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Conferenza Federalismo
Partito Radicale Olivier - 17 gennaio 1995
1996: quali riforme?

In vista della conferenza intergovernativa del 1996 tutta una serie di proposte, miranti alla riforma o alla contro-riforma delle istituzioni europee, prendono corpo.

Così Giscard d'Estaing propone di incentrare il rilancio del processo d'integrazione intorno alla realizzazione dell'Unione monetaria. Questa Europa, ch'egli battezza "Europa-potenza", sarebbe un'unione aperta immediatamente a coloro che possono e successivamente a coloro che vogliono farne parte (Germania, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo più Italia, Spagna e l'uno o l'altro dei nuovi aderenti). Essa si opporrebbe a una "Europa-spazio" aperta, quest'ultima, a tutto il continente ma limitata, nell'essenziale, ad uno spazio di libero scambio.

Se l'impostazione di Giscard d'Estaing da propria l'idea di un nucleo duro, ovvero della possibilità per un gruppo di paesi di andare avanti senza essere bloccati dal più lento o da chi non vuole progredire, ha un grosso limite, quello di basarsi su un'archittetura di tipo prevalentemente "intergovernativo" (contrariamente a ciò che può lasciare intendere il titolo del suo articolo "manifesto per una nuova Europa federativa") di questa "Europa-potenza", che egli auspica. E', in effetti, attorno ad un Consiglio dei ministri dell'Unione monetaria, ad un Consiglio politico dell'Unione monetaria composto dai capi di governo dell'Unione e da una Commissione parlamentare composta da membri dei Parlamenti nazionali, che egli organizza questa Europa a "vocazione federativa".

Klaus Kinkel e Alain Juppé evocano, da parte loro, numerose iniziative, in corso o a venire, in favore dell'integrazione europea ... guardandosi bene dal sottolineare che la maggior parte di queste si sviluppano fuori dal quadro istituzionale dell'Unione europea. In effetti la libera circolazione delle persone si organizza all'interno di una struttura multilaterale (Schengen) quindi solo intergovernativa e comunque concepita per essere integrata nel III pilastro dell'UE, esso stesso intergovernativo; l'Eurocorps è una iniziativa franco-tedesca-belga-ibero-lussemburghese; il coordinamento delle marine è un'iniziativa franco-italo-spagnola; l'agenzia degli armamenti è franco-tedesca; la struttura di coordinamento dell'aviazione militare è franco-britannica ... Una centralità francese che si può difficilmente spiegare con i soli criteri geografici ...

Rimane che questo giro "panoramico" dei due ministri permette loro di evitare di affrontare un problema centrale, quello della governabilità dell'Unione, che non fanno che evocare quando dicono che: "L'Unione europea è una delle fondamenta più importanti di questo nuovo ordine di sicurezza in Europa. Essa non può assumere questa missione che se la capacità di decisione delle sue istituzioni viene mantenuta e rafforzata. La Francia e la Germania vogliono un'Unione che disponga di una capacità d'azione politica ...".

Una questione che i parlamentari CDU-CSU avevano anche posto in un documento pubblicato nel settembre scorso che aveva provocato un certo scalpore ma alla quale loro avevano dato una risposta precisa; nessuna "capacità di decisione", nessuna democrazia, nessuna trasparenza ... senza una riforma federale dell'Europa. Così secondo loro "le riforme devono tendere verso una nuova concezione della ponderazione delle istituzioni, conferendo progressivamente al Parlamento il carattere di organo legislativo ad uguaglianza di diritto con il Consiglio; quest'ultimo essendo chiamato ad assumere, accanto ad altri compiti per di più di natura intergovernativa, il ruolo di seconda Camera, vale a dire di Camera degli Stati, la Commissione esercitando gli attributi di un governo europeo."

Se questo richiamo di alcune delle prese di posizione che hanno seguito il rilancio del dibattito provocato dalla pubblicazione del "documento CDU-CSU" non lo riassume, rimane che le reazioni, molte di essere francesi, (all'eccezione dei britannici che hanno ribadito le loro conosciutissime posizioni, le altre reazioni - degli spagnoli e degli italiani in particolare si sono soffermate quasi esclusivamente sulla questione di una loro possibile esclusione dal nucleo duro) dimostrano che su un punto quanto meno il documento tedesco è riuscito a chiarire un po' il dibattito e a mettere il dito sul punto di resistenza maggiore alla creazione di un'Europa federale. In effetti - con l'eccezione di Tapie, di Hory, dei radicali e di pochi altri - chi più, chi meno, da Balladur a Giscard, da Chirac a Chevènement, da Juppé a Rocard e a Lamassoure, tutti, messi nell'impossibilità di utilizzare l'alibi britannico, sono stati obbligati a scoprire la loro radicale comunione di veduta quanto alla necessità di continuare a

subordinare la costruzione europea agli interessi superiori della Francia, dimostrando la loro incapacità, la loro assenza di volontà o la loro opposizione irriducibile alla possibilità e alla necessità di far emergere un interesse superiore comune, europeo.

