LA SINDROME DI PALAZZO CHIGIdi ANGELO PANEBIANCO
Mentre si va chiudendo l'era del centro-sinistra, è lecito domandarsi cosa ci aspetta. Del centro-sinistra, dei suoi pregi e difetti, ormai sappiamo tutto. Ma che cosa sappiamo del centro-destra, dei probabili prossimi padroni del vapore? Non è sufficiente dire che essi sono, nelle loro varie articolazioni, il »partito moderato . Dal momento che di partiti moderati ve n'è, in Occidente, di varia specie, responsabili di politiche assai diverse fra loro. Al di là della propaganda, che cos'è adesso il centro-destra italiano? E che cos'è diventato il suo maggior partito, Forza Italia? Alcuni di noi pensano da gran tempo che all'Italia servirebbe un decennio di seria guida liberal- conservatrice. Ma il centro-destra, e Forza Italia al suo interno, saranno questa seria guida liberal- conservatrice? La verità è che non è possibile saperlo. Nessuno, cui non faccia velo lo spirito partigiano, credo è oggi in grado onestamente di dire che cos'è diventato il centro- destra. Più o meno confusamente sappiamo che non è pi
ù quello messo avventurosamente in piedi da Berlusconi nel 1994. Ma che cos'è diventato? Abbiamo pochi indizi per rispondere. Sappiamo che non si presenta più come quella destra liberal-liberista che era, almeno nelle intenzioni o nelle aspirazioni, nel 1994. Il comportamento di Berlusconi nella vicenda referendaria lo ha definitivamente provato. Come ha scritto Marcello Veneziani ( La Stampa del 25 maggio), il 21 maggio »è stato sconfitto il Partito Liberale. Non quello di Croce o di Malagodi, ma quello che periodicamente viene invocato da alcune minoranze intellettuali e civili, imprenditoriali e politiche del nostro Paese. Il filo conduttore dei sette referendum era decisamente di segno liberale e liberista . Non si potrebbe dir meglio. E il fatto che Berlusconi sia stato determinante nel far fallire quell'operazione (nulla lo simboleggia meglio dell'aperto dissenso di Antonio Martino, liberale autentico e co-fondatore di Forza Italia) apre un grosso interrogativo: se non è (più?) liberale e liberista, q
ual è allora la nuova identità di Forza Italia? E quali politiche, una volta al governo, Forza Italia svilupperà con questa nuova (e per ora sconosciuta) identità? Guardiamo alle tante incongruenze. Il Polo ha assai applaudito la relazione del neo-presidente confindustriale D'Amato, facendo capire d'esser in sintonia con il nuovo corso di Confindustria. Già, ma quando si passa dalle parole ai fatti, le »sintonie vengono meno. Forza Italia, infatti, si è appena clamorosamente differenziata dalla Confindustria nel voto sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, relativo ai licenziamenti. I conti non tornano. E c'è di più. Facendo fallire un altro referendum, quello elettorale, Berlusconi ha aperto spazi di manovra a colui che promette di essere un suo futuro, ingombrante, alleato politico: quel D'Antoni, capo della Cisl, il quale dichiara a questo giornale (26 maggio) che, sì, lui è disposto a discutere di flessibilità del lavoro ma in cambio »(...) voglio una redistribuzione del potere a favore dei lavo
ratori. Chiedo di costruire un modello di democrazia economica. La modernizzazione dev'essere gestita direttamente da tutte le forze sociali, non ci può essere una delega in bianco alle imprese, come invece ha chiesto D'Amato . I conti non tornano proprio. Da un lato, si blandisce l'impresa e le sue richieste di liberalizzazione (e Berlusconi, intervistato dal Sole-24 Ore due giorni fa, ribadisce solennemente il suo impegno per un'economia più libera). Dall'altro, ci si mette nelle condizioni di dover trescare politicamente con chi non si limita a difendere i giusti diritti dei lavoratori in fabbrica ma vuole applicare anche alle imprese il »modello già da decenni in vigore nel settore pubblico.
Un settore dove la "redistribuzione del potere a favore dei lavoratori" è un dato di fatto, dove nemmeno un portacenere può essere spostato senza che lo si sia prima contrattato con i sindacati, dove nessuno, nemmeno il più disgraziato (per esempio l'insegnante somaro), quali che siano i danni che procura e le sofferenze che infligge all'utenza, può esser licenziato. Quale identità può mai essere quella di una forza politica che ufficialmente inneggia al mercato, e contemporaneamente fa fallire un referendum pro-mercato e strizza l'occhio ad alcuni dei principali responsabili sia del debito pubblico (vedi le posizioni di D'Antoni sulle pensioni), sia del cattivo funzionamento di tanti servizi pubblici? Quali politiche di governo dovremo allora aspettarci?
Non si ottengono lumi maggiori se si guarda alla politica della giustizia. Per anni Forza Italia ha sostenuto posizioni che qualunque liberale non poteva non condividere (separazione delle carriere, giudice terzo, fine delle pratiche correntizio-spartitorie all'interno del Csm). Per anni gli avversari più malevoli di Berlusconi hanno argomentato che egli, in realtà, era interessato solo ai "suoi" personali problemi con la giustizia. Arrivano i referendum radicali e Berlusconi fa le scelte che sappiamo. Io credo che, a causa di quello che è accaduto il 21 maggio, di separazione delle carriere in Italia non si parlerà mai più e che Berlusconi, mandando all'aria quel referendum, si è assunto una gravissima responsabilità. Per causa sua, continueremmo per decenni ad avere una giustizia di stampo autoritario anziché liberale.
Ma, a parte questa mia opinione personale, rimane il problema obiettivo: qual è ora la "nuova" politica della giustizia di Forza Italia? Che cosa faranno, in un così determinante settore, quando andranno al governo? Il mistero è fitto. Anziché chiarirle, si confondono ulteriormente le cose se si dice, come usa dire, che Forza Italia, abbandonata la "giovanile" maschera liberal-liberista, è ormai la nuova Democrazia cristiana. Che cosa vuol dire ciò concretamente'? Ammesso che sia così, quali politiche dovremo aspettarci da una tale simil-Dc guidata da Berlusconi?
Sono sicuro che questi interrogativi appaiono a Berlusconi oziosità da intellettuali. Berlusconi pensa che l'unica cosa che conta è conquistare Palazzo Chigi. Curiosa sindrome, questa di Palazzo Chigi. Ne hanno sofferto Prodi e D'Alema. Ne soffre adesso Berlusconi. Tutti costoro si sono di volta in volta illusi che sarebbe bastato per loro diventare premier per poter poi modellare l'Italia a proprio piacimento. L'errore, sospetto, consiste nello scambiare Palazzo Chigi per Downing Street numero 10, la residenza del premier britannico. Ma il premier britannico è un vero capo di governo, egli domina il gabinetto (che ha una struttura gerarchico-piramidale) ed è sostenuto da una maggioranza parlamentare compattissima, il cui compito è "credere, obbedire, combattere". Invece, il Presidente del Consiglio italiano è, con rispetto parlando, un poveretto (al confronto, si capisce), istituzionalmente debole, solo nominalmente a capo di un governo con ministri ciascuno dei quali può fare, se vuole, il comodo suo, e "
sostenuto", si fa per dire, da una sgangherata e rissosa maggioranza, spesso impegnata a sabotare le iniziative del governo. D'Alema, andando a Palazzo Chigi, credeva di fare chissà che, e si è visto come è finita. Perché mai Berlusconi, tanto più in tempi di revival proporzionalistico, dovrebbe conoscere una diversa sorte?