Angiolo Bandinellida "L'Opinione" del 19 maggio 1999
(viene segnalato in questa conferenza, in particolare, per le conclusioni)
Non c'erano radicali, sicuramente, alla "Marcia della Pace" Perugia-Assisi di domenica. Eppure, tra le componenti storiche che diedero vita, dietro a Aldo Capitini, alla iniziativa, negli anni '60, c'erano anche radicali, o alcuni radicali, i quali parteciparono già alla prima edizione, assieme a Ernesto Rossi e a fianco di Altiero Spinelli (ci ricorda uno di loro che, per arrivare a Perugia in una "cinquecento" di quei tempi lontani, impiegò ore di viaggio intirizzito). Quella presenza, per quanto sparuta, non passò inosservata. Allora il Partito Radicale era guidato dai Carandini, dai Pannunzio e dai Piccardi. Piccardi era un "terzomondista" e un filoneutralista, gli altri erano schierati senza riserve nel campo occidentale e tenevano l'Europa, se non come un obiettivo politico, sicuramente come una patria ideale, culturale e morale indiscussa. Per costoro, la partecipazione ad una iniziativa "pacifista" era impensabile. Il gruppetto dei giovani radicali che affrontò freddo e stanchezza per essere pun
tuale all'incontro aveva invece - e per questo sfidò i fulmini della dirigenza nazionale - idee assai diverse, ma già chiarissime. Erano non tanto europeisti ma strettamente federalisti europei, volevano il disarmo "convenzionale" accanto al nucleare, e soprattutto lottavano per la "conversione delle strutture militari in strutture civili" al servizio della società. Parlavano di Gandhi e di nonviolenza in toni diversi da Capitini ma non con minore convinzione e decisione. Su queste linee-forza, stavano abbozzando un programma politico innovatore, malvisto dai loro padri ma anche in odore di eresia e quindi osteggiato dalle sinistre che sfilavano verso Assisi sotto le multicolori bandiere del "Partigiani della Pace".
Poiché, per quanto ne sappiamo, i radicali di oggi continuano senza ondeggiamenti nel cammino di allora, che significa la loro assenza dalla manifestazione di domenica? Significa una sola e semplice cosa: che essi, i continuatori e gli eredi di quella lunga storia di nonviolenza "militante", credono oggi, come credevano ieri, che il "pacifismo" a senso unico, il pacifismo privo di ideali, il pacifismo che non distingue tra pace giusta e pace ingiusta, sia uno dei pericoli maggiori, se non il maggiore, nel cammino verso una migliore convivenza tra popoli e Stati. "Non c'è pace senza giustizia", è il motto di una delle autonome strutture di lavoro presenti nella costellazione radicale. E, oggi più che mai, nel dramma jugoslavo e kosovaro, davanti alla spietata spregiudicatezza, alle nefandezze di Milosevic, una pace senza giustizia, cioè una pace che non faccia pagare a costui tutte le sue responsabilità politiche e morali, non sarebbe pace, ma un ignobile cedimento dinanzi al ricatto. Ahimè, temiamo che la g
ran parte dei marciatori di domenica avesse invece in testa proprio una pace di questo tipo. Ecco dunque perché i radicali nonviolenti non hanno partecipato. Anche loro sanno benissimo che la Nato sta commettendo errori su errori (e non ci riferiamo solo a quelli, drammatici e inescusabili, delle bombe che cadono su innocenti o sui profughi), ma si rendono conto che la pace, nei Balcani, non può e non potrà mai essere reale e duratura senza il ristabilimento delle certezze, della legalità, del diritto.
In questa regione, a nostro avviso, più che altrove, perché si tratta di un'area ad alto rischio di perpetua crisi, di rinnovate o endemiche guerre intestine e fratricide; un'area insomma fragile e inadeguata, in strutture come in uomini, ad affrontare il cammino della libertà, dell'inserimento nel mondo democratico che è anche un mondo partecipe, sotto la spinta del processo di globalizzazione e di innovazione tecnologica e dei mercati, di una continua e serrata evoluzione non tenera verso i più deboli ed inesperti del gran gioco. Gli Stati (meglio, gli staterelli) balcanici fanno affidamento nell'ingresso nell'UE, o comunque nell'assistenza europea, per ottenere il sostegno politico-tecnico-economico di cui hanno estremo bisogno. La loro è una speranza condivisibile. Ma noi (e ci auguriamo di sbagliare) non pensiamo che l'essere accolti nella serra europea possa essere sufficiente a restituire equilibrio, sicurezza e prospettive alla tormentata area e ai suoi popoli. Fanno ostacolo le stesse, particolariss
ime condizioni di partenza, vale a dire la loro estrema, irriducibile frammentazione etnico-culturale. Divisioni, lacerazioni, una inestirpabile incrostazione di tradizioni spesso contrastanti (basti pensare all'assurdo, anche un po' ripugnante, di due confessioni cristiane, la cattolica e l'ortodossa, che per mille anni si sono rese colpevoli, in questa regione, di ogni nefandezza per sottomettere, e possibilmente annientare, l'odiata rivale) vietano di abbandonarsi a sogni ed illusioni tranquillizzanti. E non a caso nella Jugoslavia di Milosevic (ma anche nella Croazia di Tudjman) regimi autocratici e violenti hanno scelto la via della pulizia etnica come l'unica possibile, drastica e "realistica", per eliminare l'ingombrante retaggio del passato.
Noi invece pensiamo che tale retaggio possa costituire una grandissima ricchezza, culturale e civile (ci verrebbe voglia di chiedere all'UNESCO la protezione per quel meraviglioso paesaggio umano, così come si fa per i monumenti più prestigiosi) solo che lo si faccia consapevolmente diventare il punto di partenza per costruzioni statuali e culturali nuove, a base federalista, capaci di integrare le diversità in una modernissima visione multietnica e multiculturale. L'Europa promette di intervenire nel processo di ricostruzione post-bellica con aiuti e sostegno finanziario, tecnico e di altro genere. Ma questo impegno sarà insufficiente, ripetiamo, se parallelamente, e con la stessa urgenza, non si avvierà la costruzione di una nuova classe politica "balcanica" (e non più jugoslava, bulgara o ungherese) capace di "inventare" e promuovere le forme e i processi di totale rinnovamento, in senso con-federale, dell'esistente.
Peccato che i radicali non si siano posti loro come "levatrici" di questo progetto, o di questa speranza. Avevano (ed hanno) tutti i titoli per farlo.