Roma, Hotel Ergife 1-4 febbraio 2001Intervento di Emma Bonino
Smuovere le acque della palude politica
Cari amici, a meno di cento giorni dalle legislative il panorama politico italiano é quello fotografato con crudeltà dall'Economist un paio di mesi fa, nei giorni in cui ci riunivamo a Chianciano: si accinge a votare "la vecchia Italia di sempre". Spiegazione: quella stessa Italia dove cinque anni fa tutte le principali forze politiche sostenevano in coro che alcune riforme, sia politico-istituzionali sia socio-economiche, erano irrinunciabili e urgentissime, oggi va spensieratamente a votare senza che una sola di quelle riforme, irrinunciabili e urgentissime 5 anni fa, sia stata fatta. Con un'aggravante, aggiungeva l'Economist: gli elettori italiani rinnoveranno il parlamento dopo avere colpevolmente rinunciato nella primavera scorsa all'opportunità di avviare essi stessi le riforme più urgenti approvando i referendum radicali.
Ritornerò più avanti sui temi referendari e sulla loro immutata attualità. Il punto che mi preme sottolineare ora, e da cui avviare il mio ragionamento, é questo panorama politico ridotto a palude, tanto chiassoso all'apparenza quanto ristagnante nella sostanza. E non faccio né una battuta facile né una boutade qualunquista. Noi radicali abbiamo sentito tante volte con le nostre orecchie, fin dai giorni successivi alle europee di giugno 99, Berlusconi e i suoi vassalli reagire a qualsiasi proposta di programma, di cambiamento, da fare o da proporre, dicendo: "Prima vinciamo e poi vediamo". Come definire una simile strategia se non la "filosofia della palude"?
Il centrosinistra non suona una musica molto diversa. Come mai l'Ulivo, la Quercia e i fiori che sbocciano ogni tanto non hanno ancora messo a punto un programma degno di questo nome, né ambizioso né minimalista ? Perché la filosofia degli strateghi del centrosinistra, speculare a quella berlusconiana é: "Prima perdiamo e poi vediamo".
In questo stagno politico noi intendiamo continuare a tirare i nostri sassi - cioé le nostre idee e i nostri valori - sperando di smuoverne le acque. E continuiamo testardamentre a farlo, come é nostra abitudine, anche quando le condizioni si fanno difficili, quando tutte le vie dell'azione politica appaiono impraticabili o chiuse.
La battaglia per i nuovi diritti civili
Abbiano un nuovo sasso da lanciare per le prossime elezioni, un'iniziativa in difesa di quelli che vanno considerati "nuovi diritti civili", che cercherò di illustrare meglio e mi limito adesso a elencare in forma semplificata: la clonazione a scopo terapeutico; la cosiddetta "pillola del giorno dopo" e la pillola abortiva; l'eutanasia intesa come il diritto a una morte dignitosa.
Noi riteniamo che questa iniziativa, basata su un "pacchetto" di diritti che altri paesi già riconoscono o promuovono e l'Italia invece si ostina a ignorare, é diventata negli ultimi tempi necessaria ed urgente: tanto quanto i diritti sociali ed economici che da anni, in quanto liberali, rivendichiamo. Varie sono le ragioni che rendono questa battaglia indifferibile. La principale é la necessità pressocché quotidiana che le grandi democrazie contemporanee conoscono di sviluppare il dialogo fra politica e scienza, di abituare i governanti a interagire non più sporadicamente ma quotidianamente, sistematicamente, con gli scienziati. Imparando a trarre da questo dialogo tutti i vantaggi possibili per i cittadini: in termini di salute, di benessere e di libertà individuali.
Dovunque la scienza bussa alla porta della politica - dagli Stati Uniti alla Francia, dal Regno Unito all'Olanda - la politica apre la porta, ascolta e si mette al lavoro. Non così in Italia, dove il dialogo fra scienza e politica - storicamente arduo - si é fatto ancora più difficile nei tempi più recenti, caratterizzati dall'overdose di clericalismo e integralismo somministrataci durante l'anno giubilare e dalla conseguente la perdita della bussola (per opportunismo o per scarsa solidità delle proprie idee) subita dalle principali forze politiche che si definiscono laiche.
