di Angiolo Bandinelli("L'Opinione", 6 agosto 1999)
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E' davvero impudico lo stupore con cui l'Occidente accoglie (e subito, subdolamente, respinge) le notizie dei massacri con cui i kosovari albanesi cercano oggi di pareggiare il conto con le stragi, gli stupri, le espulsioni patite ieri ad opera dei kosovari serbi. Ancora una volta l'Occidente è ipocrita: come non aspettarsi, come non prevedere una reazione di questo genere? Non siamo dinanzi al rigurgito irrazionale di una cieca furia vendicatrice, nutrita dalle angosce e dalle sofferenze di ieri, ma, purtroppo, alla promessa e lungamente covata vendetta, impastata e nutrita di una memoria storica le cui radici affondano nello stesso humus di quella - parallela e antagonista - coltivata, sull'altra sponda, dai conterranei, contigui serbi. E' il retaggio di antiche ballate cantate e danzate all'ombra delle moschee o delle chiese ortodosse e del loro reciproco odio, nelle scuole dove lingue e dialetti diventano bandiere di intolleranza, ed echeggianti infine anche negli uffici nei quali la discriminazione è af
fare familiale prima o in aggiunta a quello statuale (come sappiamo benissimo in Italia, con le distorsioni del Sud Tirolo). Come non aspettarsi che tutto questo si sarebbe verificato? Anzi, ormai, come non mettere nel conto perfino l'esplosione di una guerra civile, di probabile durata decennale, che metta a ferro e fuoco l'intera ex Jugoslavia?
Questo è il Kosovo, oggi. Ma l'Occidente esorcizza storia e presente, e si getta sulla ricostruzione. La ricostruzione doveva essere un compito della "pietas", affidato alla civiltà intesa come corpo di istituzioni e di leggi, di sapienza nel governo e di umiltà etica; sta diventando un famelico business, cui si arriva spudoratamente ad affidare il volano della ripresa economica, della lotta alla disoccupazione, della crescita industriale di una Europa altrimenti asfittica e incapace di rinnovarsi. Un grande affare, il Kossovo; o forse un brutto affare, tutto a rischio: a rischio, vogliamo dire, per quel ripensamento (gli americani direbbero quell'agonizing reapprahisal) cui l'Europa dovrebbe dedicarsi d'urgenza se vuole rinnovare le proprie antiquate istituzioni e strutture. Ci si preoccupa perché i kosovari albanesi sgozzano ora gli agnelli serbi molto più di quando erano i serbi a sgarrettare quelli albanesi. Allora ci se ne poteva infischiare, oggi i giornali si spazientiscono perché i nuovi eccidi risc
hiano di far ritardare la messa a regime della macchina, o delle macchine, degli affari, già ben oliata in Italia come in Germania o in Francia, anzi dovunque in Europa. In Italia, Bernabè, incaricato di organizzare il pool delle aziende italiane a caccia di appalti, riesce anche a trarre dalla situazione spunti di sociologia dell'impresa: in Italia, sospira, ci sono troppi piccoli imprenditori e pochi complessi produttivi di dimensioni tali da poter competere con i colossi tedeschi o francesi: difficile spuntare appalti, in queste condizioni. Vecchie cose, ricicciate oggi a ridimensionare il coro di elogi al modello industriale italiano, quello delle aziende familiali nate nei garage sottocasa di cui si fa vanto il nord-est (incurante anche della distruzione selvaggia compiuta dalle migliaia di garage ad un paesaggio un tempo favoloso, quasi mitico nella geografia dei sentimenti).
Ha ragione, Bernabè, quel modello industriale fu voluto da una Democrazia Cristiana sostanzialmente ruralista, che odiava il capitalismo "selvaggio" del capitale protestante, e preferiva l'arcadico, e arcaico, modello dell'artigianato familiale nato e cresciuto sotto l'ala protettrice del parroco, dispensatore di anticipi, di raccomandazioni e magari anche di un po' di santa usura. Non si preoccupi comunque Bernabè. Dove non arriverà la Fiat, si intrufoleranno gli imprenditori pugliesi, consorziatisi per l'affare ricostruzione forti dell'esperienza (industrial-mafiosa?) accumulata in Albania. Ma, almeno in Italia. il peggio non è nelle mosse di Bernabè o degli industrialotti pugliesi. Il peggio viene dal Presidente del Consiglio, Massimo D'Alema, il quale, con un eccezionale opportunismo ha dichiarato che "la ricostruzione del Kossovo è una grande opportunità". Per chi? Per i kosovari dell'una o dell'altra etnia? No, per le imprese italiane. In un salotto buono questa sarebbe stata una gaffe, sul palcosceni
co delle vicende jugoslave è una bestemmia, non meno oscena delle stragi e degli sgozzamenti che vi vanno quotidianamente in scena.
Ancora no, ci siamo sbagliati. Un peggio ancora peggiore arriva (e come poteva essere altrimenti?) da Bruxelles (o Strasburgo, non sappiamo), dall'ineffabile Prodi. Che, presentando il governo prossimo venturo dell'UE, non ha saputo pronunciare una, una sola parola in qualche modo degna di essere ricordata (di quelle che non mancano mai sulla bocca dei grandi statisti o dei grandi politici) in merito alle vicende jugoslave e balcaniche. Queste, per Bruxelles o Strasburgo, sono le fastidiose sporcizie dello zerbino davanti alla porta, sul quale gli europei DOC. si puliscono le scarpe prima di entrare in casa. Nelle parole di Prodi abbiamo sentito il deserto del pensiero e delle emozioni, il peggio di una corrosa, asfittica, ingrigita e filistea bolognesità.
Ancora una volta: chi ricostruirà il Kossovo?