In un tale contesto, più ancora che di una "riformetta" la conferenza del 1996 rischia di partorire una vera contro-riforma. Non si vede in effetti come, rebus sic stantibus sul piano della mobilitazione dei cittadini europei, la Germania anche se raggiunta da un'Italia ritornata alla sua tradizione federalista europea, potrebbe opporsi ad un fronte comune "franco-britannico" che, d'altra parte, sta dando piena soddisfazione da tre anni a questa parte ai signori Milosevic, Karadgic e Mladic.

Occorre dunque dalle prossime settimane e prossimi mesi - a partire dal congresso del Partito radicale, transnazionale e transpartito, fine febbraio prossimo - fissare degli obiettivi per il 1996, definire una strategia e comprendere come, con chi e con quali mezzi possiamo attuarla.

Conferenza intergovernativa del 1996

1. Allargamento dell'Unione e adesione immediata della Bosnia

La questione dell'allargamento all'Est deve, per delle ragioni evidenti di sicurezza (ex Jugoslavia e Cecenia insegnano) e di consolidamento dei processi democratici, diventare una priorità politica dell'Unione e comprendere, di conseguenza, un calendario preciso. Questo allargamento deve coinvolgere, in particolare, tutti i paesi dell'Europa centrale e balcanica, a sole due condizioni: che s'applichi ai paesi democratici e che corrisponda a una volontà reale, da parte dei paesi candidati, di aderire al progetto di creazione di un'Europa federale, degli Stati Uniti d'Europa.

Questo calendario deve, per delle ragioni politiche fondamentali, soffrire una eccezione rilevante: la Bosnia-Erzegovina. L'Unione dovrebbe in effetti proporre alle autorità legittime di questa repubblica internazionalmente riconosciuta di avviare immediatamente le procedure che dovranno portare alla sua piena e completa adesione nel più breve tempo possibile. Non sono gli argomenti economici, largamente invocati per ritardare l'adesione dei paesi ex comunisti che possono avere qui una qualche importanza (una importanza del resto relativa da molti punti di vista, tra l'altro per la dimensione stessa di questo Paese e per il precedente costituito dalla adesione della ex Germania orientale). L'argomento centrale è senz'altro politico: "L'Europa muore o rinasce a Sarajevo". Solo, in effetti, una simile iniziativa da parte dell'Unione europea sarebbe in grado di costituire una rottura radicale con il ritorno febbrile ai vecchi riflessi di Monaco ed alle vecchie politiche "versaillesi" che hanno progressivamente

improntato, a partire dal Quay d'Orsay e dal Foreign Office, la quasi totalità dei più alti responsabili politici europei.

2. Creazione di una Corte costituzionale (federale) europea

Ma per fare in modo che l'ampliamento alle nazioni dell'Europa centrale e dell'Est possa effettivamente avere luogo in tempi relativamente brevi, bisogna darsi già da oggi gli strumenti per evitare che l'entrata di nuovi membri porti ad un blocco del funzionamento dell'Unione: anzi, è già perfino tardi: esistono 12 procedure decisionali diverse nell'attuale Unione a quindici, applicate a differenti settori secondo dei criteri a volte davvero bizzarri: tutte sono poco efficaci e poco democratiche: ed è facile, troppo facile che l'intero meccanismo si inceppi: le bizze di inglesi o danesi, la cattiva volontà di un commissario, le ripicche di italiani o spagnoli, le pressioni di politica interna su un presidente del Consiglio.... gli esempi si sprecano: finora si è evitata la crisi grazie a dei compromessi al ribasso, a degli opting-out, a delle eccezioni che stanno pero' progressivamente e silenziosamente conducendo ad una rinazionalizzazione delle politiche comunitarie in nome del sacrosanto principio di suss

idiarietà. Ma non basta: la scelta fatta a Maastricht di non dare all'Unione una struttura istituzionale coerente e unitaria per tutti i settori di intervento, lasciando deliberatamente la politica estera e gli affari interni ad una gestione totalmente intergovernativa, si è tradotta nel completo fallimento della ambizione di dare all'Europa un peso e un ruolo autonomo sulla scena internazionale e di farne uno spazio senza barriere per i cittadini.

