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Conferenza Federalismo
Partito Radicale Roma - 17 luglio 1997
SUPERARE I RADICALI EUCLIDEI
di Paolo Pietrosanti

Consigliere Generale del Pr

Da "L'opinione" - 17 luglio 1997 - pagina 1

Mentre al Transpartito transnazionale che è il Partito Radicale si aprono finalmente pur teorici e potenziali spazi di rilancio, è opportuno che ora non si eviti la riflessione e il dibattito. Non credo, per dirne una, che possa oggi divenire automaticamente priorità esclusiva del Partito, o il suo terreno esclusivo, quella della prospettiva europea. A meno che questa parta da alcune convinzioni.

Lo scontro determinante che è in corso oggi sembra quasi prescindere dal Vecchio Continente. Esagero, certo, e volutamente; tuttavia è difficile non rendersi conto che il grande dibattito che sta riproponendosi è oggi quello del confronto tra capitalismo e mercato, da una parte, e sociale, ragioni dei diseredati, dei più poveri, dall'altra. Ma da questo dibattito che è troppo sovente rappresentazione infeconda è totalmente espunta una o la questione centrale, che è quella delle istituzioni, del sistema giuridico possibile e necessario in presenza di assetti planetari totalmente nuovi e mutevoli. Il PR a questo deve guardare.

C'è forse soltanto una cosa che nel mondo sia identica a se stessa da ben oltre due secoli, ed è la forma di stato. Per il resto, è cambiato tutto. Lo stato no. Eppure è da tempo rotto l'equilibrio e la mutua funzionalità tra potere e territorio dominato, tra potere statuale ed elemento territoriale dello stato. In amplissime aree del pianeta l'attività economica non è più in stretta relazione con la terra e il territorio. Anche l'attività industriale è stata per lungo tempo strettamente legata al risiedere forza lavoro e acquirenti dei prodotti in un'area relativamente prossima all'opificio, alla sede dell'attività economica. Oggi questa è fondamentalmente diversa, e ha perso quasi ogni rapporto fisiologico con il territorio e con gli individui residenti su un territorio dato. Ma il rapporto tra potere politico e territorio non viene posto in discussione, e rimane intatto.

La conseguenza di questo fenomeno non è di poco conto: andiamo a votare, scegliamo un governo o un altro, ma sempre di meno le istituzioni che ci diamo sono in grado di determinare direttamente opzioni di politica economica.

In questo senso la prospettiva federalista europea, e la sua tradizione, regala una ottima rappresentazione della sua inadeguatezza di oggi. L'Europa comunitaria vive profonde sintonie conservatrici tra le burocrazie degli stati membri, speculari a profondissime divisioni sul piano della politica esterna alla UE. Basta mettere il dito nella assenza di diritti sindacali in paesi come la Cina, nelle questioni dello stato sociale nelle tigri asiatiche, del costo del lavoro in quei paesi, e l'Europa è inesistente: Chirac va a Pechino per conto suo a vendere aerei e altro, Prodi va là per conto suo a piazzare furgoni e molto altro, Kohl fa lo stesso, anche se con qualche attrezzatura politica in più, e qualche piccolo costo politico interno in più. Quel che sta insomma accadendo in occasione del rapido aprirsi del più gigantesco mercato del pianeta, quello cinese e asiatico, sia detto grossolanamente, ci consente di guardare lucidamente ai limiti dell'Europa economica, e pure alla impossibilità della Europa polit

ica, al suo limite che è nella sua profonda condizionabilità. L'Europa e gli Europei perderanno forza se non saranno capaci di essere attori politici sul pianeta, invece che attori esclusivamente economici; se insomma non saranno capaci di imporre uno spazio politico e istituzionale globale adeguato, per estensione, all'area del mercato globale.

Pechino, per dire così, è in grado oggi di impedire agli Europei il cammino verso l'Europa politica.

Eppure la minaccia è tremenda: il costo del lavoro in Cina S circa un centesimo di quello medio europeo.

Che la concorrenza globale recherà forti penalizzazioni ai paesi che prevedono garanzie sociali accentuate è annotazione banalissima. Ed è pure banalissima la previsione per cui sempre più accentuato lo scontro politico verterà sugli standard di sicurezza sociale nei paesi in cui quelli sono più elevati.

Certo, il mercato globale recherà progressivamente diritti economici e pure umani nel corso del tempo; anche se non è affatto detto che ciò possa accadere in tempi tali da non sacrificare intere generazioni in ampie aree del pianeta.

Ma la politica resterà assente. La politica, non tanto la democrazia; cioè la possibilità stessa di opzione tra democrazia e altro.

Può una attività economica che non ha confini, fisiologicamente non ha confini, prosperare in assenza di poteri ed istituzioni geograficamente omogenei?

Certamente no. Il Partito transnazionale che siamo è andato per anni e con buon successo incardinando alcune direttrici di iniziativa parallele, funzionali tutte alla affermazione del diritto, della legge, e quindi delle istituzioni, di istituzioni dotate di potere, con ambiti di cogenza adeguati, quindi amplissimi. Direttrici parallele, godendo dell'effetto moltiplicatore.

Conquistando la volontà, cioè la forza, di entrare finalmente nel grande conflitto che è in corso, con le capacità che ci sono proprie, e soprattutto con capacità altrui, imparando a coniugarle con le nostre.

Affinché il mercato sia mercato, in definitiva. Cioè affinché possa affermarsi la legge e la sua tecnologia.

Probabilmente ce la faremo se distoglieremo la nostra attenzione dalle litanie sconfitte di un federalismo europeo non capace di coniugare idealità alla nascita di contraddizioni politiche esplicite.

In ballo, senza esagerazioni, è il benessere degli Europei, che passa attraverso poco altro che la estensione a tutti i popoli del mondo di diritti economici, civili, sindacali.

Forse oggi l'Europa non è capace di essere altro che grande mercato in declino, e le capacità di essere altro devono giungere proprio dalle laceranti contraddizioni economiche di cui una Europa che in quanto tale è di là da venire sembra non volere rendersi conto.

 
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