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Conferenza Federalismo
Partito Radicale Angiolo - 7 novembre 1997
U N I R E I S O G N I
Per una Federazione Danubiana

di Angiolo Bandinelli

da FEDERALISMO & SOCIETA'

(Anno quattro - Numero tre, Autunno 1997)

Le vicende d'Albania hanno costretto l'Italia a guardare al di là del Canale d'Otranto con una attenzione e una partecipazione che l'esiguità del braccio di mare da tempo avrebbe dovuto imporle. Le peripezie che portarono il governo italiano alla decisione di intervenire sono note, e credo si possano giudicare come non troppo commendevoli. Durante convulsi giorni e settimane, un impressionante repertorio in cui si combinavano debolezza politica, povertà culturale e fragilità umane è stato sciorinato, con pressoché identiche immagini e linguaggio, dai sei/sette canali TV in gara nell'etere. Le nostre classi dirigenti non hanno per fortuna le rovinose ambizioni di altre passate ma nell'occasione, vittime di complessi di colpa, dell'ignoranza o solo di stupida ignavia, hanno difettato vistosamente di quel minimo di disinvoltura e abitudine a mettere il naso fuori dell'uscio di casa (o, magari, solo di aggressività) che è necessaria per districarsi nella giungla delle relazioni internazionali.

Ci hanno pensato gli albanesi, questi italiani "provinciali" (non c'è ombra di offesa, semmai di ammirazione, nella definizione), a riportarci a forza dall'altra parte del Canale, a investirci di qualche responsabilità, pur grossolanamente intesa o esercitata. Bisognava aspettarselo, non v'era bisogno di una "intelligence" particolarmente dotata per arguire che prima o poi il fardello sarebbe caduto sulle nostre spalle. Più rapidamente di altri paesi fuoriusciti dal socialismo reale, gli albanesi sono diventati "occidentali", se non altro per aver rapidamente interiorizzato la sommaria logica delle immagini attraverso le quali venivano scoprendo e pregustando le promesse, le delizie, le illusioni del capitalismo (alla Baudo, certo, e mille grazie allo showman se è riuscito a tanto: le virtù e i vizi, se non del capitalismo almeno del denaro, della voglia di arricchire, non passano per i testi di Benedetto Croce o di Einaudi: cavalcano ogni mulo che gli arrivi sottomano per arrivare, in tempo reale come è lor

o costume, là dove vogliono o dove è ovvio che arrivino).

Comunque sia, fatta salva la dovuta commiserazione per i morti (mai necessari alla storia, se solo lo si vuole) e per i drammi più intollerabili, la tempesta albanese va salutata come un passo utile e necessario per avviare su quella sponda del Canale di Otranto la costruzione di un paese nuovo. Prima si arriverà all'azzeramento dell'orrendo passato, più presto sarà possibile stilare i preventivi necessari, compresa la assunzione in carico di una mafia che è forse solo filiazione di questa o quella delle mafie di casa nostra, pronte ad investire nella terra di nessuno di Valona le loro pratiche delinquenziali, il loro denaro, i loro motoscafi blu, nonché la semente di marijuana, giustamente bene accolta da contadini ai quali nessuno avrebbe altrimenti mai offerto, almeno nel breve periodo, di coltivare pomodori o vitigni di Chianti.

Impossibile prevedere, mentre scriviamo questa nota e i comandi e i soldati, districandosi tra le trappole postelettorali di Tirana e Valona, prendono la via del ritorno, come finirà la missione italiana. Quando la rivista uscirà, il rientro delle truppe dovrebbe essere alla conclusione, prevista per la metà di agosto. In queste ore Prodi annuncia che lo scopo principale dell'intervento "è stato raggiunto". Forse la dichiarazione è precipitosa: non appena una nave italiana carica di soldati in euforia salpa le ancore, dietro il porto riprendono le sparatorie tra fazioni e bande. In Albania la terra ancora trema, l'Italia deve capirlo. Perciò, smorzando un po' la sua ansia di normalizzazione noi ci auguriamo che il governo, la nostra diplomazia, e sopratutto le forze politiche comprendano quanto sia essenziale che l'Italia tenga ancora in mano, almeno in parte e certo in forme diverse, il bandolo della matassa, mostrando di saper superare nel tempo lungo lo sbandamento che ne immiserì l'immagine nelle ore con

vulse delle scelte.

