"ITALIA ATTENTA, E' TEMPO DI ESAMI"
Brittan: le scadenze di Maastricht incalzano
La Stampa, 25 agosto 1994
intervista di Sergio Romano a Leon Brittan
Gli italiani non se ne accorgono, ma il ticchettio dell'orologio di Maastricht continua a scandire le ore dell'Europa. Distratti dai problemi di casa ci siamo dimenticati di avere firmato, nel febbraio del 1992, un trattato che prevede la creazione di una moneta unica, governata da una banca europea, e fissa per la nascita dell'Unione economico-monetaria due scadenze alternative: 1· gennaio 1997 e 1· gennaio 1999. Costituiranno l'Unione, secondo il trattato, i Paesi che avranno quattro requisiti: il deficit pubblico annuo non potrà eccedere il 3% del pil, il debito pubblico non potrà superare il 60% del pil, il tasso d'inflazione non potrà superare di più del' 1,5% quello dei tre Paesi meno inflazionisti, il tasso d'interesse a lungo termine potrà superare di più del 2% il tasso medio degli stessi tre Paesi.
Con un debito pubblico pari al 120% del pil e un deficit che si aggira intorno all'11%, l'ltalia parte da lontano. Se non avrà messo a posto i suoi conti prima della fine del 1998, andremo in serie B, insieme alla Grecia e al Portogallo. Come disse Mario Monti qualche mese fa, a un convegno d'industriali, la Corsica finira nel girone della Baviera, la Lombardia in quello del Pireo.
Ma accanto al problema italiano vi sono per l'Europa altri problemi, ancor più intricati. Stiamo cercando di creare un'Unione economico-monetaria, ma abbiamo aperto le porte della Comunità a quattro nuovi Paesi europei e stiamo negoziando l'adesione di altri cinque. Riusciremo a conciliare "approfondimento" e "allargamento"? Riusciremo a evitare che l'Europa diventi una Dieta polacca in cui due o tre Paesi possono bloccare con il loro veto le decisioni della maggioranza? E ancora: riusciremo a sostenere la concorrenza del Nafta (l'associazione di libero scambio fra Stati Uniti Canada e Messico) che Clinton é riuscito a fare ratificare dal Congresso negli scorsi mesi? Fino a che punto potremo sostenere il confronto con economie come quelle dell'Asia meridionale in cui la mano d'opera costa un decimo della nostra?
Ho rivolto queste domande a Leon Brittan, "ministro" dell'Unione per i suoi rapporti economici e commerciali con il resto del mondo. Brittan è un paradosso. E' stato ministro degli Interni nel governo della signora Thatcher, quindi collaboratore del leader europeo che ha maggiormente intralciato negli scorsi anni la strada dell'integrazione. Ma a Bruxelles ha dato prova di una impeccabile ortodossia comunitaria. Quando fu commissario alla concorrenza, fino a due anni fa, difese le regole del mercato con l'ostinazione di un bulldog e dette qualche memorabile morso nelle gambe del governo italiano. Come responsabile dei rapporti commerciali dell'Unione ha negoziato l'ultima fase dell'accordo Gatt e tenuto testa brillantemente alla durezza del negoziatore americano. Se non fosse inglese - e quindi, per definizione, in odore di antieuropeismo - nulla gli avrebbe impedito di succedere a Jaques Delors nella carica di presidente della Commissione. Ecco la nostra conversazione.
D. Il trattato di Maastricht è stato criticato, contestato e finalmente ratificato, in molti Paesi, con maggioranze modeste. Vi saranno pressioni per modificare i criteri di passaggio all'Unione economico-monetaria e il calendario previsto per la nascita dell'Unione. Che cosa accadrà?
R. Pressioni ve ne saranno, ma spero e credo che riusciremo a resistere. La prima scadenza, quella del 1997, passerà molto probabilmente con un nulla di fatto. Ma non vedo perché non possa esservi, alla fine del 1998, un numero di Paesi sufficiente per tenere a battesimo l'Unione economico-monetaria. Qualcuno, probabilmente, cercherà di allontanare la seconda scadenza o di attenuare i criteri per l'"esame di passaggio". Il miglior argomento contro tali tentativi è quello tedesco. Se i criteri di ammissione all'Unione divenissero meno rigorosi di quelli definiti a Maastricht, una buona parte della Germania non ci starebbe perché vedrebbe nel "lassismo" una violazione dei principi di rigore monetario che hanno fatto la forza del marco. E senza la germania l'Unione monetaria non si fa. No, meglio lasciare il trattato com'è: la prospettiva del 1999 eserciterà una forte pressione politica sui Paesi membri, li costringerà a darsi da fare per mettere in ordine i propri conti. E poi non dimentichiamo che il trattato
di Maastricht consente un certo margine di flessibilità nel valutare i criteri di ammissione e che vi è spazio per un giudizio discrezionale.
