazione interna: ma questa operazione nella 'regione dei partiti' è assolutamente impossibile. L'unica distinzione fra questi 'poli' è fra chi, a sinistra, aumenterebbe le ta

sse e chi, a destra, aumenterebbe il debito. E proprio a questo proposito, occorre dire parole chiare sul tanto sbandierato federalismo fiscale: Oggi le Regioni hanno un margine di manovra (e tutto, naturalmente, in aumento) in materia fiscale che incide per meno del 4% sul carico fiscale medio di un cittadino piemontese. Del resto la riforma del federalismo fiscale di cui si parla non comporta un ampliamento ma una ridistribuzione 'dall'alto' di quote del gettito tributario derivante dai redditi prodotti nel territorio di ciascuna regione. Davvero possiamo chiamare federalista una legge che si limita a ridurre i trasferimenti, e a compensarli con la compartecipazione regionale al 25% del gettito annuale dell'I.V.A., con l'aumento dell'aliquota dell'addizionale regionale all'IRPEF, e l'aumento della compartecipazione regionale all'accisa sulla benzina? Come si può chiamare federalista un sistema che proibisce qualunque riduzione della pressione fiscale sul piano locale, e che stabilisce sul piano nazionale l

e aliquote delle imposte regionali?

Noi vogliamo una politica delle infrastrutture europea e di reale collegamento con l'Europa. La situazione dei trasporti piemontese è delicatissima. Il Piemonte ha una dotazione di infrastrutture inferiore a quella media italiana (93%) ed ha urgente necessità di completare la rete autostradale (Asti Cuneo, asse Nord Sud da Genova al Sempione), ma anche di potenziare quella ferroviaria. C'è una grande opera necessaria- l'Alta velocità- di cui tutti parlano ma su cui la Regione per responsabilità comune di 'questo' governo e di 'questa' opposizione ha mantenuto un bassissimo profilo. Una Regione in cui si va da Torino a Milano in 45 minuti anziché in due ore, è una regione che cambia, in meglio, dal punto di vista economico e non mi pare che occorra spiegare il perché. Ciò che occorre spiegare è invece che i costi connessi alla mancata realizzazione dell'alta velocità sono un multiplo dei finanziamenti necessari per realizzarla. Eppure il fuoco della questione sembra essere solo e sempre sui costi dell'Alta ve

locità e mai sui costi della bassa velocità a cui tutto e tutti sono condannati: le persone come le merci.

Altrettanto prioritaria è la promozione dello sviluppo regionale (con priorità verso capitale umano giovane e di qualità). Come? Istituendo corsi universitari e post-universitari di respiro nazionale e internazionale, attirando imprese ad alta intensità di capitale umano, promuovendo business-park ed incentivando la formazione e l'imprenditorialità nei settori trainanti della New economy (servizi, terziario avanzato). Le politiche di settore e d'area sono finora sfociate in una politica di distribuzione "a pioggia" di sussidi che hanno finito per essere in definitiva troppo limitati per avere un qualche impatto sulle singole imprese. La nostra alternativa, ragionevole, è quella di concentrarsi invece su interventi regionali di due tipi: potenziare le infrastrutture e incentivare il superamento della piccola dimensione aziendale, che frena lo sviluppo, promuovendo consorzi di ricerca e d'espansione commerciale. E permettetemi di soffermarmi su quanto mi sta particolarmente a cuore, è che tutti a proposito o a

sproposito chiamano New Economy. In fondo, la New Economy al di là della parola inglese- significa che nella produzione di beni e di servizi ha importanza sempre maggiore il capitale umano, di conoscenze, fantasia e intelligenza. Ebbene, le idee di impresa di questa nuova economia nascono in genere da giovani potenziali imprenditori, o giovani ricercatori, che non hanno la forza finanziaria e organizzativa per trasformare le idee in impresa. Sono mancati del tutto questi incentivi: noi vogliamo trovare il modo di elargire aiuti finanziari e tecnici per rimediare a questo fallimento. In 6 anni 2500 miliardi di spesa pubblica per lo sviluppo sono serviti solo a finanziare e ammorbidire il declino; non sono stati orientati, come si sarebbe dovuto, sui settori trainanti, quelli che offrivano la maggiore possibilità di crescita anche in termini occupazionali. Sono stati ridistribuiti nei settori perdenti e in declino, in omaggio alla logica della concertazione che non privilegia le ragioni comuni di sviluppo, ma