Tra riviste di geopolitica, intellettuali duri e puri in fioritura, consulenti e consiglieri più o meno neomachiavellici, le teoriche dell'"interesse nazionale" tornarono ed essere, in quei giorni, pane quotidiano. Ma, per misurare la qualità degli interventi bastava un Pazzaglia, con la mano stesa a fior di pavimento. Altro che le eleganze di una politica estera "bipartisan". Ciascuna delle parti accusava l'altra di ogni misfatto immaginabile, e in nome del sacro interesse nazionale il rifiuto del buonismo fu un esercizio spirituale tra i più seguiti, con la contrizione o la bertoldesca furbizia di chi finalmente riesce a far cadere nella tinozza di latte il dirimpettaio col quale sta disputando su cosa sia la verità e quanto sia visibile.

Povero, maltrattato Salandra! Da tutte le parti dialoganti e discettanti, l'interesse nazionale venne misurato esclusivamente sulla capacità o meno dell'Italia ad assorbire i diecimila profughi, realmente sbarcati o minacciati, senza far subire troppe scosse ai disoccupati di casa o alle comunità locali chiamate all'ospitalità. In alcuni autorevoli ambienti di sinistra, smentendo moralità, sacri principi di solidarietà di classe e cultura pur ben consolidate, si è arrivati a gettare fango e discredito, in un maldestro tentativo di ingraziarsi le folle, sulla categoria etnica dell'albanese, preso a sinonimo di sudicio accattone, di truffatore, di camorrista, magnaccia e via insultando. Si è anche arrivati a immaginare che in Albania fiorisse un turpe traffico di organi prelevati (immaginiamo per mano di praticoni, sul tavolo e con gli attrezzi del macellaio sotto casa) su bambini venduti e comprati per quattro soldi. Venne a galla impietosamente, a sinistra non meno che a destra, il fondo nero della nazione,

del suo provincialismo, della sua grettezza e delle sue storiche chiusure. Nessuno, ma proprio nessuno che, almeno a titolo documentario o come curiosità giornalistica, abbia pensato di ripercorrere la secolare vicenda dei rapporti tra l'Italia, l'Albania e l'intera area balcanica. Eppure era una vicenda fatta non solo di azzardi imperialistici ma anche di buone analisi culturali e storiche, di seria e civile attenzione, di interventi non indecorosi, di durevoli e proficui rapporti e scambi. E' probabilmente su questo scacchiere che si è meglio esercitata in passato - anche (ma non solo) in nome dell'interesse nazionale e delle esigenze della geopolitica - la cultura di governo, la politica estera del nostro paese: un piccolo tesoro (con anche le sue ombre, ovviamente) che avrebbe potuto essere utilizzato come calcina per incollare i mattoni della problematica albanese, nelle sue urgenze e nelle sue storiche necessità.

Invece, nulla. Solo Emma Bonino, mi pare, è arrivata a immaginare (in una riga e mezza di una sua intervista) che l'Italia dovrebbe farsi carico di un "progetto globale" per l'Albania e per la regione cui l'Albania appartiene, la regione danubiano-balcanica. Le riusciva ovvio perché, da segretaria del Partito Radicale Transnazionale, si era trovata in anni recenti a un passo dall'affrontare di petto l'intera questione. Vicende e difficoltà varie la distolsero, ma aveva almeno acceso l'interrogativo. Vedremo in che termini.