Nel momento in cui denuncio l'integralismo cattolico, che pesa come un handicap sull'emancipazione del nostro paese, non posso tacere i danni che rischia di causare all'Italia una nuova forma di integralismo - l'"integralismo verde" - propagato da una parte del movimento ambientalista, non solo italiano. E c'é un chiarimento a questo proposito che mi pare indispensabile. Noi radicali non denunciamo l'integralismo verde in quanto "liberisti selvaggi" o "servi sciocchi della globalizzazione e delle multinazionali".
Noi denunciamo questo fenomeno in quanto ambientalisti noi stessi, ma ambientalisti liberali. Non accettiamo lezioni di ambientalismo, tanto meno da chi, dovendosi confrontare con la ricerca scientifica (per esempio in materia di organismi geneticamente modificati), reagisce esattamente come reagisce la Chiesa di fronte a qualsiasi scoperta che metta in discussione dogmi e tabù. Non già dubitando, ma esclamando: Vade retro satana!
Noi che siamo laici e sogniamo di vivere un giorno in un paese autenticamente laico, chiediamo agli elettori di aiutarci a rilanciare la battaglia per i diritti civili, difendendo quelli già acquisiti (e che qualcuno sembra intenzionato a rimettere in discussione) e conquistandone di nuovi, mobilitando tutte le nostre energie e facendo ricorso a tutti gli strumenti di cui disponiamo. Tornando nelle piazze, raccogliendo firme su proposte di legge di iniziativa popolare, facendo appello ai medici, agli scienziati, alle coscienze laiche. Per questo vogliamo tornare in parlamento, non per portare acqua a uno dei due consorzi della partitocrazia: e poiché il nostro pacchetto di "nuovi diritti" costituisce l'unica concreta novità - nel deserto di idee che é questa campagna elettorale - crediamo che esso meriti di essere votato dagli elettori di destra e di sinistra, i cui partiti di riferimento ignorano questi temi o cercano di esorcizzarli; e osiamo pensare che l'affermazione di questi diritti sia in sé un'ottima
ragione per riportare alle urne anche quegli italiani, sempre più numerosi, che hanno smesso di votare. Cercherò di spiegare perché, senza infliggervi - anche perché non tocca a me - una conferenza scientifica
La clonazione a scopo terapeutico
La questione ruota soprattutto attorno alla possibilità di utilizzare a scopo terapeutico cellule staminali prelevate dagli embrioni detti "sovrannumerari" in quanto sono lo scarto dei programmi di fecondazione assistita. Congelati e conservati sotto azoto, questi embrioni debbono essere usati entro una determinata scadenza, trascorsa la quale vengono semplicemente buttati via. Ora una delle utilizzazioni possibili degli embrioni é la ricerca di terapie contro malattie giudicate tuttora incurabili. Come ha detto il nostro compagno Luca Coscioni alla conferenza stampa di presentazione della nostra proposta di iniziativa popolare, che riguarda direttamente il suo destino di uomo colpito da sclerosi laterale amiotrofica: "La mia malattia può forse essere curata ricorrendo alle cellule staminali...Per ragioni non ancora note, infatti, le cellule staminali,una volta inserite nel sistema nervoso, sono irresistibilmente attratte dai punti, come le aree di lesioni o degenerazioni, dove c'é più bisogno di loro...E un
a volta arrivate a destinazione tali cellule indifferenziate si trasformano inneuroni in grado di sostituire o riparare quelli distrutti o danneggiati". Numerose sono le malattie incurabili, come quella di cui soffre Luca, e che abbiamo finalmente la speranza di sconfiggere con l'aiuto delle cellule staminali: l'atrofia muscolare spinale, il morbo di Alzheimer, il Parkinson, il lupus, il diabete ed altre. E sono circa 10 milioni gli italiani che, vittime di varie patologie, potrebbero guarire con terapie basate su queste cellule. Non sono io a dirlo. Sta scritto nel Rapporto Dulbecco, redatto dai 25 saggi cui il ministro della Sanità Veronesi ha affidato il compito di esaminare (cito) "Le problematiche relative all'utilizzo di cellule staminali a scopi terapeutici e di chiarire il reale potenziale di sviluppo e di applicabilità di tale uso nella ricerca in Italia" (chiuse virgolette). Le conclusioni del Rapporto Dulbecco ricalcano, per fortuna, l'approccio laico e liberale che ha spinto già molti mesi fa il
governo laburista britannico di Tony Blair e l'amministrazione democratica americana guidata all'epoca da Bill Clinton (nonché altri governi occidentali, via via) ad autorizzare la sperimentazioni sugli embrioni crioconservati e la clonazione a scopo terapeutico.
