Bruxelles, 8 giugno 2000
Per l'Europa, due tempi e tre vie
Nota personale di Michel Barnier
Bisogna ringraziare coloro grazie ai quali si apre il dibattito. Niente di peggio infatti, per l'avvenire dell'Europa, che il silenzio e l'indifferenza.
Non si puo' più difendere la costruzione europea presentandola quale una scienza riservata a pochi iniziati: la si espone anzi a tutti i rischi che possono nascere dall'incomprensione. É essenziale invece spiegare la posta in gioco, descriverne il significato con chiarezza e oggettività. E affinché il dibattito sia sereno, bisogna esporre le diverse opzioni a disposizione - tutte quante.
Da subito, s'impone un chiarimento: proposte come quelle di Joscka Fischer tracciano prospettive a medio e lungo termine. Non si applicano all'oggi o ad un prossimissimo avvenire, e quello con cui urge iniziare è la preservazione del funzionamento del sistema attuale. Le scelte più radicali per l'avvenire si presenteranno a noi in un secondo tempo.
A mio avviso, questa è la chiave del dibattito europeo all'anno 2000: l'Europa deve, in un primo tempo, aggiustare il suo quadro costituzionale. In un secondo tempo, diversi percorsi si presenteranno lungo i quali fare progredire un'Unione mantenuta efficace, ma rimasta incompiuta.
I - Il tempo di una vera riforma delle istituzioni
Perché riformare e perché adesso?
La conferenza intergovernativa è, come anche quelle che l'hanno preceduta, incaricata di fare evolvere il quadro istituzionale della costruzione europea. L'Europa ha visto altre riforme costituzionali: cosa rende questa più importante?
Su alcune questioni essenziali per il buon funzionamento delle istituzioni, questo negoziato deve completare quello che il Trattato di Amsterdam non ha potuto regolamentare. Deve riuscire là dove la riforma precedente ha fallito, e ciò con in corso l'allargamento dell'Unione che, in prospettiva, porterà a raddoppiare il numero degli stati membri. Un allargamento che, per il solo aspetto numerico, cambierà di molto la maniera nella quale si costruisce l'Europa.
La riforma attuale delle istituzioni è un mezzo, non un fine, e tanto meno un progetto. Deve riguardare aspetti di ingegneria istituzionali, materia che può a volte essere anche molto politica, ma che non ha come compito di pronunciarsi sul divenire dell'Unione. Eppure, senza questi accorgimenti, senzaun'ambizioso riequilibrio dell'attuale quadro istituzionale, l'allargamento sarebbe più difficile e i nuovi stati membri, dopo tanti sforzi, raggiungerebbero domani un'Unione indebolita. Così, la riforma non è un pretesto per ritardare l'allargamento, ma al contrario, la condizione per il suo successo.
É per questo che tutti gli Stati membri, i meno popolati come i più popolati, possono e devono fornire uno sforzo nel corso del negoziato, per fare di Nizza un appuntamento riuscito. Vincere non significa concludere e non posso che ripetere la mia convinzione che la qualità di questa riforma è più importante del suo calendario. É infatti in base a questa riforma, in base ad un'Unione il cui funzionamento è consolidato, che si potrà costruire l'Europa del futuro.
La posta in gioco della riforma istituzionale
Le "questioni d'ingegneria" sono quelle che la passata conferenza non è stata in grado di risolvere: quale dev'essere la composizione della Commissione che gli permetta di mantenere la sua credibilità? Come può il Consiglio dei Ministri decidere in maniera più efficace e più legittima?
Se il metodo di designazione della Commissione europea non viene modificato, questa, fra qualche anno, comprenderà trentacinque membri: ovvero quattro volte quelli iniziali? Come, in queste condizioni, si potrebbe mantenere il suo metodo di funzionamento collegiale, che le ha permesso, nel corso di cinquant'anni, di fare emergere l'interesse generale ed essere il motore essenziale della costruzione europea?