***

Non v'è dubbio che il disagio delle popolazioni d'Albania sia conseguenza delle drammatiche difficoltà economiche di un paese arretrato, artificialmente separato dal ciclo del mercato. La proposta di De Benedetti, di lanciare una sorta di "Piano Marshall" per l'Europa dell'Est, quindi anche per l'Albania, è dunque suggestiva e non priva di motivazioni. Ma il problema albanese è innanzitutto un problema politico. Sarebbe quindi importante che dal paese occidentale più prossimo ma anche più esperto, dall'Italia insomma, venissero non solo impegni finanziari ed economici ma anche validi impulsi per affrontarlo in modo moderno ed efficace, in una sorta di integrazione culturale di sicuro arricchimento e completamento di quella economica, che la forza delle cose sta sviluppando. Non vale e non è sufficiente menzionare, come fa sbrigativamente Prodi, un vago progetto di ricostruzione cui gli albanesi dovrebbero ora con le sole loro forze porre mano. In Albania non c'è nulla da "ricostruire". Su un terreno praticam

ente vergine, in forme collaborative ampie, degne e memori della lunga storia comune e, per noi italiani, delle responsabilità che inevitabilmente ci competono, si potrebbe e dovrebbe affrontare piuttosto la progettazione ex novo del tessuto politico e istituzionale, avendo attenzione non solamente all'Albania ma allungando lo sguardo fino alle sponde del Danubio, verso i Carpazi. La questione albanese richiama necessariamente la più vasta problematica balcanico-danubiana. Non si riassesta quel paese in dimensioni strutturali, politico-economiche, con prospettive di durata, se non legandole al rapporto con la Grecia o la Macedonia, con la Romania, l'Ungheria e così via. Abbandonando, comunque, la via fino ad oggi seguita e che ha portato, o sta portando, all'esportazione a Tirana del peggio della cultura, della prassi e delle istituzioni parlamentariste, proporzionaliste, corporative all'italiana, fino ad un modello presidenziale, quello messo in mostra da Berisha, di puro stile scalfariano. Chissà se in qua

lche segmento delle classi politiche di Tirana una consapevolezza così ovvia si è mai affacciata?

Sullo scacchiere albanese e balcanico si potrebbero secondare e far sviluppare, invece, possibilità di enorme interesse per l'Europa intera. Intendiamo parlare del vecchio-nuovo progetto di "Federazione danubiana", volano di un modello del tutto inedito di relazioni inter-nazionali; un modello da inventare, ma già chiarissimamente già davanti ai nostri occhi, volendolo.

La storia dei tentativi per realizzare una Federazione, o almeno una Confederazione, tra gli Stati dell'Europa centrale e danubiana (non uso il termine "balcanica", irremissibilmente caricato di connotati negativi), ha radici secolari. Sulla rivista "Heti Villaggardasag" (HVG) del 16 settembre 1995 (titolo: "Unire i sogni") Istvan Riba elencava i progetti, gli sforzi per saldare insieme quei paesi e popoli, o alcuni di essi, compiuti a partire da Kossuth e persino da Mazzini. Registrava anche gli immancabili, puntuali fallimenti: eppure, a interpretare la storia narrata da Riba, veniva il sospetto che i fallimenti fossero non la conseguenza degli errori di prospettiva o di impostazione che ovviamente ci furono. Forse è vero l'opposto: i progetti fallivano perché avevano margini di validità, e per questo incontravano l'opposizione, il "veto" di forze, interessi e persone per i cui disegni politici essi rappresentavano, o potevano rappresentare, un qualche ostacolo; disegni politici spesso, se non sempre, nati

altrove, all'Est o all'Ovest della regione più che all'interno, nell'uno o nell'altro dei suoi Paesi.

Il richiamo di Riba a Mazzini non è stravagante. Nella cultura politica italiana, pre- e post-unitaria, c'è stata molta attenzione per i temi balcanici; forse per rimbalzo o residuo della plurisecolare politica veneziana, le faccende di quell'area hanno avuto per noi una grande importanza costituendo un filone continuamente riaffiorante, dal Risorgimento in poi: se si vuole, fino a Mussolini, a Pella e infine a De Michelis, quando la caduta del muro di Berlino, la riapertura dei rapporti lo fecero improvvisamente riemergere.