gli interessi particolari di singoli settori produttivi, di singole categorie e di singoli imprenditori. Mentre non si forniva assistenza tecnica e finanziaria alla nuova impresa, si finanziava in perdita la vecchia impresa. E i risultati si vedono. In 15 anni il tasso medio di crescita è stato dell'1,2%, contro l'1,4 del Nord Ovest; dal 91 al 98 si sono perduti 135.000 posti di lavoro. E proprio su questo voglio dire a Livia Turco che smentire la mia analisi, per contestare la mia proposta- come lei penosamente ha tentato di fare- non è solo tecnicamente impossibile (visto che mi sono limitata a raccogliere dati straconosciuti, pubblicati sugli annuari statistici regionali e sui documenti del ministero del Tesoro) ma è anche politicamente irresponsabile. Raccontare bugie sulla malattia, per giustificare l'inefficacia della terapia è cosa che non accettiamo dai medici, e non dobbiamo perdonare ai politici. Abbiamo bisogno di fiducia, ma non di illusioni. Abbiamo bisogno di riforme e di cambiamenti, non di c

ontinuità. Abbiamo bisogno di guardare all'Irlanda, all'Olanda, ai sistemi-paese in cui il mix di libertà economica e intelligenza politica ha prodotto sviluppo e occupazione. Non possiamo cullarci in una cultura provinciale e miope che, appagata dal "passato glorioso", non mette a fuoco le difficoltà del presente. Non possiamo riciclare le piccole ricette consociative, di false solidarietà, di retorica attenzione agli esclusi, quando sono queste stesse ricette a produrre esclusione, povertà e immobilità politica. E a questo presidente ricandidato, a Enzo Ghigo, non so francamente cosa dire, se non che i suoi programmi istituzionali, economici e sociali sono del tutto intercambiabili con quelli di Livia Turco. Lo ricordo, nel 94, parlamentare di prima legislatura impegnato a dare una svolta liberale, innovativa e referendaria alla politica di FI. Lo ritrovo, a distanza di 6 anni, da presidente e candidato presidente impegnato a realizzare il progetto contrario. E' vero che gli anni non passano invano, infatt

i si può anche peggiorare.

Noi siamo, nel nostro piccolo, che non e' poi cosi' piccolo, l'unica alternativa a questi due Poli. Siamo qui per candidarci a governare, per mettere in chiaro che solo un successo dei radicali potra' costringere destra o sinistra a cambiare ordine del giorno ed imboccare - in politica come in economia - la strada dell'innovazione gia' percorsa con successo non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa da Gran Bretagna, Irlanda, Olanda.

C'è una curiosità che merita di essere rilevata, a proposito di Olanda, il paese che fra quelli dell'Unione fa registrare i risultati migliori in termini di occupazione, competitività, efficienza, servizi sociali. In termini di avanzo di bilancio. Ebbene, questi risultati si devono ad un governo di centro-sinistra il cui primo ministro, il socialista Wim Kok - uno dei protagonisti politici della new economy - prima di passare alla politica e' stato un importante leader sindacale. Come Cofferati, come il segretario dei Ds in Piemonte, Pietro Marcenato. Insomma, mentre in Olanda i sindacalisti incoraggiano il ricorso più ampio possibile alla flessibilità per dare respiro all'economia nazionale e creare benessere diffuso, in Italia questi stessi sindacalisti combattono la flessibilità del mercato del lavoro e la definiscono "una barbarie". E a quale scopo? Per salvare lo strapotere dei propri apparati burocratici, per rimanere - come dice Carlo Callieri - i "soci di riferimento" dei partiti politici.

Non so se la nostra visione del lavoratore contemporaneo sia di destra o di sinistra, poco importa. Ma so che e' chiarissima. Noi riteniamo che ciascuno abbia diritto a un'uguale dote di libertà (libertà da - libertà di), ma che poi ciascuno debba camminare con le proprie gambe. Se qualcuno cade, la comunità lo aiuta a rialzarsi, ma non può camminare al suo posto. Dunque: uguaglianza dei punti di partenza, uguaglianza delle opportunità, e poi via alla differenziazione, ai percorsi diseguali, alle vocazioni di ciascuno, alla responsabilità, al merito.

Noi pensiamo ai giovani "parasubordinati", quelli della "collaborazione coordinata e continuativa" che non hanno alcun tipo di garanzia, manco la mutua. Non vogliamo certo imporne l'assunzione a tempo indeterminato - sono spesso i giovani a non volerla - ma crediamo che debbano poter stipulare contratti ad hoc con i loro datori di lavoro. Tutto alla luce del sole, con grande flessibilità e con - poche - regole chiare.