D. Nonostante le critiche e i malumori lei resta quindi fondamentalmente ottimista.
R. Il mio ottimismo si fonda su una considerazione. Nessuno contesta le regole dell'Unione e i suoi meriti. Persino la Gran Bretagna, quando uscì dal sistema monetario, dichiarò che avrebbe continuato a seguire molto seriamente le linee direttive della disciplina monetaria fissata a Maastricht. E così è accaduto. Sono saltate, sulla carta, le bande strette del sistema monetario, ma tutti si comportano di fatto come se fossero sempre valide.
D. Vi sarà una pressione sui Paesi ritardatari soltanto se i due maggiori Paesi dell'Unione - Francia e Germania - continueranno a battersi perché il trattato venga rispettato. Ma la Germania voterà in ottobre per il rinnovo del Bundestag e la Francia voterà nella primavera del 1995 per l'elezione del Presidente della Repubblica. Molto, quindi, dipende dal risultato delle due elezioni.
R. Finché Kohl sarà al potere la Germania farà una forte politica europea. In Francai esistono tendenze contrarie in ambedue le coalizioni, quella di destra e quella di sinistra. Ma non credo che possano o vogliano ribaltare la politica europea del loro Paese.
D. Quali Paesi potrebbero essere pronti per la scadenza del 1999?
R. Naturalmente lei pensa all'Italia. Mi rendo conto di quanto sia difficile, per l'Italia, realizzare le condizioni previste dal trattato, ma non vedo perché non debba fare, in cinque anni, grandi progressi. Certo vorremmo tutti che l'Italia, uno dei sei Paesi fondatori, fosse sin dal primo giorno nel gruppo dei partenti. Ma quel che conta, anche nell'interesse dell'Italia, è che l'Unione decolli. E quanto più chiara sarà tale prospettiva tanto più forte sarà l'impegno del Paese e della sua classe politica.
D. Nel 1996 si terrà una conferenza intergovernativa sul futuro istituzionale dell'Unione. Che cosa si attende personalmente da tale conferenza?
R. Spero che la conferenza affronti i problemi istituzionali e organizzativi da cui dipende in ultima analisi l'allargamento dell'Unione: i poteri del Consiglio, della Commissione, del Parlamento e le procedure di voto. Il trattato di Maastricht purtroppo si è limitato a registrare su questi punti soltanto consenso e buona volontà. Se non faremo chiarezza su questi grandi temi non potremo affrontare il problema dell'allargamento, per il quale abbiamoassunto ormai un impegno storico.
D. Allargamento, d'accordo. Ma fino a dove?
R. Fino a includere tutti i paesi con cui abbiamo firmato accordi d'associazione: Polonia, la Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania. Occorrerà procedere per tappe. Dopo la fase dell'assistenza e degli aiuti al commercio, già iniziata, occorrerà creare un grande spazio economico europeo in cui i Paesi candidati possano recepire gradualmente le regole della libera concorrenza. Più in là porremmo il problema dei Paesi baltici con cui abbiamo già siglato i primi accordi. Poi verrà il momento della Slovenia e in un momento successivo quello della Croazia. Ma occorre anzitutto dare all'Unione nuove regole costituzionali affinché nessuno possa usare il problema dell'allargamento come pretesto per diluire la Comunità.
D. Prima o dopo alcuni Paesi dell'Europa centrorientale entreranno a far parte dell'Unione e avranno il diritto di esportare sui nostri mercati la loro produzione industriale. E questo accadrà verosimilmente in una fase in cui le nostre società continueranno a essere caratterizzate da una forte disoccupazione strutturale. Non corriamo il rischio di perdere industrie e lavoro?