Una trentina di anni fa, Leo Valiani dedicò alle vicende della dissoluzione dell'Impero austroungarico e alla nascita della Iugoslavia uno studio approfondito (1) che ripercorreva con ricchezza di documenti e di analisi i rapporti delle classi dirigenti italiane del tempo con le vicende e la finale crisi dell'impero absburgico. Proprio da quegli uomini venne caldeggiata e appoggiata, anche attraverso una ricca rete di rapporti con protagonisti dell'irredentismo locale, la nascita di uno Stato federale capace di far convivere popoli, culture e religioni ciascuna di per sé insufficiente a dare vita ad una entità statuale attrezzata ad affrontare, in un'epoca di ferrei nazionalismi, la competizione internazionale. Valiani puntualizzava anche l'azione indefessa con cui i democratici italiani si adoperarono perché venisse data una soluzione equilibrata alla questione delle terre contestate e rivendicate dagli opposti nazionalismi.

Dopo nemmeno un secolo la Iugoslavia - un po' figlia, come si vede, anche della civiltà democratica europea e italiana - si è sanguinosamente dissolta. Il processo di disgregazione è apparso ineluttabile: ma non sono pochi quelli che pensano che se, dopo la morte di Tito, l'Unione Europea avesse tempestivamente accolto quel Paese fornendogli l'assistenza e gli aiuti di cui aveva urgente bisogno, forse la crisi non sarebbe giunta al suo epilogo e si sarebbero evitate le sciagure della guerra civile e il finale smembramento. Osservazioni simili valgono, in varia misura, per la Cecoslovacchia e gli altri paesi della regione, le cui strutture politiche sono tutte, quale più quale meno, insufficienti e precarie.

Nonostante le sconfitte, le disdette e le prove abortite, la questione di un edificio istituzionale di tipo confederale o federale che unisca i popoli dell'area del Danubio appare insomma aperta: i fatti recentissimi, gli sconvolgimenti di cui sono piene le cronache ne confermano e rafforzano semmai l'attualità; e Riba ci segnala che anche in U.S.A. c'è chi guarda con interesse a questa problematica. L'articolo di Istvan Riba è però, a mio avviso, insufficiente. Riba parla strettamente in ungherese e da ungherese, mentre un approccio adeguato alla temperie politica di oggi non potrà che essere di impronta, di livello europeo.

E' possibile, se non certo, che molti, se non la maggioranza delle classi dirigenti e dei cittadini di Zagabria o Sofia, di Bucarest o Budapest, ritengano che il punto di arrivo del cammino intrapreso verso l'indipendenza, la democrazia e l'economia di mercato debba essere l'ingresso nella Unione Europea, e che quindi non valga la pena spendere fatica e tempo attorno alla ipotesi di una Federazione o Confederazione ristretta all'area danubiano-balcanica. Appare ovvio che quegli Stati debbano lavorare per arrivare, ciascuno per sé, a stringere rapporti con il Parlamento di Strasburgo, con la Commissione e le istituzioni dell'Ue: anche quando l'ovvietà mostra le sue crepe, come è in questi giorni quando Bruxelles emana un verdetto che promuove Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Estonia, Slovenia e Cipro ma lascia fuori della porta la Slovacchia e altri paesi facendo esplodere un serio contenzioso con la Turchia. Come già questo episodio mette in chiaro, c'è il rischio che si sviluppi una spietata lotta fratic

ida tra i vari paesi per dirottare le risorse disponibili su Zagabria (diciamo) piuttosto che Budapest, su Bucarest piuttosto che Sofia, con risultati insoddisfacenti per tutti e per ciascuno. Non sarebbe più conveniente presentarsi in Europa come un blocco unitario, capace di una progettazione unitaria dello sviluppo e della gestione unitaria, sinergica, delle risorse a disposizione?

In secondo luogo, va tenuto presente che l'Europa è politicamente ancora incentrata, per le questioni essenziali, sugli equilibri del dualismo franco-tedesco, che tiene aperto il dialogo con la Gran Bretagna ma per il resto tende e riconoscere solo "subalterni" o Stati di gruppo "B", ai quali non è facile esprimere più che opinioni, e tanto meno pensare di indirizzare e modificare decisioni prese dalle due Potenze o da quella delle due che al momento riesca a imporre un suo egoistico e parziale punto di vista. Nessuno dei paesi dell'area danubiana potrà sperare di modificare, da solo, questo dato di fatto; il loro sviluppo sarà diretto e regolato in funzione di interessi delle potenze egemoniche europee; non sarebbe meglio se essi si presentassero a Strasburgo legati da un patto associativo che ne moltiplichi il peso e l'importanza? E infine: qualsiasi mossa di un singolo Stato danubiano dovrà tenere in considerazione gli interessi di altre Potenze non associate all'Europa ma che nella regione contano molto:

e pensiamo in primo luogo, ovviamente, alla Russia. Come dialogare, da soli?