E in Italia? La nostra ricerca é già in ritardo di oltre sei mesi. Ma nemmeno l'ipotesi, ormai verosimile, di salvare centinaia di migliaia di vite umane riesce a incrinare le certezze della Chiesa e dei "proibizionisti", di coloro cioé i quali, in nome di precetti e valori dell'etica cattolica dicono no alla sperimentazione e no alla clonazione. Perché, sostengono, l'embrione é già una forma di vita umana e come tale va rispettata.
Per noi é già difficile capire perché sia più rispettoso verso l'embrione gettarlo nella spazzatura anziché portarlo in laboratorio. Ma ancor più difficile ci riesce - forse per ottusità laica - seguire l'itinerario logico ed etico di chi, in nome della sacralità della vita, si strappa le vesti per l'embrione ma poi, potendo strappare milioni di vite alla sofferenza e alla morte, non muove un dito e volge lo sguardo altrove. Contribuendo, in definitiva, a dividere gli ammalati fra quelli che, disposti a peccare e dotati dei mezzi necessari, andranno a cercare la guarigione all'estero; e quelli che, essendo il loro reddito insufficiente, continueranno a soffrire e morire in patria, ma astenendosi dal peccare.
La pillola abortiva
Stiamo parlando della "RU 486", di un farmaco scoperto in Francia negli anni Ottanta, in circolazione in 12 dei 15 paesi dell'Unione europea (fanno eccezione, con l'Italia, Portogallo, Irlanda e Lussemburgo) nonché la Svizzera, e che ha già consentito a centinaia di migliaia di donne non solo di interrompere la gravidanza entro la nona settimana, ma di farlo senza ricorrere al chirurgo, riducendo al minimo la sofferenza fisica e quella psicologica. Il trattamento consiste nell'ingestione di due pillole, a distanza di 48 ore una dall'altra.
Benissimo. Nulla dovrebbe impedire la circolazione di questo farmaco in un paese come il nostro dove da anni, grazie a una battaglia di civiltà, durissima, che non é il caso di rievocare, l'aborto é legale. Tanto più che la legge che regola l'interruzione di gravidanza, la 194, esplicitamente raccomanda la promozione (cito) "delle tecniche più moderne, più rispettose dell'integralità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione di gravidanza" (fine della citazione)
Questo preambolo per spiegare la sorpresa dei laici, anche in questo caso, di fronte alla chiusura nettamente proibizionista della Chiesa, dei politici clericali e persino di alcune categorie professionali, farmacisti inclusi. Di quelle stesse forze che volevano l'aborto rimanesse clandestino, che vorrebbero ritornasse ad essere un reato, ma che sanno di avere contro la maggioranza degli italiani. (Non fu Berlusconi in persona a dire ai suoi "non parlate di aborto e divorzio in campagna elettorale"?) Con quali argomenti si vuole proibire ora la "RU 486"? Con uno su tutti, che fa orrore a qualsiasi donna: che la "pillola del giorno dopo" banalizza l'aborto e rischia di moltiplicarne la pratica. Chi pensa che l'interruzione della gravidanza - in qualsiasi circostanza essa avvenga - possa costituire un "fatto banale" nella vita di una donna, non sa quello che dice. E non conosce le statistiche dei paesi che ammettono l'uso della "RU 486" - sempre sotto controllo medico - e nei quali il numero degli aborti, anzi
ché salire, é lievemente diminuito.
Conclusione: prende corpo, inesorabilmente, un mercato nero della "pillola del giorno dopo", che come quello delle droghe pesanti, si svolge senza regole: controlli sui prezzi e senza garanzie per la salute di chi ne fa uso. A questo mercato nero vogliamo strappare le donne italiane.