Lo stesso errore non deve ripetersi nel 1996: tra i temi fondamentali della riforma (e sarà da queste scelte cruciali che emergerà con chiarezza chi vuole fare parte di una Unione politica che funzioni e chi no) saranno quelli dell'eliminazione della struttura a "pilastri" dell'Unione e della semplificazionee democratizzazione delle procedure decisionali: questo in concreto significa che il Consiglio - unico organo legislativo in Europa che decide a porte chiuse - non dovrà più essere l'unico vero centro legislativo e di governo dell'Unione, che lo spazio della cooperazione intergovernativa e delle decisioni all'unanimità deve essere radicalmente ridotto e che tutte le competenze dell'Unione devono essere ricondotte nell'ordinamento comunitario; anche per l'Europa deve inoltre finalmente valere il sano concetto della separazione dei poteri...: Parlamento e Consiglio devono esercitare alla pari la funzione legislativa e la Commissione deve assumere in pieno il ruolo di governo dell'Unione, liberandosi infine

di tutti quei comitati intergovernativi che oggi la controllano e ne indeboliscono i poteri di iniziativa e di esecuzione.

In questo quadro, la funzione della Corte di Giustizia, che è stata uno dei fattori più potenti di consolidamento dell'ordinamento comunitario, non deve limitarsi ad essere quello del controllore della buona esecuzione del diritto comunitario. In una Unione politica democratica, dotata di istituzioni separate ed autonome da quelle degli stati membri, nella quale norme e decisioni producono effetti diretti sulla vita e le attività di tutti coloro che vivono ed operano sul suo territorio, nella quale la dimensione di una cittadinanza europea deve essere meglio definita e allargata, è necessario che la Corte di Giustizia divenga una vera e propria corte costituzionale: suo compito dovrà essere quello di assicurare che i diritti e i doveri di istituzioni, cittadini, regioni, stati membri siano rispettati e che essi non violino i principi fondamentali su cui l'Unione si fonda.

3. Unicità delle procedure decisionali e delle istituzioni

Nella linea delle proposte precedenti, la Conferenza intergovernativa del 1996 deve sboccare sulla "comunitarizzazione" del secondo e del terzo pilastro dell'Unione, la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e degli Affari Interni e di Giustizia (AIG).

Sulla stessa lunghezza d'onda, deve sancire la sopressione della comitologia ed, in particolare, quella dei comitati di Regolamentazione e di Gestione che, da comitati consultivi incaricati di vigilare sulla applicazione delle legislazioni europee negli ordinamenti nazionali, sono stati dotati progressivamente del potere di modificare gli atti approvati dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Questi compiti usurpati dai Comitati devono ritornare integralmente alla Corte di Giustizia di Lussemburgo.

4. Governabilità: un Presidente per l'Europa

L'opacità, la mancanza di efficacia, visibilità e coerenza della "leadership" dell'Unione, cioè il Consiglio - ed in particolare della sua Presidenza rotante- e la Commissione sono uno dei motivi principali della disaffezione del pubblico per l'Unione, percepita a torto o a ragione come una specie di entità potentissima, grigia e incomprensibile persa tra le nebbie di Bruxelles: se tra gli obbiettivi della riforma del 1996 ci deve essere, oltre alla democratizzazione dell'Unione e al riequilibrio dei poteri delle istituzioni, anche quello di assicurare la governabilità e la chiarezza delle scelte da operare, allora è necessario porsi il problema di come si può rendere più esplicito il legame tra i popoli europei e la leadership dell'Unione; una leadership certo controllata e democraticamente responsabile, ma pur sempre una leadership: questa non può essere assicurata, come lo propongono alcuni, dal mantenimento della Presidenza rotante dell'Unione, o dall'elezione diretta o indiretta del Presidente del Consi

glio. Il Consiglio è formato infatti dagli stati membri, che agiscono ognuno in rappresentanza e in difesa degli interessi nazionali. Si può invece prendere seriamente in considerazione l'ipotesi di una presidenza dell'Unione che corrisponda all'esecutivo, cioè a dire alla Commissione e che sia eletto a suffragio universale: un Presidente che possa scegliere i membri del governo per l'Europa tra candidati presentati dai governi nazionali e che sia sottoposto al controllo di Parlamento e Consiglio, nel quadro s'intende della radicale riforma democratica dell'Unione delineata più sopra e di una più esplicita ripartizione di competenze tra stati membri, regioni ed Unione.

