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Partito Radicale Angiolo - 2 giugno 1999
MA I BALCANI SONO IN EUROPA?
Di Angiolo Bandinelli

(da "L'Opinione", 2 giugno 1999)

Forse un giorno, Milosevic o non Milosevic, questa ennesima guerra dei Balcani finirà, e dovremo cominciare a gestire, se non la pace, il silenzio delle armi. Che non è proprio la pace, perché la pace deve poggiare su pilastri solidi, e noi temiamo che di tali pilastri non siano ancora state poste le fondamenta. Non per colpa dei nostri contemporanei malamente protagonisti della vicenda, quanto piuttosto per l'eredità di una lunga disattenzione, se non di una storica incomprensione.

Cerchiamo di spiegare le ragioni di questo pessimismo. In un importante saggio del 1940 (che appare solo oggi in Italia, "Il nichilismo europeo", Laterza 1999) Karl Löwith, filosofo e critico della cultura, sostiene che "l'America, pur essendo un continente indipendente, dal punto di vista culturale e linguistico è più europea dell'Europa balcanica e nord-orientale, abitata da popolazioni slave e per metà asiatiche". Un giudizio sicuramente sorprendente ma, a pensarci bene, ancora largamente anche se inconsciamente condiviso: a mezzo secolo da quando venne formulato le cose non sono cambiate di molto, per quel che riguarda i Balcani e il loro rapporto con l'Europa. Nei dibattiti che nel lungo arco di tempo si sono intrecciati, con l'intervento di storici, ideologi e filosofi di qualità, per individuare e definire i limiti e le caratteristiche della "identità" europea da prendere a base e sostanza indispensabile per togliere dall'astrattezza e dall'incomprensione il processo di unificazione continentale, non

sono molti (ci pare) quelli che, con approfonditi e meditati ragionamenti e non con sciatta sufficienza, hanno inserito i Balcani nelle foto di famiglia della nuova patria in formazione a Strasburgo e Bruxelles. I Balcani, ad es., non rientravano nella "Europa Carolingia" di cui si tessevano le lodi sperticate durante l'era di Adenauer e De Gasperi; c'era di mezzo, forse, l'odiata ortodossia. Né di Balcani si è mai sentito parlare quando si è magnificato il senso unitario della "grande" cultura espressa dai Dante, dagli Shakespeare, dai Goethe, Cervantes, Molière, ecc. ecc.; e può anche capirsi che fosse difficile ammettere Dracula in quel sublime pantheon. Nient'altro troviamo, in argomento, da segnalare.

L'Europa non ha mai considerato i Balcani, nella loro integrale, complessa diversità, come parte di sé, della propria storia più profonda. Forse, la colpa è nel ricordo mai estinto della caduta di Costantinopoli del 1492, degli usurpatori ottomani e delle

guerre combattute, fino a due secoli fa, per bloccarne l'espansione verso Praga e Vienna. Insomma, cristianità e cultura, i due miti dell'identità europea, non hanno mai avuto casa nella grande regione danubiana. L'Austria diede dignità all'Ungheria, la Romania vanta le sue origini "latine", ma poco più. In Italia, mi pare, i primi a pensare ai Balcani, o alla più vasta questione slava, come problema culturale e politico di rilievo europeo (anche se sempre in funzione antiottomana) furono gli ambienti risorgimentali e postrisorgimentali, da Mazzini a Salvemini. In modo cosciente, l'area è entrata nell'ottica europea forse solo dal 1878, con quel trattato di Berlino che almeno le diede la dignità di privilegiato territorio di caccia, propaggine coloniale degli interessi degli Stati d'Europa. Tra i suoi paesi spiccava, prediletta agli occhi del continente, la Serbia, colonna, baluardo, estrema difesa dinanzi all'Oriente barbarico e ostile: D'Annunzio ne cantò (a pagamento) l'eroismo guerriero, con una ode in

cui il nome di Serbia è strettamente allacciato (guarda un po') a quello del Kossovo. Ma, in definitiva i paesi danubiano-balcanici sono ancora fantasmi lontani, poco conosciuti, dai quali l'ingegno fugge, si chiami Cioran, Jonesco o Brancusi, per rifugiarsi a Parigi. L'unica entità balcanica che abbia conquistato una sua visibilità e un suo peso europeo è stata la Jugoslavia, proprio quella multietnica e multiculturale che è andata ormai in frantumi.

Prefigurando con qualche buona volontà un ancora nebuloso dopoguerra, si parla oggi di una sorta di "piano Marshall" per la ricostruzione della Jugoslavia e dei Balcani, o anche di una grande "Conferenza europea" che avvii lo sviluppo di tutto il sud-est del continente. Encomiabile zelo, che ci appare però in buona parte l'alibi di un troppo lungo, irresponsabile disinteresse. Ma, anche se gli europei non se ne rendono conto, il primo tema che essi dovrebbero affrontare è la reintegrazione (o meglio, integrazione) nella loro cultura, nella loro storia, nella loro "etica" della grande regione danubiano-balcanica, con tutte le sue vicende, nella loro tormentata complessità. Paradossalmente, la guerra in corso, anche con il prezzo di tutti gli errori commessi dalla NATO e dai suoi "falchi", consente e avvicina un po' questa integrazione; l'intervento armato è la conseguenza, il portato, distorto e drammatico quanto si vuole, di un "interessamento", che è o può essere l'anticamera per un riconoscimento "dialogic

o", cioè intessuto su un dibattito tra "soggetti", non costruito solamente sul monologo dei quattrini UE. Ancor più paradossalmente, i pacifisti, gli amici di Milosevic, ragionano invece ancora nell'ottica dell'"isolamento" balcanico, giustificato fin nelle sue peggiori contraddizioni e destinato a restare, per loro, oggetto di una politica di potenza, anzi della solita politica di potenza, più o meno quella sancita a Berlino, con la Russia seduta a capotavola. Paradossi, ma non incomprensibili, della storia e della politica.

 
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