L'eutanasia
Mi sembra già di sentirli i nostri avversari, quelli che ci accusano di propagandare "la cultura della morte". Non i credenti veri, che meritano rispetto, quanto la gerarchia ecclesiastica e soprattutto i sepolcri imbiancati, i cattolici a scopo elettorale - i leghisti che si travestono da ascari del Vaticano per disseminare meglio la loro cultura dell'odio e dell'intolleranza. A costoro ha già risposto lapidariamente Indro Montanelli, annunciando il suo sostegno alla nostra proposta di legge per la regolamentazione della cosiddetta "interruzione volontaria della propria sopravvivenza", che si ispira al modello già adottato da una delle due camere del parlamento olandese. Dice Montanelli (Cito)"Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte, il diritto di scegliere il quando e il come della nostra morte. I cristiani dicono che la sofferenza eleva lo spirito. Per me la sofferenza fa male e ne ho paura, mentre non ho paura della morte." (fine della citazione)
Gli olandesi hanno affrontato la questione eutanasia molto pragmaticamente, spinti non già dal desiderio di far prevalere alcuni principi etici rispetto ad altri ma dalla necessità per il legislatore di fissare criteri rigidi e trasparenti per regolare il "conflitto" che sorge sempre più spesso fra i medici - che sentono l'obbligo di applicare tecniche sempre più avanzate per prolungare la vita, anche degli ammalati più gravi - e quei pazienti che, volendo porre fine a sofferenze ritenute inutili, rivendicano il diritto di sottrarsi alle cure, anche scegliendo liberamente di morire.
Non a caso l'obiettivo dichiarato della legge olandese é quello di definire le circostanze nelle quali il medico può assecondare, senza essere più punibile, la volontà del malato di terminare la vita.
Questi criteri, ampiamente condivisibili sono i seguenti: accertare che il paziente esprima la propria scelta coscientemente e liberamente; accertare, insieme a un medico indipendente, l'irreversibilità del male e il livello di sofferenza; assicurarsi che la terminazione della vita sia eseguita "accuratamente sotto il profilo medico".
A questi criteri i nostri amici di EXIT, l'Associazione italiana per il diritto a una morte dignitosa, insieme ai quali abbiamo avviato questa battaglia, aggiungono la questione non irrilevante della dignità della persona, diritto fondamentale sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. E non si vede davvero perché la stessa persona che ha goduto del diritto alla dignità fin dalla nascita debba perdere tale diritto al momento di concludere la vita.
La mucca pazza e il nostro rapporto con l'Europa
A ben vedere anche l'andamento della crisi mucca pazza - intendo dire l'attuale incontrollabilità della crisi - é dipeso in buona parte dall'incomunicabilità fra scienza e politica. Ripetutamente chiamata in causa nelle ultime settimane quale "persona a conoscenza dei fatti" - in quanto primo commissario europeo responsabile della "sicurezza alimentare" fin dai primi mesi del '97 - ho detto e ripetuto che se i dirigenti politici europei avessero prestato orecchio per tempo ai dubbi e ai consigli dei comitati scientifici dell'Unione, avremmo anticipato di tre o quattro anni l'adozione di misure e strategie (impopolari, certo e anche costose) con cui solo in questi mesi prendiamo finalmente di petto l'epidemia della BSE e la possibile trasmissione di questa malattia all'uomo. Badate, io non sono allarmista e non penso che questa crisi sia la porta dell'Apocalisse. Fin dall'inizio considero questa della mucca pazza come una emergenza che l'Europa é assolutamente in grado di governare, a una sola condizione: che
i nostri governanti pongano il diritto dei cittadini-consumatori alla salute sullo stesso piano della iper-produttività agricola, di cui la mucca che diventa carnivora é solo uno dei tanti frutti avvelenati. Si tratta, me ne rendo conto, per l'Italia e per l'Europa di una rivoluzione copernicana.
Ma é in politica raramente un cambiamento autentico é possibile se non é dettato da una qualche necessità di cambiare, da una qualche emergenza. Anche per questo non dovrebbe essere difficile mantenere i nervi saldi di fronte a questa crisi: perché se é vero che essa nell'immediato può costare un prezzo altissimo a quasi tutti i paesi dell'Unione europea, é altrettanto vero che in prospettiva essa potrebbe anche risultare un trauma salutare, il big bang che potrebbe innescare un rivoluzionamento della "Politica agricola comune", da mezzo secolo struttura portante del bilancio comunitario, l'implacabile moloc che finisce per condizionare tutte le strategie politiche, economiche e commerciali dell'Unione.
Una controprova recentissima di quello che dico é l'insabbiamento toccato a una coraggiosa proposta del francese Pascal Lamy, il commissario europeo responsabile del Commercio, destinata ad aiutare il gruppo di paesi classificati come "i meno sviluppati" del mondo. La proposta di Lamy é che l'Unione europea abolisca unilateralmente ogni sorta di barriera alle importazioni provenienti da questi paesi, per dare sollievo alle loro economie e stimolarne la crescita. L'idea di Lamy si fonda su tre considerazioni preliminari:
il dovere morale e l'interesse concreto dei paesi più ricchi ad aiutare lo sviluppo di quelli più poveri;
l'inopportunità di perseguire la via del condono unilaterale del debito perché questa misura favorisce più le elites al potere che non le popolazioni o le forze produttive dei paesi in questione;
la consonanza della misura proposta con la proclamata vocazione dell'Unione europea a promuovere la liberalizzazione generalizzata degli scambi.
