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18 settembre 2000 - BARCELLONA - Camera di commercio

Camera di Commercio di Barcellona

Il futuro istituzionale dell'Unione europea: molto rumore per poco

(Intervento di Emma Bonino (bozza)

Barcellona, 18 settembre 2000

Si é soliti dire che l'opinione pubblica non riesce ad appassionarsi al dibattito sull'integrazione europea - alle discussioni sul futuro assetto istituzionale dell'Unione - perché é difficile immaginare un argomento allo stesso tempo più complesso e soprattutto astratto. Ebbene, se abbiamo un motivo per rallegrarci della lunga crisi di cui soffre la nostra moneta unica - che é la bandiera e il simbolo del cantiere istituzionale europeo - questo motivo risiede nel fatto che I problemi dell'euro obbligano I cittadini europei a cercare di capire che succede e la classe dirigente della nostra comunità a rimboccarsi le maniche e rilanciare in qualche modo il processo di integrazione.

L'aspetto della crisi dell'euro che a me sembra piu' inquietante è che nessuno puo' piu' considerare le difficolta' della moneta unica come incertezze e contraccolpi dovuti al rodaggio di una valuta appena messa in circolazione. Dietro la crisi dell'Euro si intravede ormai - e i mercati finanziari lo hanno bene intuito - una debolezza politica della costruzione europea.

Non c'e' altro modo per spiegarsi la disaffezione dei mercati e la vulnerabilita' della nostra moneta ventuno mesi dopo la sua nascita e per di piu' in una fase in cui le economie degli undici paesi di Eurolandia sono piu' forti di due anni fa e preannunciano un trend prolungato di crescita. Non c'e' altro modo per spiegarsi come - giorno dopo giorno - bastino la gaffe di un leader politico o la pubblicazione di un dato statistico negativo per determinare scivolamenti e sbandamenti della moneta unica.

Io credo che, nei mesi in cui nasceva la moneta unica - giustamente vista come un traguardo storico per l'Unione - abbiano commesso un errore quei politici e quei banchieri i quali sostennero che la nascita per la prima volta di una "moneta senza Stato" sanciva il primato dell'economia sulla politica. L'illusione di questa supremazia é durata poco, né poteva essere diversamente, perché nel mondo moderno nessuna unione monetaria e' sopravvissuta a lungo senza unione politica, ad eccezione di quella fra Belgio e Lussemburgo che - con tutto il rispetto per entrambi i paesi - resta un caso peculiare e scarsamente rappresentativo. Proprio l'Italia e' passata, il secolo scorso, per l'estemporanea esperienza dell'Unione Monetaria Latina che, proprio per essersi limitata alla sfera monetaria, viene appena segnalata da qualche manuale di storia e solo nelle note a pie' di pagina.

Faccio spesso un esempio che a me sembra illuminante a questo riguardo: prendiamo le economie dei cinquanta Stati americani, che ovviamente non marciano sempre in sintonia. La California e l'Ohio possono conoscere un boom nello stesso momento in cui la Pennsylvania e l'Oklahoma entrano in una fase di stagnazione o di recessione.

Nessuno degli Stati interessati puo' contare, per correggere la situazione, sulla politica monetaria - che e' fatta al centro della Federal Reserve e vale per tutti. Chi puo' invece reagire e' il governo federale, in grado di spostare risorse da uno Stato all'altro, aumentando i trasferimenti netti verso uno Stato in crisi, aumentando la pressione fiscale in California o diminuendola in Pennsylvania. Perche' il governo federale puo' disporre di una massa di risorse pari a circa il 20% del Pil statunitense.

Le nostre istituzioni comunitarie amministrano appena l'1,2% dei Pil dei quindici Stati membri e per di piu' bruciano la meta' di questo "prelievo" in sussidi all'agricoltura. Ma attenzione: quand'anche le risorse comunitarie fossero dieci o venti volte tanto, il loro prelievo e la loro allocazione non verrebbero decisi da un centro federale bensi' dal consesso dei 15 governi, dopo estenuanti trattative. Con il risultato, evidente a tutti, che tale processo decisionale e' dominato da uno dei piu' babrbari fra i concetti economici: il fair return o giusto ritorno. Era facile prevedere difficolta' nel governo di eventuali crisi. E, a parte la crisi attuale, mi chiedo: come faremo a gestire i cosiddetti "shock asimmetrici", che inevitabilmente si presenteranno, dato che nessuno puo' chiedere a 15 economie nazionali di marciare all'unisono?