La Commissione europea considera che due formule permetterebbero di rispondere a questa sfida:
- sia mantenendo in un vero collegio il numero attuale dei venti Commissari mediante un sistema di rotazione che rispetti un ordine precedentemente stabilito non che una rigorosa uguaglianza tra gli stati membri, dal momento in cui vi saranno a disposizione più membri che Commissari da nominare;
- sia autorizzando ogni stato membro a nominare un Commissario, al prezzo di una ristrutturazione importante della Commissione. Attraverso un rafforzamento dei poteri del suo Presidente, affiancato da sei o sette vicepresidenti, bisognerebbe riuscire a preservare, a scapito di un funzionamento collegiale puro, la coerenza dell'azione della Commissione.
Prima di decidere quale di queste due formule adottare, poiché entrambe implicano delle conseguenze importanti, un quesito va posto in tutta sincerità: di quale fiducia la futura Commissione godrà presso gli Stati membri e il Parlamento europeo? Potrà questa, in una comunità di Stati membri più ampia, continuare a rappresentare il luogo di coerenza, d'impulso e di iniziativa o non sarà piuttosto, mancandole questa fiducia, accantonata alla mera gestione quotidiana del mercato unico e di alcune politiche comunitarie?
Altra posta in gioco della riforma è il sistema di voto amaggioranza al Consiglio che dovrà rispettare gli equilibri originari e rispecchiare in modo equo il peso relativo di ogni Stato membro. La Commissione europea propone di prendere in considerazione questi due imperativi per instaurare un sistema di doppia maggioranza: un voto sarà acquisito solo nella misura nella quale esprime la maggioranza degli Stati membri che rappresentano anche la maggioranza della popolazione totale dell'Unione. Considero che questa doppia maggioranza sia semplice e chiara. Essa conferma anche la doppia legittimità di cui sono portatori sia i cittadini che gli Stati.
Al fine di mantenere efficace il processo decisionale anche con il doppio degli Stati membri attuali è necessario ridurre il diritto di veto e, a fine di rafforzare il carattere democratico dell'azione comunitaria abbinare voto a maggioranza qualificata con la codecisione legislativa con il Parlamento. É già stato fatto molto in questo senso, prima a Maastricht e poi ad Amsterdam. Ma uno sforzo di tutti è ancora necessario nell'interesse di tutti. Una cinquantina di disposizioni del Trattato sono blindate dal vincolo dell'unanimità. Bisogna, nella sostanza, circoscrivere questa unanimità alle sole questioni istituzionali. Tutte le politiche comunitarie dovrebbero essere decise a maggioranza qualificata e dal punto legislativo tramite codecisione: la lotta alla discriminazione (articolo 13 del Trattato che istituisce la Comunità), la politica di asilo e immigrazione (articolo 67), la politica strutturale (articolo 161) ... É necessario anche eliminare il diritto di veto per quanto concerne le misure fiscali e
sociali necessario al fine del buon funzionamento del mercato interno.
A che pro infatti aver creato una forza economica di primo piano sei poi le si negano i mezzi per una coordinazione efficace in materia fiscale e sociale? Non è ammissibile che venticinque o trenta Stati membri siano costretti sempre a procedere al passo del paese che meno di tutti ha fretta o voglia di andare avanti - quello che difende interessi particolareggiati, suoi, piuttosto che l'interesse generale.
Infine il Trattato di Amsterdam ha spianato la strada alla "cooperazione rafforzata", vale a dire alla possibilità per alcuni Stati di cooperare l'uno con l'altro, in modo selettivo, nell'interesse dell'Unione europea, quando non tutti vogliano o possano essere in grado di farlo. La conferenza dovrà facilitare le condizioni e sopprimere il diritto di veto che ancora imbrigliano l'istituirsi di tali cooperazioni rafforzate, posto che si tratti, per queste "avanguardie", di battere la via comune e non di dare l'autorizzazione ad alcuni Stati membri per non so bene quale "sfilacciamento" degli acquis comunitari. Aggiungo, a questo proposito, che il progresso della cooperazione rafforzata non può in nessun caso servire da copertura ad un accordo mediocre sull'ampliamento della maggioranza qualificata che rimane la posta in gioco centrale della riforma.