Perché la proposta di Lamy viene insabbiata? In buona sostanza, perché essa è incompatibile con gli imperativi commerciali dettati dalla "politica agricola comune". Mi spiego: vero è che l'Europa dei 15 investe, talvolta a fondo perduto, miliardi di euro in progetti bilaterali detti "cooperazione allo sviluppo", e nel "Fondo europeo di sviluppo", cassaforte degli accordi che legano Bruxelles agli oltre 70 paesi in via di sviluppo inclusi sotto la sigla ACP, Africa, Caraibi e Pacifico.
Ma è altrettanto vero che l'impianto dei sussidi all'agricoltura comunitaria, fondato sull'artificioso sostegno ai prezzi di prodotti (come agrumi, pomodori, fiori eccetera) che i nostri partner ACP producono a costi molto più bassi, impedisce all'Unione europea di assecondare Lamy e prendere in considerazione un innalzamento - sia pure modesto - delle quote di mercato assegnate alle produzioni extra-comunitarie. Anche quando i consumatori potrebbero avere prodotti migliori e/o meno cari. Incomincio a pensare che la politica agricola comune sia come l'Unione sovietica prima del 1989: se cerchi di riformarla crolla giù tutto.
La proposta di Lamy, ancorché insabbiata, contiene un paio di messaggi fondamentali per i dirigenti e i cittadini europei:
ci ricorda che il nostro protezionismo in campo agricolo, non appena si apriranno i nuovi negoziati in seno all'Organizzazione mondiale del commercio, sarà messo sul banco degli accusati, sia dai nostri partner industrializzati sia da quelli in via di sviluppo; - mette in mostra l'incoerenza e l'ipocrisia finto-liberale che si nascondono dietro una certa visione corrente in Europa e che definirei della "globalizzazione asimmetrica". Porte spalancate in tutto il mondo per i nostri prodotti e capitali, ma porte socchiuse da noi per tutto quello che viene da fuori: dai pomodori agli immigrati. Senza contare i dannosi effetti collaterali che questa visione a senso unico della globalizzazione comporta, distorcendo la percezione della realtà. Basta pensare al nord Italia dove abbiamo padani in camicia verde che si illudono di fermare l'immigrazione, magari distruggendo le moschee, e padani con responsabilità produttive piccole e grandi (vestiti come gli pare) che invocano nuovi immigrati per poter lavorare e chied
ono allo Stato di gestire gli aspetti sociali di questo fenomeno.
L'uranio impoverito resuscita il cretino di sinistra
Dobbiamo forse ripensare il nostro rapporto con l'Europa, le cui decisioni abbiamo sempre subito con entusiasmo, senza mai lasciare il segno di un nostro contributo originale. E i nostri governanti dovrebbero imparare ad assumere in proprio le decisioni giuste ma impopolari, che hanno invece l'abitudine di addebitare all'Europa matrigna "per non pagare il dazio". Come é successo per le misure di austerità (chi non ricorda la brillante idea della cosiddetta "tassa sull'Europa"?) quand'era chiaro che di quella manovra l'Italia aveva un disperato bisogno, a prescindere dai criteri di convergenza comunitari. Così si é cercato di fare con la crisi della mucca pazza, crisi che - se non ci fossero state le istituzioni europee - non avremmo nemmeno cominciato ad affrontare.
Ma dobbiamo ripensare anche il nostro rapporto con la Nato, visto quel che é successo con la questione dell'uranio impoverito, desolante psicodramma ad uso elettorale in cui é ricomparsa la vecchia maschera del cretino di sinistra. Mi guardo bene dal ricostruire la vicenda per intero. Mi limiterò a ricordare i fiumi d'inchiostro dedicati alla pretesa che l'Italia, che é parte integrante della Nato e ha suoi uomini ai vertici dell'organizzazione, protestasse perché i generali Nato (cioé nostri) hanno fatto uso di armi e munizioni il cui uso é autorizzato dalle norme internazionali, che stanno negli arsenali italiani e il cui legame con la leucemia ed altre malattie é ancora da dimostrare.