A una ipotesi federativa si oppongono molti ostacoli: tutti, all'apparenza, insormontabili. In nessuna parte d'Europa come qui, antiche, gloriose diversità - etniche, culturali, religiose - giocano ancor oggi un ruolo essenziale nel provocare divisioni e rivalità. Ognuno dei popoli, ognuna delle lingue, delle religioni qui presenti ha cercato, nei secoli, o di imporre una sua supremazia o di non soccombere sotto quella di altri, con lacerazioni e i drammi che hanno riverberato i loro effetti sull'Europa intera, condizionandola spesso verso scelte di guerra.

La spinta verso il rafforzamento dello Stato-nazione è qui sentita come un fatto naturale e necessario. Ne ha fatto una efficace analisi un grande scrittore politico ungherese, István Bibó (2). Dopotutto, anche i paesi dell'Europa occidentale hanno conosciuto il loro sviluppo proprio quando si sono costituiti come Stati-nazione; perché non dovrebbero imitarne oggi l'esempio i popoli dell'Europa orientale? La conclusione appare inevitabile; ma è solo un errore di prospettiva. Nella stessa Europa occidentale, su questo terreno le cose si sono fatte assai aggrovigliate e complesse, e forse storicamente non sono più "educative". E' vero che gli Stati dell'Europa occidentale si definiscono "nazionali", ma in realtà la gran parte di essi ingloba una o più piccole "patrie-nazioni" assoggettate in un passato più o meno lontano con la forza, attraverso violente e barbariche epurazioni se non con veri e propri genocidi ed olocausti religiosi o etnici. Le storie nazionali europee sono punteggiate da massacri di catari

e di mori, da cacciate di ebrei, da "notti di San Bartolomeo", da mostruose guerre religiose all'insegna del "cuius regio, eius religio" tipica della Ragion di Stato, cui pose fine il principio di tolleranza nato per la prima volta tra alcuni gruppi eretici italiani (Bernardino Ochino...) e divenuto principio di legge nell'Olanda del XVII secolo. Perché ripetere, ripercorrere quegli orrori? Come ieri, come in quelle vicende passate, anche oggi lo sforzo di disegnare confini netti tra etnie, gruppi religiosi, ecc., non può essere che destinato al fallimento, o a degenerare (come è avvenuto in Romania con Ceaucescu, e poi, in Iugoslavia) nella guerra civile, nell'orrore della "pulizia etnica" e dell'olocausto (che così chiarisce, oltre la vicenda ebraica, le proprie origini e il proprio significato storico). In molti degli Stati dove il processo sembrò vittoriosamente concluso sono in corso tentativi di reviviscenza di quelle "piccole patrie", che rivendicano l'autonomia, quando non la scissione dal corpo pur

secolarmente stabilizzato dello Stato-nazione. E la sfida alla presunta integrità di questi Stati-nazione dell'Europa occidentale viene anche dall'esterno, dalle immigrazioni extracomunitarie, dai milioni di fuggiaschi che cercano ospitalità, lavoro, cultura, ecc., in condizioni difficilissime e affrontando rischi significativi di quanto sia pressante la loro determinazione ad entrare, a non farsi respingere e scacciare.

Nessuna delle condizioni che nel mondo di oggi possono determinare lo sviluppo è più dipendente dalla affermazione di una specifica identità nazionale. Nel futuro, anzi, uno sviluppo che tenda alla "qualità della vita" (che vuol dire innanzitutto "ricchezza di valori e di opportunità") avrà bisogno di flessibilità e di varietà di componenti, ciascuna delle quali capace di portare alla comune convivenza la sua identità, la sua "weltanschauung" particolare e originale, la sua porzione di verità, i suoi specifici valori. Nella lunga prospettiva ogni voce particolare, ogni presenza singolare, ogni dato nazionale, etnico, culturale o religioso, viene valorizzato, potenziato, moltiplicato proprio e solo nel momento in cui è capace di entrare nel circuito dialogico con altri partners. Anche in Europa occidentale - va ripetuto - gli orgogliosi Stati nazionali cominciano a disarticolarsi in regioni, autonome e federate (Sergio Romano su "La Stampa" esprime dubbi che il fenomeno possa giungere a conclusione, ma non è