L'insuccesso di un negoziato non si misura sempre al meglio nell'immediato. Si misura più nel tempo, sulla scia dei rimpianti o dei rimorsi di coloro che, in mancanza di una visione o del coraggio adeguato, hanno rifiutato tale passo in avanti o tale riforma in nome di interessi strettamente congiunturali o di unaprudenza nazionale.
Come restaurare la credibilità della Commissione se le difficoltà che incontra nel suo funzionamento dovessero un giorno alienarle la fiducia di alcuni Paesi membri o del Parlamento europeo? Come rendere funzionale il mercato interno allargato se si mantiene l'ipoteca del veto sistematico in materia fiscale o sociale? Per quanto concerne un campo ancora più delicato, non rischieremmo forse di rimpiangere di aver rinviato l'istituzione di un sistema capace di proteggere in modo più efficace i nostri interessi finanziari collettivi?
É in questo che la riforma delle istituzioni, avviata il 14 febbraio scorso, deve mostrarsi ambiziosa. Ed è proprio in questo senso che la Commissione europea si è pronunciata il 26 gennaio scorso nel avviso dato sulle riforme delle istituzioni. In fin dei conti non sarà tanto il numero di temi discussi, a fare rivelare una qualche audacia, ma il modo più o meno risoluto e coraggioso con il quale verranno trattati.
I primi elementi di una Costituzione europea
Al di là di queste quattro questioni - composizione della Commissione, presa di decisione al Consiglio, estensione del voto a maggioranza qualificata, criteri per una cooperazione rafforzata - che apportano un aggiustamento ai delicati rapporti tra gli Stati e le istituzioni comunitarie, è verosimile che i capi di Stato e di Governo vorranno, in ultima istanza, che la riforma porti all'Unione anche un soffio meno aritmetico e più politico.
Altre questioni saranno forse sollevate dal Consiglio europeo a Nizza, anche se queste possono benissimo essere risolte in un secondo momento. Risultano tutte da una stessa tematica, che mi sembra essere quella di una costituzione europea.
Che la parola piaccia o meno, si tratta in ogni caso di dotare l'Unione europea di un testo fondamentale, chiaro e più semplice. Non si tratta di accrescere le competenze dell'Unione, ma di rendere la costruzione europea più leggibile. Sarebbe in verità essenziale per la democrazia europea - la prima nostra "ragion' d'essere" (e di "stare") in comune - che i cittadini possano avere accesso ad un trattato costituzionale. Un testo, secondo l'auspicio di Vaclav Havel, che "tutti i bambini d'Europa possano apprendere a scuola senza grosse difficoltà".
Per elaborare questo testo bisognerà ritrovare l'ispirazione e la sobrietà del primissimo testo fondatore della Comunità, quello della CECA. L'attuale organizzazione dei trattati e dei testi comunitari rendono, è un dato di fatto, il progetto europeo di difficile comprensione per una stragrande maggioranza dei cittadini: gli elementi fondamentali vi sono enunciati da centinaia di articoli sparsi in trattati distinti. Ora, proprio l'importante lavoro realizzato di recente dall'Istituto europeo di Firenze su richiesta della Commissione, ha dimostrato che è possibile, dal punto di vista giuridico, riunirli in un solo testo composto da un ristretto numero di articoli.Se non potrà, in mancanza di tempo, diventare il trattato di Nizza, questo testo deve, ciònondimeno, diventare il punto di partenza di uno sforzo collettivo per ristrutturare i trattati. Questo esercizio andrà di pari passo con il lavoro messo in cantiere per una carta dei diritti fondamentali da parte della convenzione animata da Roman Herzog. In f
ine sarebbe uno sbaglio trascurare la risposta al quesito posto con ricorrenza, sulla competenza dell'Unione per stabilire, una volta per tutte, in modo quanto più chiaro possibile, quello di cui deve occuparsi e quello di cui non deve, o non deve più, occuparsi. Faccio fatica, a questo proposito, a capire il fatto che coloro che più di tutti sono attaccati allo Stato-nazione, e che impallidiscono alla sola parola di costituzione, siano ance quelli che rifiutano questo sforzo chiarificatore.