Ebbene, quando tutto ciò é diventato chiaro (ma ce n'é voluto) ed é svanito il presunto contenzioso fra l'Italia e la Nato, allora é entrato in scena il cretino di sinistra, che a difesa dell'insensata (perché unilaterale) moratoria sull'uso del plutonio impoverito ha partorito un'idea di sublime demenzialità: trasferire il principio di precauzione dal mondo dell'alimentazione a quello della guerra.
Badate, io non voglio scherzare né con la vita dei militari né con il rischio delle radiazioni, quando c'é. Ma l'idea che un qualunque strumento di guerra convenzionale venga definito "nocivo" per l'essere umano e per l'ambiente, immagino per distinguerlo da bombe che abbelliscono il paesaggio o da munizioni che mandano via le rughe, mi sembra davvero troppo. L'allergia della sinistra cattocomunista all'Alleanza atlantica, cui dobbiamo la nostra libertà, gioca davvero brutti scherzi. E mi spinge a chiedermi se l'Italia non sia davvero strutturalmente inadatta a far parte di qualsiasi club di nazioni.
Attualità della rivoluzione liberale
Ritorno in chiusura, come mi ero ripromessa di fare, alle cose italiane e alla nostra battaglia referendaria per le libertà economiche, che noi siamo i soli a considerare indivisibili da quelle civili.
L'ho detto a Chianciano e lo ripeto qui. Non voglio versare altre lacrime sui referendum perduti, ma questo non mi impedisce di ricordare a noi e ai simpatizzanti delle due grandi coalizioni, unite nell'affossare la nostra iniziativa, l'immutata necessità che le istituzioni e l'economia del nostro paese hanno di una "spallata liberale".
Gli ultimi dati Istat sull'occupazione dicono che nel 2000 ci sono stati circa 600.000 nuovi posti di lavoro di cui oltre i due terzi grazie ai contratti flessibili - tempo determinato, part time, lavoro interinale- che hanno consentito soprattutto a giovani e donne, più al sud che al nord, di trovare occupazione. Morale: la nostra tesi "referendaria" che la flessibilità del mercato del lavoro avvantaggia le categorie più deboli (disoccupati, ovviamente, giovani, donne e persone che vivono al sud) si rivela azzeccata.Con buona pace di Cofferati e Salvi, se avesse vinto la linea referendaria, di seria e coraggiosa liberalizzazione del mercato del lavoro, i nuovi posti di lavoro potrebbero oggi essere il doppio. Che non sarebbe male visto che abbiamo ancora una disoccupazione nazionale del 10%.(A proposito di Cofferati, c'è una cosa che voglio dire, dal momento che non mi sono dimenticata l'accusa di barbarie che mi ha rivolto durante la campagna referendaria. Nelle scorse settimane, come gli ascoltatori di R
adio Radicale sapranno, il nostro amico Luigi Castiglione ha vinto la sua causa con la CGIL abruzzese: il giudice ha sentenziato che il suo licenziamento era illegittimo. Bene, la CGIL, dopo aver scritto nella sua memoria - nero su bianco - che alla CGIL lo statuto dei lavoratori (art. 18) non si applica per la nota legge sulle associazioni "di tendenza", ha scritto a Castiglioni che non lo riassumerà ma gli verserà una indennità di sei mensilità. Non sarà un po' barbaro anche lei, caro Cofferati?)
La verità è che le forze conservatrici della sinistra sindacale, ma anche quelle della destra sociale e corporativa, continuano programmaticamente a difendere gli interessi acquisiti di alcuni - spesso di pochissimi - contro l'interesse degli outsider che chiedono più libertà e responsabilità. Sul lavoro, sugli ordini professionali, sulle pensioni.
Pensioni
Il ministro Cesare Salvi ha fatto un paio di settimane fa in materia di pensioni un annuncio che ha del clamoroso. Sarà il prossimo esecutivo, ha detto, a occuparsi dell'andamento delle pensioni. Poco importa sapere se Salvi è rassegnato a una sconfitta elettorale o addirittura la auspichi: la cosa che preoccupa è che il ministro incarica del Lavoro adotti in materia di pensioni, formalmente e alla luce del sole, la politica dello struzzo.