Il Trattato di Maastricht affida la responsabilita' dell'euro alla Banca Centrale Europea, istituzione indipendente che ha il compito principale di mantenere la stabilita' dei prezzi. Ma la BCE non ha certo l'esclusiva di questa responsabilita'. Essa la condivide infatti con il potere politico.

La stabilita' dei prezzi dipende infatti, tanto dalla politica monetaria in senso stretto quanto da tutta una serie di fattori economici determinati dagli Stati e dalle collettivita' che compongono l'Unione: politiche di bilancio, politiche fiscali, politiche salariali, competitivita' delle singole economie. Ognuno di questi fattori puo' agevolare o intralciare il lavoro della BCE.

Ne' puo' essere dimenticato che la politica esercita, nei confronti della BCE, una responsabilita' che e' anche un dovere proprio dei sistemi democratici: garantire la trasparenza della BCE e renderne conto ai cittadini. Per la semplice ragione che, essendo il potere politico a nominare quei banchieri, al potere politico incombe il compito di seguire passo passo l'operato di quei banchieri, di cui si puo' essere prima o poi chiamati a rispondere.

L'economista italiano Tommaso Padoa-Schioppa, membro del direttorio della BCE, si e' recentemente lamentato della "solitudine" della Banca Centrale, priva com'e' di una controparte politica di profilo autenticamente europeo, "federale". Il che espone la BCE al rischio di essere considerata dall'opinione pubblica di questo o quel paese europeo responsabile di fenomeni negativi - alta disoccupazione o bassa competitivita' - sui quali essa non ha in realta' alcun modo di intervenire. Questa "solitudine", dice Padoa-Schioppa "rivela una lacuna nel sistema politico dell'Unione europea".

Una lacuna accompagnata da più di una anomalia. A cominciare dalla constatazione che il Trattato di Maastricht, mentre ha creato una istituzione sovranazionale (la BCE) responsabile della politica monetaria comune, ha lasciato - in nome del principio della sussidiarietà - le altre politiche economiche (fiscalità, spesa pubblica, impiego) ripartite "verticalmente" ai vari livelli di governo esistenti: europeo, nazionale, locale.

Ma, visto che proprio l'esistenza della moneta unica ha accresciuto l'interdipendenza fra le economie degli 11 paesi di Eurolandia, pare inevitabile - almeno a me - la necessità di andare oltre l'armonizzazione delle principali scelte economiche per passare a una vera e propria devoluzione di sovranità, a un travaso dei poteri dalla periferia al centro.

Un handicap ancora più grave - che certamente non é estraneo alla debolezza dell'euro sui mercati finanziari - viene dalla cosiddetta questione della "rappresentanza dell'euro". A differenza del dollaro e dello yen, infatti, la moneta europea non ha sulla scena internazionale un solo volto e una sola voce che ne siano l'espressione. E non é certo un mistero che tutte le storie - antiche e recenti - delle monete forti, che si affermano sui mercati, coincidono con le storie di paesi dotati di efficienti sistemi politico-economici, dei quali la moneta diventa un simbolo.

(attenzione: paragrafo nuovo)

E' il governo dell'economia mondiale a esigere che a rappresentare l'euro - una moneta la cui ambizione é quella di competere con il dollaro, nelle riserve e nella denominazione degli scambi - ci sia una sola persona. E' la vecchia battuta di Kissinger ("qualcuno sa che numero di telefono bisogna fare per parlare con l'Europa?"), applicata alla sfera economica. Prendiamo il G-7. Chi parla a nome nome di Eurolandia? La Francia, l'Italia, la Germania, il presidente della Commissione, la presidenza di turno (che magari non appartiene alla zona euro o é lussemburghese)? O parleranno tutti insieme? E gli esclusi - gli spagnoli, tanto per fare un esempio - possono accettare una di queste soluzioni? Molto probabilmente no.

Ha ragione Padoa-Schioppa quando dice: l'euro é alla lunga sostenibile soltanto se costituisce una tappa del processo di integrazione europeo.