Ecco dunque, attorno a tre domande tra loro connesse, un incitamento per stabilire finalmente il testo di riferimento, attraverso il quale sarebbero chiaramente enunciati i principi fondatori e i grandi equilibri chiamati a governare lo sviluppo dell'Unione. Questo è un cantiere che non si chiuderà in pochi mesi. Sarebbe essenziale oltre che simbolico che esso sia aperto a Nizza.
II - I tempi della riflessione: i tre cammini dell'Europa
La riforma delle istituzioni che è in corso prepara l'allargamento. Questo primo tempo va rispettato. Il secondo tempo, in seguito, sarà quello più lungo e circospetto della riflessione sul divenire dell'Unione. Come organizzarsi, infatti, per far sì che l'Europa continui a strutturarsi attorno ad un progetto politico forte e coerente?
Questa riflessione indispensabile è stata appena rilanciata attraverso le proposte di Joschka Fischer dopo gli interventi tra gli altri di Jacques Delors, Valéry Giscard d'Estaing et Helmut Schmidt. Non fa che iniziare e non esige certo risposte prêt-à-porter. Infatti la costruzione europea ha sempre innovato, lasciandosi dietro modelli nazionali o internazionali, non più adeguati agli obbiettivi dei paesi fondatori: un'azione efficace e di interesse comune.
"Prendere in considerazione la forma finale della comunità europea che abbiamo inteso come un processo di cambiamento è una contraddizione nei termini. Anticipare i risultati inibisce lo spirito di innovamento. É pezzo per pezzo che scopriremo nuovi orizzonti". Ecco cosa raccomandava Jean Monnet. Mantenere aperto lo spirito, raggiungere obiettivi partendo dal possibile: il metodo, mi sembra, vale anche oggi.
Nel dibattito che nuovamente si è riavviato, non bisogna dunque esitare ad interrogarsi sul senso delle parole che verranno a strutturare questa riflessione - "Stato -nazione", "federalismo", "comunità", "direttorio", cosa significa tutto ciò? - né tanto meno a tratteggiare i vari percorsi per guidarla.
Desidero partecipare a questa riflessione e descrivere, tra il numero di possibili strade, quei tre cammini che, così mi sembra,possano principalmente essere imboccati per la costruzione europea a seguito della riforma in corso. La via federale, quella del "tutti per uno"; all'altro estremo, la via intergovernativa o anche il "ognuno per se"; e infine, una terza via, quella del sistema comunitario rinnovato: il "ognuno per tutti".
"Tutti per uno": la visione federale
L'idea dell'Europa federale non è un'idea nuova. É germogliata e si è espressa sin dagli anni '30 per riaffiorare poi, subito dopo la guerra, e ispirare gran parte dei fondatori della costruzione europea. L'idea di vedere emergere degli "Stati Uniti d'Europa" non è mai stata abbandonata e osservo che la creazione dell'euro già risulta da una logica federale.
Personalmente la parola federazione non mi fa paura: bisogna semplicemente tradurla allo stesso modo in tutte le lingue e in tutte le culture. E anche, forse, guardarsi dall'ingabbiare il dibattito europeo in una formula o in una parola.
Come potrebbe, oggi, organizzarsi un'Unione federale?
Dovrebbe, logicamente, comprendere un esecutivo espresso da elezioni - ad esempio un presidente eletto dall'insieme dei cittadini europei. A capo di una amministrazione federale forte, prefigurata dall'odierna Commissione europea, si appoggerebbe per dirigere l'Unione, su un governo da lui stesso nominato, nel rispetto dei grandi equilibri nazionali e politici.
Questo governo avrebbe da rendere dei conti ad un parlamento bicamerale, le cui due camere disporrebbero dell'iniziativa legislativa con pari poteri legislativi. Una di queste camere rappresenterebbe i cittadini europei: si tratterebbe del Parlamento europeo, una parte dei membri del quale, dovrebbero, a mio avviso, essere eletti non in circoscrizioni nazionali ma bensì su scala dell'Unione, su liste europee - e, comunque sia, tramite una procedura elettorale uniforme. L'altra sarebbe una "camera delle nazioni" che rappresenterebbe gli Stati, i cui membri potrebbero essere indicati sia dai parlamenti nazionali che dai governi nazionali.