Di fronte ai dati che sempre più inchiodano il sistema previdenziale italiano all'insostenibilità finanziaria e alla iniquità nei confronti dei giovani, dopo anni di proclami, di interviste e di "appuntamento al 2001" oggi Salvi mette definitivamente la testa nella sabbia e rinuncia ad affrontare la questione. Rinviare al prossimo esecutivo la necessaria riforma è un atto di irresponsabilità e di pavidità da parte di un esecutivo che pure vorrebbe dimostrare di esistere ancora.
Aspettiamo proposte dall'Ulivo così come della Casa delle Libertà sulle pensioni, se avranno il coraggio di farne. Da parte nostra ribadiamo la necessità e l'urgenza dell'innalzamento dell'età pensionabile, dell'abolizione delle pensioni di anzianità e della transizione ad un sistema a capitalizzazione anche per la previdenza obbligatoria. Solo così si potrà disinnescare la mina del debito pensionistico, favorire l'impiego produttivo dell'ingente risparmio previdenziale e ripristinare un equilibrio decente tra le varie generazioni di lavoratori e pensionati.
Nord, Sud, immigrati e sussidi
I dati sono chiarissimi, al nord mancano lavoratori. Solo a Brescia ne servono quasi 10.000 e in tutto il nord circa 200.000. Due cosa bisogna dire. Se queste aziende non trovano la manodopera finiranno per chiudere e per trasferirsi all'estero. Ci sono due strade che vanno perseguite contemporaneamente. La prima è quella della immigrazione: con buona pace di Bossi, come ho già detto, le aziende della "sua" Padania chiedono ormai a gran voce più immigrati. E hanno ragione, perché una maggiore immigrazione è nell'interesse delle imprese, nell'interesse degli immigrati, ma anche dei lavoratori e dei disoccupati che rischiano di vedere aziende chiudere e interi settori trasferirsi all'Est se non vi saranno innesti di manodopera straniera, specie per le basse qualifiche. E se le aziende chiudono, può darsi che gli immigrati se ne vadano, ma avremo in compenso più italiani disoccupati e con poche speranze.Poi c'è la questione dei lavoratori, anzi dei disoccupati, meridionali che non si vogliono trasferire al nord
. Un primo problema è la casa: dopo decenni di equo canone il mercato della casa in affitto in italia è distrutto. L'equo canone è un po' come l'articolo 18, se tu avevi un inquilino regolare il padrone diventava lui: affitti bassissimi e impossibilità di riottenere la casa. Morale, i fortunati hanno goduto di case quasi gratis, agli altri un mercato "nero" - per fortuna che c'era - a costi altissimi. Più mercato per gli affitti faciliterebbe la mobilità. E' stata fatta una nuova legge, ma anche questa è troppo timida e contradditoria.Poi ci sono i sussidi di disoccupazione: in Italia tu puoi rifiutare un lavoro perchè te lo offrono "lontano", cioè a 51km da casa tua. E conservi il sussidio di disoccupazione, se sei tra i fortunati che ce l'hanno. Ci vorrebbe invece un sussidio per tutti i disoccupati ma con il vincolo che se rifiuti un lavoro perdi il sussidio.Poi ci sono i salari bassi. Vero, ma quanto è il "lordo", il costo per le aziende: il doppio. Il nostro referendum sul sostituto di imposta serviva
proprio a denunciare questo. Meno tasse e meno contributi - per le pensioni ad esempio - consentiranno di avere più soldi per i lavoratori.Infine il mercato del lavoro. A fatica e con il freno a mano tirato - dai soliti Salvi e Cofferati - qualche passettino in avanti sulla flessibilità si sta faticosamente facendo. Ci si lamenta che però ora i contratti offerti ai disoccupati sono "precari" e che nessuno offre più lavoro a tempo indeterminato, il posto fisso per intenderci. Ribadito che i contratti flessibili sono sacrosanti e ce ne dovrebbero essere di più, è vero che oggi è difficilissimo che un'azienda assuma con un contratto a tempo determinato. Ma questo è quello che noi abbiamo denunciato con tutte le nostre forze nella campagna sull'articolo 18. Garantire alle aziende che se necessario, anche pagando un forte indennizzo, potranno licenziare, significa consentire loro di assumere a tempo indeterminato. E questo spingerebbe i disoccupati meridionali a spostarsi. Se Cofferati non fosse così forte nella
difesa dei suoi iscritti - lavoratori del pubblico impiego o tutelati dall'articolo 18 (i disoccupati iscritti alla CGIL sono 50.000 in tutto) - il mercato troverebbe un suo diverso equilibrio, fisiologico, tra lavori "precari" e lavori stabili.In Spagna stava accadendo una cosa simile ed il sindacato ha accettato di rivedere la disciplina del lavoro a tempo indeterminato (e non avevano neppure l'articolo 18).Per non parlare del collocamento. Il fallimento totale del collocamento pubblico non è stato superato da una vera liberalizzazione. Le agenzie private di collocamento - vedi referendum bocciato dalla Consulta - incontrano sono vincoli ed ostacoli.Come rispondono Salvi e Cofferati? Che bisogna spostare le fabbriche al sud. E' sempre il riflesso statalista, dirigista. Magari pensano anche di offrire nuovi sussidi alle imprese che si trasferiscono, le quali prenderanno i sussidi e poi, finiti, quelli torneranno al nord o andranno all'estero.Bisogna creare le condizioni per cui le aziende vadano spontaneam
ente al sud, ad esempio facendo in modo che non vi sia un solo contratto di lavoro per il Nord e al Sud, ma che i contratti siano stipulati al livello territoriale e aziendale, non come oggi. Se, come si dice, 2 milioni al nord per un giovane calabrese sono pochi, probabilmente 1 milione e seicentomila accanto a casa sua diventano interessanti, almeno per cominciare. Può non piacere, ma è così. Chi lo nega fa demagogia.