del tutto convincente), più disponibili e aperte rispetto alle esigenze ambientali, culturali, sociali dello sviluppo complessivo del continente, ed anche abbastanza consapevoli di non potersi potersi più proporre come autonome entità statuali sui grandi, noti modelli storici.

Se la tendenza a dare vita a società più articolate e flessibili è oggi forte in Europa, questo accade perché il continente comincia, pur tra distinguo e incertezze, a riaggregarsi su un progetto federativo, ancora insufficiente eppure insostituibile, resistente persino alle spallate di una riottosa Inghilterra o di una Francia da sempre pivotant sulla sua eterna capitale elevata a centro e ombelico del mondo. Nell'Europa danubiano-balcanica vi sono i requisiti, le precondizioni per affrontare costruttivamente un analogo procedimento di riaggregazione "regionale". La polifonia etnica, culturale, religiosa e culturale è la vera ricchezza di questa splendida regione europea. Perché dovrebbero i suoi Paesi imboccare oggi - in ritardo e, come si è visto, a prezzi altissimi - la via opposta?

Costruire una articolata Confederazione danubiano-balcanica è dunque un obiettivo utile, anzi necessario e auspicabile, oltreché possibile. Una Confederazione (se non una vera e propria Federazione) di quei popoli sprigionerebbe una potenzialità eccezionale di risorse, e costituirebbe un esempio per altre simili situazioni, anche non europee, dove ugualmente si pensa di ridurre i problemi culturali a conflitti "tribali" da consegnare alle armi, e i fondamentalismi negano l'"altro" e impediscono la crescita comunitaria delle diversità. I paesi danubiano-balcanici potrebbero porsi all'avanguardia di scelte civili e di progresso.

Si può insomma, anche per questa regione, prendere almeno in considerazione ipotesi non centrifughe, non di guerra e conflittualità. Su quali linee occorrerà muoversi? Il progetto federale, o federativo, potrebbe (e dovrebbe) far leva su precisi punti di forza:

a) la cultura: solo la cultura, lanciando la sua sfida di verità e di autoriflessione, può assumersi il compito di rintracciare e mettere in evidenza le ragioni storiche dell'unità (certo presenti, pur se non immediatamente visibili), opposte a quelle che spingono verso la divisione, nonché le forme e i modi per realizzarla utilizzando anche gli strumenti di comunicazione messi a disposizione dalle nuove tecnologie per favorire gli scambi infralinguistici e infraculturali. Potrebbero essere chiamate a collaborare al complesso progetto, quasi un grande laboratorio, forze intellettuali europee e di tutto il mondo;

b) l'economia: per sfruttare appieno una economia di mercato occorre oggi muoversi in ampi spazi, con capacità di progettazione di dimensioni enormi e programmando in modo articolato, non bloccato, l'utilizzo delle risorse a disposizione, e questo non è alla portata dei singoli piccoli Stati. Bisognerà dunque elaborare teorie e tecniche di uno sviluppo a scala subcontinentale e non più micronazionale. La prima occasione di dialogo e confronto transnazionale tra i diversi interessi può già essere la gestione comune delle risorse ambientali e produttive del bacino del Danubio, sul classico modello della "Tennessee Valley Authority" nata nell'ambito del "New Deal" rooseveltiano. Un progetto di questa ampiezza attirerebbe, con forza moltiplicatrice, investimenti, capitali internazionali stimolati da prospettive in dimensione innovativa e certo redditizia.

c) il mondo religioso: date le sue particolarissime responsabilità, dovrebbe essere profondamente interessato a promuovere la caduta di divisioni radicate nei secoli, fornendo i veicoli di una effettiva coesistenza e cooperazione tra cristiani di diversa denominazione e mussulmani (o altri), che si dimostrerebbe di altissimo rilievo morale. Le forze religiose raccoglierebbero così la sfida della cultura laica, che è e si definisce non solo cultura della disgregazione individualistica e del consumismo ma anche della tolleranza e del rispetto per le diversità. E' più facile che il processo si apra qui che in altre aree con problemi analoghi.