L'organizzazione giudiziaria - affidata alla Corte di Giustizia e al Tribunale di prima istanza - non dovrebbe cambiare di molto. Ciò nonostante, la logica federale porterebbe verosimilmente a rendere la Corte di Giustizia una "corte suprema" a tutti gli effetti, nell'attimo in cui fosse necessario dotare la costituzione europea di un guardiano e un interprete, incaricato tra l'atro, di tutelare la distribuzione chiara delle competenze che andrebbero certamente stabilite tra Unione federale e Stati federati.
"Ognun per se": l'ipotesi intergovernativa.
La logica di una evoluzione intergovernativa sarebbe di bilanciare il potere esecutivo in modo netto a favore del Consiglio dei Ministri. Indipendentemente dal fatto chel'esecutivo sia il Consiglio europeo stesso o rappresentato da uno dei suoi membri, nominato dai suoi pari a presiedere l'Unione, egli coordinerebbe l'azione del Consiglio che avrebbe autorità su una Commissione europea ridotta a rango di semplice amministrazione.
Una o due camere potrebbero indistintamente farsi carico del lavoro legislativo. Se ci si orientasse verso un parlamento bicamerale, la sua camera alta potrebbe essere espressione dei parlamenti nazionali.
A questo punto la questione della difesa degli interessi comunitari, fin qui di responsabilità della Commissione europea, si porrebbe allora praticamente in termini giurisdizionali. Solo un'istituzione giudiziaria, indipendente dagli Stati membri e dal Consiglio, potrebbe farsi carico della missione essenziale di "guardiano dei trattati", che fin qui è stato compito affidato alla Commissione europea.
Questa distribuzione partirebbe dal presupposto che il Consiglio sia in grado, come lo fa oggi la Commissione, per indipendenza e funzionamento collegiale, di far' emergere l'interesse collettivo aldilà delle preoccupazioni nazionali. É realistico ciò? Siamo sicuri che questa via non sia quella, regressiva, del ritorno al "ognuno per se"?
Già oggi, traducendo le difficoltà interne di coordinazione degli Stati membri, il Consiglio dei Ministri sempre più frequentemente si affida all'arbitrato del Consiglio europeo. Proprio perché il Consiglio europeo procede per via consensuale, tralasciando la pratica comunitaria, e si pronuncia anche su questioni di competenza nazionale, la sua irresistibile ascesa suscita numerose speculazioni sull'avvenire del metodo intergovernativo. L'emulazione collettiva, la pressione dei partner, il confronto tra situazioni nazionali o la difesa delle pratiche migliori sarebbero la formula moderna del lavorare in comune. Niente più monopolio d'iniziativa per la Commissione, niente più obbligo di risultati, bensì scambi di opinioni, delle raccomandazioni, dei codici di buona condotta, dei processi, degli appuntamenti.
Le "norme morbide" così prodotte sarebbero più efficaci di quanto non lo siano le loro varianti tanto legislative quanto "rigide"? Il consenso per queste orientazioni politiche, sarebbe in grado di produrre più risultati in meno tempo, di quanto non sappiano le decisioni prese a maggioranza qualificata, sottoposte ad un controllo giudiziario? É la scommessa insita nelle discussioni avviate sul "pacchetto fiscale". I lenti progressi della politica estera comune negli ultimi trent' anni mostrano, che la concertazione consensuale, quanto meno, non è una via rapida. All'inverso, in materia di ambiente, si vede bene come l'Unione ha progredito, nel momento in cui il Trattato ha saputo riconoscere una specifica competenza comunitaria. In oltre osservo che è proprio verso la Commissione, ed i lavori comunitari, che i governi si rivolgono quando si tratta di prevenire catastrofi che naturali non sono, come quella, ad esempio, del Erika.