5. Riforma (e uniformizzazione) del sistema di elezione del Pe

Procedura elettorale comune

Il sistema scelto deve tenere in conto due fattori: da un lato deve permettere di rompere il sistema "confederativo" partitocratico europeo che si sta costruendo ed il "consociativismo" social-democratico-cristiano che ne è une delle manifestazioni, d'altra parte deve favorire il superamento della logica di tipo nazionale che caratterizza tuttora le elezioni europee.

Il sistema elettorale proporzionale puro, con recupero dei resti in un collegio europeo unico, sembra, a prima vista quanto meno, il più atto a favorire il superamento della logica nazionale e l'emergere di partiti europei. A prima vista solamente, poiché la questione che si pone immediatamente, è quella del tipo di partiti che s'imporrebbe in seguito ad una tale riforma. In effetti ci si può chiedere se si assisterebbe all'emergere di partiti veramente federali o, come l'evoluzione attuale sembra dimostrare, al solo rafforzamento delle confederazioni raggruppando i partiti nazionali appartenenti alla stessa famiglia politica. Dei "partiti", le quali decisioni appaiono come il più piccolo comune denominatore delle diverse posizioni nazionali ed il funzionamento a livello europeo dei quali appare come una semplice addizione e proiezione dei funzionamenti partitocratici nazionali.

Più ancora si può ragionevolmente mettere in dubbio la capacità di un tale sistema elettorale di favorire l'emergere di una maggioranza/opposizione attorno al criterio attualmente più pertinente al livello europeo: quello federalista/confederalista.

Sarebbe il sistema maggioritario in grado di costituire una alternativa a questa doppia deriva partitocratica e nazionale? Non rischierebbe l'opposizione federalista/confederalista di essere occultata da opposizioni di tipo nazionale ? Sono questi degli aspetti che, senza alcun dubbio, meritano di essere analizzati attentamente. Rimane che solo il sistema maggioritario ("secco", "all'inglese") appare oggi in grado di porre un termine al soffocamento in termine di idee, d'azioni e di decisioni politiche esistenti nelle democrazie proporzionalistiche europee.

6. Democrazia linguistica

Numerosi sono, ormai, coloro che sottolineano il problema centrale costituito dalla questione della comunicazione, tanto tra i cittadini dell'Unione quanto in seno alle istituzioni europee. Così pure Giscard d'Estaing, per esempio, "i negoziatori dovranno rimettere in questione il numero delle lingue utilizzate nelle istanze comunitarie" e "la capacità di riformare questo sistema, e a ridurre a quattro o cinque il numero di lingue di lavoro, costituirà un primo test della volontà di rinnovamento delle pratiche comunitarie". Ma quando il ministro francese Lamassoure ha proposto di ridurre il numero di lingue a quelle dei 5 grandi paesi (tedesco, francese, inglese, italiano e spagnolo), abbiamo assistito ad una levata di scudi immediata da parte degli altri paesi membri dell'Unione.

Precisiamo immediatamente che la questione non è, in alcun caso, di rilanciare una qualunque "ricerca della lingua perfetta", ma quella di affrontare un problema, ben reale, sia di comunicazione, non solamente all'interno delle istituzioni europee ma anche tra i cittadini europei e nei loro rapporti con le istituzioni, sia un problema finanziario e budgetario (le implicazioni in termini finanziari dei diversi servizi di traduzione e d'interpretariato di una Unione a 9 lingue rappresenta già l'1% del budget globale - 500 miliardi di FF all'anno; oggi l'Ue conta 11 lingue e a termine potrebbe contarne 25), sia un problema di democrazia (linguistica).

Dunque nessun rilancio di una vecchia-nuova utopia, ma la ricerca del o degli strumenti che potrebbero dare una soluzione, la più soddisfacente possibile, al doppio problema della "comunicazione" e della "salvaguardia della diversità culturale e linguistica" europea.

La prima questione è di natura istituzionale. In effetti secondo il principio di sussidiarietà, che vuole che ciascun problema sia trattato a livello più pertinente con la sua natura e dimensione, il campo "dell'educazione e dell'insegnamento" è rimasto quasi esclusivamente (con l'eccezione, per esempio, delle procedure di equivalenza dei diplomi) di competenza nazionale. Per il 1996 un primo obiettivo potrebbe corrispondere all'attribuzione alle istituzioni europee delle competenze relative alla definizione di una politica europea di comunicazione linguistica, lasciando agli Stati a alle regioni la sua esecuzione.