Se passa il referendum sul reintegro - la cui abolizione è chiesta anche da parte di molte personalità della sinistra - non avremo per nulla "più licenziamenti", ma più assunzioni. Vi sarà una tale iniezione di fiducia che gli imprenditori che oggi "delocalizzano", cioè portano il lavoro all'estero, troveranno nuove ragioni per rimanere in Italia ed investire qui. Al sud come al nord.

NOI, LA FAMIGLIA E IL DIRITTO DI FAMIGLIA

L'alternativa rappresentata dai Radicali non riguarda solo il terreno delle libertà economiche e della forma delle istituzioni politiche, ma, coerentemente con la visione liberale, l'intera sfera delle libertà civili ed individuali. Quale rispetto per l'autonomia e la responsabilità personali esprimo oggi il centro-sinistra e il centro-destra? Lo si capisce guardando al disegno di legge sulla fecondazione assistita attualmente all'esame del Senato. E' un testo francamente oscurantista - reso oscurantista dal dibattito alla Camera - che trascura i progressi scientifici, giuridici, morali e sociali che negli ultimi decenni, fortunatamente, sono intervenuti nel nostro paese

Quando le cronache ci mettono di fronte a una situazione così insolita com'è quella che i giornali hanno definito dell'utero in prestito, o in affitto" io credo che bisogna lasciare spazio a riflessioni dettate dalla tolleranza e dall'apertura al nuovo piuttosto che rifugiarsi nei pregiudizi e nei dogmi.

Prima riflessione. Uno dei cardini della riforma del diritto di famiglia realizzata negli anni Settanta non era proprio il ridimensionamento del dato biologico - del legame del sangue - come unico fondamento delle relazioni familiari? Per chi crede che la famiglia sia - prima ancora che una comunità di consanguinei - una comunità di relazioni affettive (come dimostra il diffusissimo istituto dell'adozione) la continuità genetica tra genitori e figli può persino apparire marginale.

Seconda riflessione. La "maternità surrogata" su base solidaristica (cioè il diritto di essere madre senza gravidanza) legittimata dal Tribunale di Roma S una pratica prevista a titolo gratuito nel regno Unito e negli Stati Uniti, dove migliaia di bambini hanno in questo modo visto la luce e avuto una vita normale. Capisco la difficoltà per la morale cattolica, che disapprova la sessualità senza concepimento, ad accettare la procreazione senza sessualità. Ma che c'entra lo Stato?

Un peccato non è necessariamente un reato e non c'è reato, io credo, non c'è crimine, se non c'è vittima. Ora, per quanto mi sforzi, non riesco ad identificare alcuna vittima in questo esempio di "maternità surrogata", meno che mai il nascituro, un nuovo essere umano che è stato così fortemente desiderato da avere la ragionevole certezza di essere amato. L'unico rischio che il nuovo nato corre, e contro cui lo Stato lo protegge già con le norme esistenti, é quello che la sua vita (il suo stato anagrafico, i suoi legami formali di parentela) non siano regolati da norme certe.

E qui sta il punto, quando il progresso scientifico rende possibili fattispecie sociali che nessun legislatore aveva previsto. Io mi guardo bene dal celebrare come positiva qualsiasi scoperta scientifica. Ma mi guardo altrettanto bene dal nutrire l'istintiva sfiducia nella scienza - l'ossessione a porre sotto la tutela gli "scienziati della vita" - che ispira molti moralisti.

Al mondo cattolico, che ho l'abitudine di rispettare, vorrei dedicare, con rispetto, la seguente citazione di Gaetano Salvemini: "Tutti in Italia sembrano avere dimenticato che la libertà non è la mia libertà, ma è la libertà di chi non la pensa come me. Un clericale non capisce mai questo punto n, in Italia n, in nessun paese del mondo. Il clericale non arriverà mai a capire la distinzione tra peccato e delitto, fra quello che lui crede peccato e quello che la legge secolare ha il compito di condannare come delitto. Punisce il peccato come se fosse delitto, e perdona il delitto come se fosse peccato. Non S mai uscito dall'atmosfera dei dieci comandamenti, nei quali il rubare e l'uccidere (delitti) sono messi sullo stesso livello del desiderare la donna d'altri (peccato). Perciò è necessario tenere lontani i clericali dai governi dei paesi civili".

Si continua, soprattutto a destra, a dipingere i radicali come degli "sfascia-famiglie", dei libertini senza morale che minano le fondamenta della nostra società e quelle della famiglia. La verità é che

noi vogliamo oggi liberare le famiglie dall'incubo della droga nello stesso modo in cui le abbiamo liberate dall'incubo delle unioni indissolubili, con la legalizzazione del divorzio, e dall'incubo delle interruzioni clandestine della gravidanza, con la legalizzazione dell'aborto.