"Ognuno per tutti": il rinnovamento comunitario
Si è spesso sottolineato il carattere del tutto singolare e l'equilibrio particolare della costruzione europea. L'architettura delle sue istituzioni non riflette la separazione dei poteri che possono aver avuto in mente Montesquieu o Locke, bensì un modello di spartizione di potere. Di conseguenza il potere legislativo spetta al Parlamento europeo, ma anche al Consiglio; che a sua volta, il potere esecutivo, lo condivide con la Commissione europea.
La Commissione europea è la chiave di questa architettura. Riveste funzioni esecutive ma anche parte delle funzioni legislative per via del suo diritto d'iniziativa, funzioni quasi giurisdizionali nonché, in alcuni settori, competenze di regolamento autonome. Il suo Presidente e i suoi membri traggono la loro legittimità dalla fiducia, in loro riposta, da entrambi, capi di Stato o di governo e Parlamento europeo.
Al centro del sistema, la Commissione europea rappresenta concretamente l'avanguardia, che trascina, propone e che può sanzionare. É il luogo di coerenza e di sintesi, che si fa carico dell'interesse generale, là dove gli interessi degli Stati membri se spesso sono paralleli a volte divergono.
Era una intuizione visionaria dei padri fondatori dell'Europa, aver immaginato, al fine di unire degli Stati divisi e comunque diversi, una forza sovranazionale e indipendente, guidata dall'interesse comune. Se anche annovera degli avversari, è giusto riconoscere che è alla Commissione europea che si deve, dopo cinquant'anni di costruzione europea, il fatto che l'insieme sia più grande che non la sola somma delle parti.
Questa organizzazione istituzionale, della quale la Commissione europea è il trait d'union, ha fatto le sue prove. Ha permesso di avanzare, di costruire una casa comune, pur mantenendo la diversità degli Stati, dei popoli e delle culture. Ha reso la sovranità condivisa un principio di funzionamento creativo e democratico.
Perché abbandonarlo? Perché preferirgli altre architetture, a cominciare da quelle da me descritte? Certo il modello comunitario ha i suoi limiti. Ne vedo due fondamentali, che vanno presi in considerazione ed affrontati.
Il primo limite riguarda il campo di competenze dell'Unione, fortemente ampliato dal susseguirsi dei trattati. La posta in gioco, in campi relativamente nuovi come la questione della sicurezza, della giustizia o della polizia, è quella di istituire dei sistemi di arbitraggio e di azione che rispettino la forza e l'efficacia del metodo comunitario.
Sarà necessario specificare, meglio di quanto questo fin qui sia stato fatto, come esercitare i nuovi compiti dell'Unione. E quando la decisione sarà presa, il modo di agire per metterla in atto, a quale livello - centrale, nazionale, locale - e con quali interlocutori - amministrazioni, imprese, società civile. Non si potrà, in questo contesto, ignorare l'ascesa, in termini dipotere e di capacità economica, delle regioni, la loro spiccata attitudine ad agire in prossimità del cittadino che ne fa dei partner a tutti gli effetti per gli organi istituzionali.
Completando la riflessione già approfondita sulla sussidiarietà, lo sforzo chiarificatore dovrà inoltre portare sull'opportunità per l'Unione di agire o meno.
Infine andrà detto in quale maniera strutturare meglio l'azione legislativa e regolamentatrice - senza ledere i poteri del Parlamento europeo, del Consiglio dei Ministri o della Commissione, mettendo però fine alla confusione di generi della quale attualmente soffre il nostro sistema, mancando di una netta distinzione dei principi legislativi che governano la modalità della loro applicazione.
Il libro bianco sul governo europeo ad iniziativa del Presidente della Commissione, Romano Prodi, sarà una tappa fondamentale per quanto concerne questa riflessione, della quale l'Unione ha urgente bisogno per ritrovare una spinta.
Il secondo limite del modello comunitario è di natura politica. A dispetto di quanto estesi siano i compiti attribuitigli con il tempo, a dispetto anche dell'influenza che la sua azione esercita quotidianamente sulla vita delle persone, la Commissione europea non gode che di una legittimità indiretta, e per dirla tutta anche un po' incerta, che alcuni giudicano ormai ridotta a ben poca cosa.
