Roma, 29 dicembre 1998
Signor direttore,
mi consenta di usare del suo giornale per lanciare la bottiglia cui affidare il messaggio di una impossibile salvezza. Con lo scoppio della guerra serba, la disperazione dell'impotenza sembra sopraffarci e dunque ogni tentativo, fosse il più illusorio, va tentato. Questo mio non è stato accolto nemmeno dai miei amici del Partito Radicale (di cui pure fui in altri tempi, per tre anni, segretario politico e deputato e cui resto fedelmente iscritto, come ultimo dei militanti ). Mi resta solo il suo giornale. Chissà, forse
La guerra serba è in atto. E non sarò io a dissociarmi dalla condanna del dittatore di Belgrado. Ma temo che i bombardamenti in corso, come esperienza insegna, non riusciranno a risolvere il vero problema. Cada o meno Milosevic, avremo diatribe, dispute e divagazioni ma alla fine, chiunque comandi a Belgrado o a Pristina, si arriverà a una ennesima spartizione territoriale ed etnica, agli ennesimi spostamenti di massa di popolazioni, che confermeranno quella che è la prima barbarie in atto: cioè lo sradicamento di culture storiche, di secolari insediamenti, di immemorabili fedeltà alle terre dei padri. Insomma, un genocidio culturale e spirituale, inferiore solo per dimensioni all'Olocausto.
Ma guarda! Non è questa, ancora, la logica dei Sudeti, della Polonia sradicata, delle mille terre d'Europa sventrate in omaggio al principio dello Stato-nazione, che è da sempre il vero modello culturale dell'Europa, quello del "cuius regio, eius religio?". E' così, e sarà così ancora, dopodomani come domani. Tanto più nei Balcani, dove giganteschi e apparentemente insolubili conflitti etnici, religiosi, culturali e civili sono pronti ad esplodere, ed esploderanno irrimediabilmente, a partire da scintille di per sé, e nel contesto europeo, insignificanti (i Balcani, "buco nero dell'Europa", come dice Bonino ). La cultura della "pulizia etnica" è l'unica messa in campo, con una bieca e stolta naturalezza, applaudita da una geopolitica da quattro soldi.
Non so quanti si rendono conto della drammaticità della situazione. Nella storia secolare di quelle regioni l'intreccio etnico, religioso e culturale - a pelle di leopardo - è talmente complesso da rifiutare una soluzione basata sulla ricerca di un equilibrio che sia esclusivamente territoriale. Nessuna buona volontà, nessuna diplomazia, nessuna misura coercitiva, nessuna operazione di polizia interna o internazionale, nessuna cacciata di dittatori, riuscirà mai a fare avanzare non solo la questione kosovara ma la pacificazione e la crescita di quei Balcani. Occorre, anche se non ci se ne vuole rendere conto, un approccio radicalmente differente, uno scatto di volontarismo etico nutrito di fede politica ed umana.
Alla fine della prima guerra mondiale, la nascita della Jugoslavia come stato interetnico, federale, fu caldeggiata da strati importanti della cultura e della politica democratica, anche italiana. Leo Valiani ha tracciato un quadro molto bello di quella complessa operazione - la nascita della Jugoslavia - che trovò a Roma una efficace sede di promozione sotto l'attenta sollecitazione e moral suasion delle migliori forze democratiche del paese. Io credo che anche oggi l'unica soluzione solida e, soprattutto realistica dell'intreccio balcanico debba partire dalla rinuncia, sul piano culturale innanzitutto, all'ipotesi di una crescita e di uno sviluppo fondato sullo Stato nazionale; il quale ha intrinsecamente bisogno di realizzare la sua pulizia etnica. Ma nei Balcani, oltre ad essere deprecabili sul piano umanitario, operazioni del genere risultano in perdita secca in regioni in tal modo private di tesori altissimi di cultura depositati e stratificati nel corso dei secoli.
Purtroppo, l'Europa non sa applicare e proporre altri schemi statuali se non quello di tipo nazional/istico di cui essa è stata prima ed autorevole interprete, da secoli e fino ai massacri della prima guerra mondiale. E dunque, una soluzione della questione balcanica a impianto tendenzialmente federale, con la vigorosa rottura degli schemi vetero-nazionali, ha bisogno, per essere concepita e divenire realizzabile, di una grande, nuova, inventiva consapevolezza, nonché di una capacità di dialogo e di una fiducia nei tempi lunghi di cui dovrebbe farsi carico una o più generazioni di cittadini, intellettuali, uomini politici capaci anche di sostenere momenti di radicale alternativa ai poteri nazionali e di operare lungo vie transnazionali, oltretutto con l'appoggio di settori alti e lucidi della cultura internazionale.
Nella fucina rovente delle attuali passioni non si vede, da quelle terre, sollevarsi alcuna voce di questo timbro. Ma è un peccato che i democratici europei e italiani non sappiano, loro, produrre indicazioni valide a favorire il coagulo, in loco, di energie così indirizzate. Ahimé, nemmeno i miei amici e compagni radicali, mentre hanno come priorità l'allontanamento drastico di Milosevic, sono attenti a questo fondamentale aspetto della questione. E' la visione, o la fantasia politica che manca. Eppure, basterebbe poco per suscitare e sostenere i dieci, venti, cento intellettuali "transnazionali" che si dedichino appassionatamente a gettare quanto meno il seme del dubbio, della perplessità e, diciamo, della speranza. Nella stoltezza dell'impotenza, piaccia o no, dovremmo altrimenti riconoscere che Ceaucescu o Milosevic hanno ragione.
Mi scusi per la lunghezza,
ANGIOLO BANDINELLI