La seconda questione da affrontare, politicamente molto più difficile, concerne la natura di questa nuova politica europea. Se è evidente che le proposte attuali, di cui la principale vede la generalizzazione dell'insegnamento di almeno due lingue straniere - ciò che per altro è già largamente in uso nella maggior parte dei paesi dell'Unione - non convince nessuno, nemmeno gli stessi promotori, rimane che l'unica proposta alternativa, quella volta all'insegnamento generalizzato di una lingua "artificiale" in tutte le reti europee d'insegnamento, soffre (però) di un pregiudizio oggi largamente - ed è un eufemismo - negativo. Un pregiudizio che i principali sostenitori di questa opzione, gli esperantisti, contribuiscono, volenti o nolenti, a mantenere coltivando l'equivoco di tipo utopistico evocato più su.

Ciò che porta ad affrontare la terza questione, la più delicata, quella del ruolo di questa lingua artificiale. Conviene qui essere particolarmente chiari. Questa lingua deve essere una lingua di comunicazione, dunque una lingua ausiliare; non si sostituisce, evidentemente, alle diverse lingue materne, ma neanche alle lingue straniere eventualmente conosciute. Essa è lo strumento di comunicazione comune a tutti, la seconda lingua di tutti. Studiata come tale da tutti, creerebbe le condizioni di una pari opportunità nella comunicazione (ciò che è molto raro nel caso in cui una lingua impiegata è lingua materna per una parte degli interlocutori, seconda lingua per l'altra). Differenti studi sembrano per altro dimostrare che il suo apprendimento favorisce l'apprendimento successivo di altre lingue.

Infine, la struttura particolarmente logica di una tale lingua, la rende particolarmente propizia ad una utilizzazione come lingua di riferimento giuridico. Ciò che eviterebbe le interpretazioni divergenti come è spesso il caso oggi nelle organizzazioni internazionali che utilizzano più lingue di riferimento giuridico (il caso più conosciuto è quello di una risoluzione dell'ONU sui territori occupati dove i testi inglese e francese davano luogo a interpretazioni completamente differenti).

Perché l'esperanto? Da una parte perché a differenza di tutte le altre lingue artificiali, l'esperanto ha saputo, malgrado gli scostamenti di tipo settario indicati più su, continuare ad arricchirsi e ad integrare a misura della loro apparizione, i nuovi vocaboli e concetti e perché, d'altra parte, il numero di utilizzatori dell'esperanto è oggi sufficiente per fornire il "personale" insegnante necessario all'apprendistato di più grandi numeri.

Qualche obiettivo intermedio

- utilizzo dell'esperanto come lingua di riferimento giuridico nelle istituzioni europee;

- utilizzo dell'esperanto come lingua-ponte nel sistema di traduzione e d'interpretariato nelle istituzioni europee (un tale sistema consentirebbe di riportare il numero delle combinazioni di traduzione dalle 110 attuali (11 lingue) a 12 (11 lingue parlate più l'esperanto);

- finanziamento alle istituzioni europee di studio sul carattere propedeutico dell'esperanto;

- adattamento/modifica dell'esperanto, in funzione delle necessità dell'Unione (giuridica, politica, ...) e di quelle della società dell'informazione (informatica e telematica in particolare);

- sperimentazione rapida su scala comunitaria dell'insegnamento dell'esperanto.

7. Come fare per arrivare a questo nel 1996 ?

Una volta delineato quale Europa dovrebbe uscire dalle riforme del 1996, (oppure: prima di delineare quale europa dovrebbe uscire dalle riforme del 1996) non possiamo nasconderci che le probabilità che la CIG si chiuda con un accordo unanime su un' Europa democratica e forte sono alquanto remote. Le crescenti divisioni tra gli stati membri quanto al futuro dell'Unione lo dimostrano ampiamente: che fare se la CIG si blocca perchè non è possibile raggiungere il consenso tra i membri dell'Unione sulle modifiche da operare?

E' necessario fin d'ora porre il problema del metodo secondo il quale la revisione del Trattato di Unione avrà luogo; non si può più - le esperienze dell'Atto Unico e di Maastricht lo hanno dimostrato in un modo lampante- lasciare le sorti dell'Unione nelle sole mani di una conferenza di diplomatici obbligati a raggiungere un consenso, non importa se di basso profilo e pieno di ambiguità e contraddizioni come è successo a Maastricht: in concreto, bisogna andare oltre la CIG: il negoziato tra gli stati deve essere aperto e condotto su scelte chiare; il PE, espressione della legittimità democratica a livello europeo deve esservi associato, attraverso una procedura che potremmo definire di "co-decisione costituzionale"; infine, già da ora gli stati membri devono aprire il dibattito in vista di un accordo sul modo più adeguato per evitare che l'unanimità richiesta dall'art. N (ex 236) costringa tutti ad uniformarsi a dei compromessi mediocri o porti all'impasse.

 
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