István Bibó afferma che la "possibile federazione futura potrà funzionare solo se prima si sarà raggiunta una stabilizzazione pur minima per ciò che riguarda i confini. Sarebbe questa la pregiudiziale psicologica di un'unione in Federazione". La storia ci insegna che una Federazione può nascere solo se questo problema non viene assunto a pregiudiziale: è solo nella federazione che la questione dei confini (confini non solo geografici) diviene, come oggi si richiede ed è possibile, un "nonproblema". Ma la difficoltà - pensiamo - non sta in questi scogli per quanto aspri appaiano e siano, nella mancanza dei mezzi e degli strumenti o nelle mille ragioni contrarie che possono a ogni momento farsi vive. Il vero problema ostativo, la pregiudiziale incolmabile è la possibilità o meno che si formi un nucleo di classe politico-culturale "transnazionale" capace di concepire il progetto, di articolarlo, di svilupparlo in termini e in tempi politici, con intelligente costanza. Questa è la vera, grande sfida che investe

oggi i ceti dirigenti dei paesi danubiano-balcanici. Se comincerà a formarsi, tra di esse, un embrione federalista - insieme rivoluzionario nel progetto e riformatore negli strumenti e negli obiettivi - l'esperimento potrebbe decollare, aprendosi spazi di dibattito, di confronto, persino in immediate forme operative. Pochi, appassionati "rivoluzionari", dovrebbero audacemente gettare l'amo, sparare un "razzo Very" che altri possa scorgere nella notte e sulle cui tracce dirigere i suoi passi. Un compito difficile, per il quale occorre spirito di pionieri. Questi sono una specie rara; ma se qualcuno comincerà a svolgerlo, è possibile che dall'interno dell'Unione Europea gli rimbalzino risposte e sostegno, come anche domande, curiosità, stimoli a loro volta benefici per una istituzione - l'Europa, appunto - che sta, altrimenti, agonizzando nell'apatia. L'utopia federale danubiano-balcanica è stimolante, non solo per i paesi di laggiù ma anche per le vicende di casa nostra e dintorni.

Sarebbe stato possibile già saggiare il disegno, con le sue difficoltà e i rischi, le possibilità e i nodi. Fino a poco fa una piccola - insufficiente, ma attiva - rete di comunicazione e cooperazione era stata gettata dal Partito Radicale Transnazionale tra alcune delle capitali danubiane. Militanti italiani e locali si provavano a sollecitare la reattività di quei cittadini su temi e inizitive di diritti civili, tipicamente radicali. La cultura federalista del partito, la sua attitudine a secondare i rapporti interculturali, la capacità a lavorare politicamente senza avere di mira la conquista del potere, la flessibilità operativa, la strumentazione nonviolenta, tutto portava quei militanti a stendere le prime trame del disegno, o "sogno" (per tornare a Istvan Riba). Una serie di ragioni ha paralizzato coloro che al suo interno avevano abbozzato il progetto, ed il partito nel suo complesso. Una occasione, così, è stata perduta (o non poteva essere colta, ma non fa gran differenza).

E' ben strano e amaro che tra tanti proclami sbandierati nella regione dopo la caduta del comunismo, quello del federalismo possibile non sia stato sollevato, o raccolto, o fatto proprio da alcun altro, nonostante i precedenti storici e le attuali urgenze. Vogliamo, e dobbiamo, augurarci che il vuoto non sia per costare a quei paesi e popoli, ma anche a noi osservatori e interlocutori non lontani, disastri come quelli che la storia ha - inutilmente - registrato e continua - inutilmente - a registrare.

Angiolo Bandinelli

(1) Leo Valiani, "La dissoluzione dell'Austria-Ungheria", Il Saggiatore, 1966.

(2) István Bibó, "Miseria dei piccoli Stati dell'Europa

orientale", Il Mulino 1994.

Roma, 24 luglio 1997

 
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