Questa affermazione (che ci viene da uno dei massimi custodi della moneta unica) ci porta al tema più vasto e altrettanto attuale della riforma delle istituzioni comunitarie.

Sui termini della questione tutti sembrano d'accordo: la nostra comunità, destinata a trasformarsi nei prossimi anni da una famiglia di 15 Stati membri in un vasto club di 28 o 30 paesi, deve obbligatoriamente - per evitare la paralisi - riformare regole e meccanismi che già oggi si rivelano inadeguati. Sono questi I termini del dilemma allargamento/approfondimento: il primo, già avviato, impone l'avvio del secondo.

C'é un vasto consenso anche nell'indicare le tre riforme ritenute più urgenti e che effettivamente la presidenza di turno francese ha iscritto sull'agenda della conferenza inter-governativa da cui dovrebbe scaturire, nel prossimo dicembre, al vertice europeo di Nizza, quello che già viene chiamato il "Trattato di Nizza": le tre riforme sono:

la composizione della Commissione, ossia la limitazione del numero dei commissari europei, oggi venti, che costituiscono l'esecutivo comunitario;

l'estensione del voto a maggioranza qualificata, per evitare - con l'aumento degli Stati membri - che si moltiplichi il ricorso al veto da parte di una sola capitale;

la ri-ponderazione dei voti in seno al Consiglio (che é un po' come l'assemblea degli azionisti) affinché si tenga conto in qualche modo del diverso peso fra I vari Stati.

A questa lista delle priorità istituzionali la Francia ne ha aggiunto una quarta: le cosiddette "cooperazioni rinforzate", cioé il diritto (teoricamente già affermato nel Trattato di Amsterdam) per quei paesi che lo volessero, di "avanzare da soli verso nuovi livelli di integrazione".

Come potrebbero funzionare le cooperazioni rinforzate? I teorici francesi di questa soluzione sostengono che il loro é un approccio pragmatico, molto più pragmatico - precisano - delle "visioni istituzionali" più o meno federaliste con il cui il ministro degli Esteri Joschka Fischer ebbe il merito, nel maggio scorso, di aprire il dibattito. Tornero' più avanti su Fischer. Restiamo alle cooperazioni rinforzate che dovrebbero, nelle intenzioni dei loro architetti francesi, facilitare l'emergere - per "selezione naturale" - dei paesi disposti ad assumere il ruolo di avanguardia, di nocciolo duro, pronti ad avviare la costruzione di istituzioni ad hoc: istituzioni che sarebbero tuttavia aperte a tutti gli altri Stati membri dell'Unione interessati a partecipare a queste politiche integrate e in condizioni di farlo.

Inutile nascondere che questa via delle cooperazioni rinforzate, suggestiva scorciatoia per rilanciare il processo di integrazione, porterebbe la nostra comunità - già complessa cosi' com'é - ad aprire nuovi cantieri di sofisticata ingegneria istituzionale. Ma non é questo il punto.

Il punto é che, ormai a meno di tre mesi dall'appuntamento di Nizza - lo si é visto all'ultima riunione dei ministri degli esteri ad Evian, due settimane fa - non c'é un solo Stato membro che si sia impegnato a sostenere le riforme che ci si aspetta dalla conferenza intergovernativa, e tanto meno le cooperazioni rinforzate. Siamo assolutamente fermi.

E non siamo fermi, a mio giudizio, perché - come temeva qualcuno - si sono scatenate dispute teologiche su progetti e nozioni (federalismo, sovranità, sovranazionalità) che suscitano arroccamenti o sentimenti e reazioni forti.

Siamo fermi perché dietro il dilemma allargamento-rafforzamento si nasconde il partito, per cosi' dire, di coloro (individui, partiti, paesi) che - avendo in odio ogni prospettiva federale - sognano invece un'Europa ridotta a grande zona di libero scambio; e non credo di dire una malignità sostenendo che costoro hanno visto nell'allargamento (e anche per questo lo hanno appoggiato) una chance non già per accelerare ma per rimandare sine die le ulteriori fasi dell'integrazione europea. Io credo che dobbiamo l'attuale stallo della conferenza intergovernativa alla sorda resistenza di questo partito di "nemici dell'integrazione europea", che non deve nemmeno uscire allo scoperto, aiutato com'é dalle timidezze e dalle divisioni in seno alle file degli europeisti convinti.

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