Dal divorzio sono nate milioni di nuove famiglie normali. L'aborto legale ha sancito l'emancipazione e la liberazione della donna. Oggi, gli stessi che ci crocifissero ai tempi di divorzio e aborto, come nemici dei valori cristiani, attaccano la nostra proposta di legalizzare la circolazione della droga. Sono i Berlusconi, i Bossi, i Fini, i Buttiglione, i Casini, che condannano tante famiglie italiane a coabitare con l'incubo quotidiano della droga difendendo - in nome di "valori" non meglio precisati - l'ottusa scelta proibizionista, che non risolve né la piaga sociale della tossicodipendenza né la criminalità collegata al traffico illegale degli stupefacenti.

Ghigo o Turco qui da noi (come Formigoni e Martinazzoli in Lombardia, come Storace e Badaloni nel Lazio, come Chiaravallotti e Fava in Calabria - al Nord, al Centro e al Sud -) non costituiscono alcuna reale alternativa in tema di diritti civili e individuali. La loro non è una contrapposizione politica ma una rivalità di interessi. Quale che sia il risultato elettorale, il pronostico è facile: se a vincere sarà uno dei due Poli, sarà la conservazione a prevalere.

Immigrazione

Anche i termini del fenomeno immigrazione cambiano, e cambiano in fretta, mentre si continua a parlarne in astratto, ciascuno coltivando le sue ossessioni e le sue illusioni: Berlusconi e Bossi, che propongono di affidare alle forze armate e alle forze di polizia la gestione di un fenomeno epocale, una delle mutazioni innescate dalla mondializzazione; i buonisti cattolici e laici convinti che basta fare appello ai valori della solidarietà e dell'uguaglianza per rendere governabile un processo socio-economico le cui conseguenze vanno affrontate dal legislatore, opportunamente assistito dai migliori economisti, sociologi, giuristi.

Anche questo fenomeno, dicevo, sta cambiando. Dal 1994, la maggioranza degli immigrati che chiamiamo extra-comunitari e' di origine europea: sono ex-jugoslavi, albanesi, polacchi, rumeni. Sono cittadini di paesi che prima o poi, nel volgere di una generazione, entreranno nell'Unione europea, saranno inseriti in quell'area di libero scambio e di integrazione politica nella quale l'Italia e' già. Cesseranno di essere extra-comunitari mentre da noi Bossi e Berlusconi pensano ancora a rispedirli a casa o a come tenerli oltre frontiere parzialmente virtuali. Ho letto attentamente il progetto di legge sull'immigrazione di Bossi e Berlusconi, nonché la relazione che l'accompagna, in cui vengono inutilmente scomodati i Giacobini, i Filistei, Jean Jacques Rousseau ed altri ancora, per dare dignità a proposte irresponsabili che portano il marchio inconfondibile della xenofobia, della destra estrema. Si cerca di dare dignità a piccole cialtronerie propagandistiche come la proposta di aiutare i candidati immigrati "a

casa loro, detassando - per esempio - le attività missionarie: peccato che non c'è attività missionaria né nei paesi dell'Est (Bosnia compresa), né nei paesi musulmani del Maghreb, che sono i due grandi bacini di emigrazione verso l'Europa. Il vero obiettivo di Berlusconi e Bossi non é quello di proporre domani al parlamento sciocchezze simili, ma più banalmente quello di rastrellare oggi, prima del 16 aprile, i voti delle fasce sociali che, colpite da alcuni "effetti collaterali", patologici, dell'immigrazione, guardano con simpatia a misure tanto drastiche quanto illusorie .

La verità e' che anche il fenomeno dell'immigrazione, se analizzato laicamente, spinge verso misure di liberalizzazione, a cominciare dal mercato del lavoro. La verità e' che i paesi dell'Europa ancora statalista, come il nostro, con un mercato del lavoro ingessato come il nostro, invece di porsi il problema teorico e pratico dell'integrazione, offrono agli immigrati extracomunitari due opzioni, diversamente mortificanti: o essere assistiti o essere espulsi.

E la criminalità ? Certo, c'è anche la criminalità extracomunitaria, da aggiungere a quella nazionale, che gode di ottima salute. Ma anche su questo punto bisogna sforzarsi di essere laici e razionali. Le statistiche giudiziarie ci dicono che la criminalità extracomunitaria è figlia in primo luogo della clandestinità. Ci dicono anche (cito l'ultimo rapporto Istat, quello 1998) che l'86,5% degli stranieri denunciati e/o indagati era in posizione irregolare. Ci dicono che la percentuale di procedimenti contro stranieri costituisce l'11,4% del totale: dal che si deduce che l'incidenza degli immigrati regolari sul tasso di criminalità (intorno all'1,5%) rimane inferiore alla loro incidenza demografica (che è del 2%).