Confrontata ad un Parlamento europeo, legittimo in quanto espressione del suffragio universale diretto, confrontata ad un Consiglio, legittimo perché riunisce governi democraticamente designati, la Commissione europea dovrà pur un giorno, per continuare ad essere forza trainante della costruzione europea, poter disporre anch'essa di una qualche legittimazione democratica, diretta o indiretta che sia.
Al di là dell'esigenza di riforme e di un'aggiustamento interno appena avviato, rivitalizzare il modello comunitario richiede dunque, a corto o medio termine, diversi passaggi evolutivi.
In primo luogo bisognerà un giorno esaminare seriamente l'ipotesi di una elezione del Presidente della Commissione. Per bilanciare il diritto di censura di cui dispone il Parlamento europeo nei confronti della Commissione, sarebbe appropriato prevedere un diritto di scioglimento dell'assemblea, ad opera sia del Presidente della Commissione, previo il via libera del Consiglio europeo, sia dal Consiglio europeo su proposta del Presidente della Commissione. Ad un potere presidenziale forte può essere dato corpo da una persona sola: può però essere esercitato - e la modalità di funzionamento attuale della Commissione europea lo rende possibile - sotto forma collegiale.
La logica di questo modello vorrebbe che a termine l'Alto Rappresentante dell'Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune, oggi identificato con il Segretario generale del Consiglio, faccia parte del collegio della Commissione, verosimilmente con il posto di primo vice-presidente.
I Parlamenti nazionali dovranno, più di quanto sin' d'ora non sia il caso, partecipare alla costruzione europea. La riflessione deve proseguire nell'ambito del rinnovamento della COSAC, che associa il Parlamento europeo e le diverse commissioni parlamentari incaricate in ogni stato membro degli affari europei. Sarebbe del tutto naturale che contribuiscano a controllare l'effettiva applicazione del principio di sussidiarietà.
In fine, questo rinnovamento richiede anche di dotare l'Unione di un testo costituzionale che definisce chiaramente i principi fondamentali della costruzione europea e dei compiti che nel suo ambito ad ognuno spettano.
III - Conclusioni provvisorie
Con la rapida presentazione di queste tre vie ho voluto fare emergere le grandi linee di quello che, nella realtà, per forza di cose, si presenterà in modo molto più complesso - tenendo conto inoltre che vi sono moltissime varianti, molti collegamenti possibili tra le tre vie maestre.
Aldilà di questi tre percorsi istituzionali ne esiste un quarto, che nei fatti non va trascurato: il peggiore di tutti, lo status quo. Non consiste in altro che lasciare che l'Unione si insabbi per anni, passando da una riforma ridottissima all'altra, da Consiglio europeo a Consiglio europeo, senza mai cambiare nulla di sostanziale. A conti fatti un'Unione europea come a dire "onusiana", le cui istituzioni in affanno sarebbero incapaci di qualsiasi decisione, tanto meno di una qualche visione strategica. Un'Unione malvista perché semplicemente inutile.
Il merito e il coraggio di Joschka Fischer è di dire adesso che per quanto riguarda la Germania di cui è Ministro, una tale via è da escludersi per principio. E questo vale anche per altri paesi come la Francia, che lo dice, con parole sue, mentre si accinge ad assicurare la presidenza dell'Unione europea.
Un'avanguardia o una cooperazione rafforzata?
Se scarta lo status quo, Joschka Fischer non precisa però quale, tra le diverse vie, è quella che va seguita. Dopo aver respinto il modello federale storico, quale "elucubrazione artificiale", quando evoca una federazione di Stati-nazione, lo fa da intergovernamentalista o da federalista? A quale realtà corrisponde questa formula, volutamente equivoca, che associa gli opposti? Quale corso per il sistema europeo? É tutta la forza e l'abilità della sua iniziativa che lascia aperta più di una porta e che, più che proporre un modello definitivo, si appella ad un sussulto politico per troppo tempo rinviato. Ed è per questo che si è assistito ad un plauso all'unisono al suo discorso da parte sia di gollisti in Francia che di federalisti in Belgio o in Italia.