Berlusconi non è la signora Thatcher
Chiedere più mercato non significa fare la mosca cocchiera della Confindustria, perchè chiedere più mercato significa anche chiedere che in Italia vengano drasticamente tagliati gli aiuti di stato al sistema delle imprese, di cui l'Italia detiene il record europeo. Meno tasse, ma anche meno aiuti di stato. Lo ripeteremo fino alla nausea: l'economia italiana ha bisogno di una svolta liberista.
Potrà questa svolta venire dal Governo Berlusconi? Berlusconi ha detto a Berlino - tra l'altro - che lui vuole governare 10 anni per riformare il paese secondo il suo modello, ovverosia quello della signora Thatcher. Quando dice questo, Berlusconi sembra consapevole che il modello italiano non può essere quello spagnolo, cioè di confronto serrato ma non di scontro con il sindacato, bensì quello inglese dove - dovendo rivoluzionare un assetto dell'economia ormai corrotto dalla burocrazia, dallo statalismo e dall'invadenza prepotente dei sindacati - la leader conservatrice cercò e vinse uno scontro sociale dal quale è scaturita una stagione di riforme, di cui oggi gli inglesi ancora godono i frutti, per altro ben amministrati dal governo di sinistra di Blair che ben si guarda dal mettere in discussione il thatcherismo.Berlusconi ha ragione: in Italia il riformismo, il gradualismo, non porteranno lontano, come non hanno portato in questi anni di governo ulivista. Si è riusciti a fare il minimo indispensabile,
ciò che non si poteva evitare per rispettare i vincoli europei, ma non si è fatto quello scatto in avanti necessario a recuperare terreno nei confronti dei partner più competitivi.
Purtroppo è assai improbabile che questa svolta riformatrice possa venire da quello stesso Berlusconi che lo scorso maggio ha affossato i referendum, compreso quello sull'articolo 18, senza capire che quella era l'occasione, la premessa per una vera svolta thatcheriana. Ora, se anche volesse, dovrebbe fare i conti con il sindacato più forte e conservatore d'Europa, e per di più ringalluzzito dal naufragio dei referendum. E siccome ha una paura pazzesca di fare mosse sbagliate, non parla nemmeno più di mercato del lavoro e di pensioni - temi centrali ma sgraditi al sindacato. E se non si discute di questo, che c'entra la Thatcher?E poi c'è il feeling di Berlusconi con D'Antoni, il campione di quella concertazione che negli anni '90 ha paralizzato le riforme sul lavoro, sulle pensioni e sulla spesa pubblica ( per cui abbiamo ormai il record assoluto europeo di rapporto tra debito e PIL, oltre il 110%). E poi ci sono Rosso e Martuscello - tra l'altro candidati sindaci, probabili, a Torino e Napoli - e la loro
economia sociale di mercato e il loro riferirsi alla dottrina sociale della Chiesa. Insomma, temo che di thatcherismo - ovviamente riveduto, corretto ed aggiornato - ne vedremo poco con Berlusconi.
La sola cosa certa è che i radicali eletti si batteranno per tutte le libertà e sosterranno le riforme economiche liberiste, se mai qualcuno le proporrà.
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