Cerchiamo di essere razionali e razionalmente visionari. Fra vent'anni l'Italia sarà ricchissima di pensionati e poverissima di contribuenti attivi. I quali contribuenti-lavoratori saranno, in una percentuale sempre crescente, o extracomunitari o - per quello che dicevo prima - "italiani di prima generazione". Detto questo, che interesse ha l'Italia a respingere questi suoi "nuovi cittadini" - prima di accettarli come tali - nel purgatorio dell'illegalità, dove più forte e' il richiamo della criminalità? Ci chiediamo noi radicali (e ce lo chiediamo insieme agli esperti delle Nazioni Unite, insieme al governatore della Banca d'Italia Fazio): ma perché un paese anagraficamente vecchio come il nostro deve considerare insuperabile - come un tabù- l'attuale quota di popolazione immigrata, che è del 2%, cioè meno della meta' della quota media europea (del 5%) ed equivalente a un quarto di quella esistente nella grande, solida e organizzata Germania?

La quale Germania, peraltro, cosciente delle statistiche Onu secondo le quali l'economia europea avrà bisogno di 40 milioni di stranieri entro i prossimi 25 anni, sta pensando di aprire ulteriormente le sue porte. Soprattutto all'immigrazione qualificata, prevalentemente asiatica, spendibile sul fronte delle tecnologie e della New Economy. Li avete letti anche voi i dati Ocse secondo i quali gli stranieri producono già entro i confini dell'Unione europea 900.000 miliardi di ricchezza e pagano 300.000 miliardi di tasse.)

Che cosa proponiamo? Noi partiamo dalla constatazione che, paradossalmente, l'unica immigrazione liberalizzata (si fa per dire) e' quella illegale, che nessuno riesce a controllare. E perché ? Perché abbiamo reso l'immigrazione regolare pressocchè impossibile, perché manteniamo quote molto basse rispetto agli standard europei, rigidamente riservate a un piccolo gruppo di paesi "eletti". Noi proponiamo invece di governare l'andamento degli ingressi, di adeguare le quote di entrata alle tendenze demografiche e alle effettive compatibilità del nostro sistema produttivo. Noi proponiamo che gli immigrati vengano, come già avviene in tutti i paesi che hanno imparato a gestire l'immigrazione come un fattore di sviluppo, accolti secondo criteri economici e non burocratici.

Il modello da seguire ce lo anticipa, ancora una volta, il Nord-Est, dove fra il '93 e il '99 gli stranieri residenti sono più che raddoppiati. In Veneto sono gia' di provenienza extracomunitaria un avviato su dieci, e due operai generici su dieci. Ma c'è di più: senza l'apporto dei lavoratori extracomunitari interi settori agricoli sarebbero fuori mercato. Chi mungerebbe le mucche in Valtellina? Chi raccoglierebbe gli ortaggi in Campania e Puglia? Chi farebbe la vendemmia in Sicilia? Quali collaboratori e collaboratrici domestici terrebbero in ordine le case di noi italiani ormai abituati al benessere?

Conclusione

Più di ogni altra cosa, il Piemonte ha bisogno proprio di ciò che i due Poli non sembrano in grado di fornire. Il Piemonte ha bisogno di leadership. E intendo per leadership non solo e non tanto le caratteristiche umane, individuali, dei candidati. Anche se non sono così ipocrita (così falsamente cortese, come dicono di noi piemontesi) da non dire che entrambi i miei rivali, Ghigo e Turco, rappresentano uno stile di governo privo di grinta e di fantasia, incapace di scegliere in proprio, fondato sulla più stretta subalternità alle esigenze delle rispettive scuderie politiche.

Noi radicali riteniamo di potere esprimere capacità di leadership perché fondiamo le nostre scelte politiche su valori e ideali e non su scelte di marketing o comuque tattiche; perché crediamo in quello che facciamo e anche quando il mare é in tempesta, "teniamo la barra", non cambiamo rotta, come accade così spesso ai nostri avversari.

(diversione su Berlusconi e il sistema elettorale e D'Alema e le riforme?)

Una caratteristica irrinunciabile della leadership é la coerenza, merce rara nel panorama politico italiano e piemontese. Lasciatemi concludere citando - non ve ne meravigliate - un democristiano per cui ho nutrito stima e rispetto, Luigi Granelli, secondo il quale bisogna:"Dire quel che si pensa, fare quello che si dice, essere disposti a pagare per quello che si fa....Perché le idee valgono per quello che costano, non per quello che rendono".

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