L'approccio di Joschka Fischer resta però quanto mai esplicito su un punto ben preciso: sembrerebbe escludere la possibilità di un'Europa che possa essere insieme forte e allargata. Non credeche una di queste vie possa essere imboccata da tutti allo stesso istante e che si possa così assicurare la forza e il dinamismo ad un Europa dei trenta.
Il progetto politico europeo secondo il Ministro tedesco si rinnova attorno a un centro di gravità composto da alcuni Stati membri e da istituzioni comunitarie rinnovate. In questa maniera si delinea certamente un'Europa a due piani. Un piano comunitario, rinnovato nella misura del possibile con le revisioni istituzionali in corso. E il piano dato da quegli Stati disposti ad unire in maniera più stretta ancora le loro politiche e i loro destini.
É il caso di raggiungere Joschka Fischer su questo suo timore di un fallimento ineluttabile? Ha ragione, sin d'ora, a volere, insieme a Jacques Delors, prevenire o bypassare l'impotenza collettiva per mezzo di un "centro di gravità"? É il caso di offrire, a quegli Stati candidati, che tanto si sforzano per recuperare il loro ritardo, la prospettiva poco incoraggiante di veder partire il treno, quando sono appena arrivati in stazione?
Per quanto mi riguarda, oggi, ho la speranza che il successo della conferenza intergovernativa in corso, con le nuove flessibilità della cooperazione rafforzata, confermi la validità del modello comunitario piuttosto che non squalificarla. E che possa incitare ad un rinnovamento, nell'interesse di tutti, affinché gli Stati membri attuali e futuri possano continuare a far fruttare gli acquis e avanzare insieme - anche se le velocità sul cammino comune non sono tutte e sempre identiche a cospetto dell'avvenire.
Abbiamo i mezzi , all'interno dell'Unione allargata, per rispondere alla difficile questione della diversità di ambizioni e di risorse. L'industria dell'armamento, la politica di difesa, di cooperazione in materia giudiziaria ... sono tutti progetti rispetto ai quali forse non tutti vorremo o potremo impegnarci; tutti dunque, esempi calzanti di una possibile cooperazione rafforzata - alla stessa stregua di una autentica coordinazione delle politiche economiche che i membri dell'euro-11 saranno tenuti ad approfondire.
Ci sono sempre stati e sempre ci vorranno dei paesi disposti ad andare avanti e in modo più spedito, incoraggiati dall'esperienza e animati da una volontà di integrare più rapidamente le loro politiche. Aldilà di quello che il Trattato consente, nulla impedisce a questi Stati di concertarsi regolarmente e di sintonizzare le loro posizioni. E perché mai, quello che si può fare in due, per mezzo di vertici bilaterali, non potrebbe farsi in sette o otto? Niente impedisce un procedere in maniera aperto e informale, senza un dispositivo istituzionale strutturato.
A tutto ciò però una condizione: che il modello comunitario sia effettivamente rinnovato, aldilà del solo ribilanciamento in corso. Che possa imporsi quale via dell'efficacia e della legittimità. Se il cammino comunitario non funziona più, questo divide. E verrà il tempo allora di costruire, appartandosi, quello che si sarebbe potuto costruire insieme.
*Nei mesi che vengono saremo chiamati a confrontarci con le difficoltà che incontrarono, cinquant'anni or sono, i fondatori dell'Europa.
Come loro, come l'avevano auspicato, dovremo prima sigillare l'accordo tra gli Stati, non sulla base di sogni o di vaste e distanti prospettive, ma bensì sulla realtà degli interessi che ognuno nutre, mettendo l'ingegneria al servizio de compromesso più ambizioso. Questo è il primo tempo ed è adesso.
Come loro non hanno mai smesso di intravedere, saremo poi chiamati ad inventare, dietro le parole e le visioni astratte, l'avvenire di un'Europa sempre diversa ma più unità. Dopo cinquant'anni di vita comune, non c'è audacia che non possa essere permessa. Questo secondo momento, forse, sarà per fra poco.
Michel Barnier