R. Occorre ricordare, anzitutto, che abbiamo con quei Paesi, e che avremo ancor più col passare del tempo, una bilancia commerciale fortemente attiva. Certo esiste in Europa una notevole disoccupazione strutturale. Ma il modo migliore di affrontarla non è quello di chiudere i nostri mercati all'esportazione dell'Europa centrale, danubiana e balcanica. Le buone terapie sono altre. Occorre anzitutto completare la normativa del mercato unico e lavorare affinché sorgano in Europa imprese e circuiti transnazionali. Il giorno in cui avremo abolito i monopoli di Stato e disporremo di grandi imprese europee, soprattutto nei settori trainanti delle comunicazioni e dell'informatica, saremo più forti sui mercati internazionali. Occorre poi far decollare l'Unione economico-monetaria da cui le imprese trarranno grandi vantaggi. Ne sono convinte persino le imprese inglesi. E occorre infine realizzare le condizioni dell'accordo Gatt sul commercio mondiale. Sono convinto che l'accordo gioverà all'Europa più di quanto non gi
ovi ad altri continenti.
D. Molti, tuttavia, sostengono che l'Europa è appesantita da un grave handicap: il welfare state più costoso del mondo.
R. La prima cosa da fare è smetterla di continuare a appesantirlo. Occorre che chi ha un lavoro si renda conto di avere una responsabilità verso chi non l'ha.
D. Ha l'impressione che i sindacati comincino a dare prova di buon senso?
R. Sono i governi che debbono dare prova di coraggio e chiarezza. Non ha senso stare al governo senza pensare al futuro. Occorre una grande campagna di educazione, e il libro bianco presentato un anno fa dalla Commissione dimostra che esiste, in proposito, un largo consenso.
D. Come affrontare su scala europea il problema delle pensioni?
R. Non mi spingo sino a sperare in un sistema pensionistico uniforme per l'intera Unione. Nulla vieta che ogni Paese affronti il problema delle pensioni secondo criteri nazionali. Come nulla vieta d'altro canto che ognuno realizzi nel proprio bilancio un diverso equilibrio tra spese e entrate. Ma la disciplina dell'Unione monetaria e le leggi della concorrenza spingeranno tutti i Paesi verso l'adozione di criteri pensionistici e fiscali tendenzialmente uniformi.
D. Proviamo a dare uno sguardo al futuro nella prospettiva dell'allargamento dell'Unione ai Paesi dell'Europa centrorientale. Quali saranno nel 2010 i Paesi agricoli dell'Unione? O, per meglio dire, ci sarà ancora spazio per l'agricoltura in Occidente dopo l'ingresso di Paesi tradizionalmente agricoli come quelli dell'Europa danubiana e balcanica?
R. In primo luogo non è detto che nel 2010 tutti i Paesi candidati siano già membri dell'Unione. In secondo luogo vi sono due problemi che restano per il momento insoluti e impregiudicati: quello della politica agricola comune e quello della politica regionale. Con i candidati non abbiamo parlato di politica agricola comune perché il mercato agricolo resta ancora protetto, e non abbiamo parlato di politica regionale perché se estendessimo ai candidati i benefici della politica regionale, rischieremmo la bancarotta.
D. Che rapporti avremo con la Russia?
R. A Corfù abbiamo firmato con i russi un accordo di partenariato e cooperazioen, e Eltsin stesso, dopo la firma dell'accordo, ha dichairato che la Russia vuole avere con l'Unione un rapporto forte. L'Unione europea e la Russia saranno partner commerciali: per il momento questo è tutto.
D. Quali effetti avrà l'esistenza del Nafta sulle esportazioni dell'Europa verso l'America del Nord?
R. Abbiamo fatto presente agli americani la nostra speranza che i Paesi del Nafta, nell'abbassare le barriere commerciali interne, non aumentino quelle esterne. Non posso escludere una certa distorsione dei traffici, ma credo che sarà largamente compensata dalla crescita del mercato messicano.
D. Che cosa raccomanderebbe al governo italiano per arrivare con i conti in ordine alla scadenza del 1999?
R. Quando ero commissario alla Concorrenza, sino a due anni fa, il 28% del deficit italiano era rappresentato da sussidi alle industrie. Quello dei sussidi e delle spese per il settore pubblico è il campo in cui occorre intervenire. Cercherei di ridurre drasticamente i sussidi e di continuare la politica delle privatizzazioni.
D. E la sicurezza sociale?
R. E' un problema interno su cui è meglio che gli estranei non mettano bocca.