Panorama, 29 febbraio 1996MORTI CHE CAMMINANO
Dentro, un lettino per l'iniezione letale. Fuori, trecento croci bianche: quelle dei detenuti giustiziati ad Angola prison, in Louisiana. Un inviato molto speciale racconta le loro ultime ore.
di Sergio D'Elia
Death, morte. Life, vita. Due parole chiave ad Angola Prison come nella storia di tutti. Due termini apparentemente opposti. "Death" e' la risposta di un detenuto nel braccio della morte alla domanda a quale pena sei stato condannato. "Life" e' la risposta di un altro che dal braccio della morte e' uscito, ed ora e' "libero" nei campi a lavorare, la pena commutata all'ergastolo, "life" appunto. In nessun posto come ad Angola Prison i due termini si legano fino a identificarsi come in un cerchio dove la fine di un punto segna l'inizio dell'altro. Un cimitero con trecento croci bianche tutte uguali sulla terra scura dà il senso terribile di una storia che finisce allo stesso modo, e di una giustizia "uguale per tutti". Li' sono seppelliti i condannati a morte e i condannati a vita che anche le loro famiglie hanno rifiutato. Una volta morti non vi e' stato nessuno al mondo che si sia presentato al carcere a richiederne il corpo.
Eravamo arrivati in aereo al mattino presto a Baton Rouge, citta' importante della Louisiana, io, Alessandra Filograno, responsabile stampa e dirigente di Nessuno tocchi Caino e Matteo Licht, giovane scrittore e giornalista americano. A New York avevo passato una notte difficile, fatta di veglia alternata a un sonno leggero e inquieto. Mi succedeva cosi' quando ero in carcere, ogni volta che l'indomani all'alba sarei dovuto partire verso un altro "speciale". L'odore di vomito misto alla puzza di sigarette dei furgoni blindati delle "traduzioni", le dodici ore da passare con gli schiavettoni ai polsi nell'angusta cella di sicurezza, e l'incognita del nuovo carcere, mi facevano star male dal giorno prima. La tensione scende un po' solo quando si parte. Un autista su una Lincoln nera un po' esagerata ci aspetta all'aeroporto. Texano, trasferito a New Orleans per lavorare e per studiare legge, anche lui e' un'abolizionista e la visita al carcere lo avrebbe interessato quanto noi. Arriviamo ad Angola dopo cento c
hilometri percorsi verso il nord su una superstrada che attraversa paludi e piantagioni dai nomi francesi: Bains, Solitude... Mi sembra di riconoscere l'America dei film, grandi distese e lunghe distanze insieme al paradosso di un limite di velocita' a 55 miglia all'ora che non ti fa arrivare mai e nemmeno ti salva la vita, a giudicare dalle croci ai lati della strada che segnano incidenti mortali. E il limite di velocità non risparmia neanche i cani, che vediamo schiacciati sulla strada, detti "hamburger da autostrada" per come facilmente finiscono sotto i camion. La strada, senza annunci o indicazioni, finisce ad Angola quando meno te l'aspetti, in una piantagione dell'ottocento di 18.000 ettari, ai confini del Mississippi, lo Stato piu' povero dell'America, che fa parte insieme a Florida, Georgia, Alabama, Louisiana, Texas di quella "death belt", la cintura dei paesi del sud degli Stati Uniti dove la pena di morte non si discute.
Il Louisiana State Penitentiary appare all'improvviso in mezzo alla nebbia. A parte l'ingresso, che assomiglia al frontale di un tempio greco, per il recinto e i bracci del carcere che si vedono da fuori potrebbe essere il carcere speciale di Novara o quello di Voghera.
Un cartello all'ingresso ci avverte che e' severamente vietato introdurre armi, esplosivi e droga. L'avviso e' firmato dal Warden, il direttore, che si chiama Burl Cain, si proprio cosi' "Cain", come il nome della nostra associazione "Nessuno tocchi Caino". Una coincidenza incredibile, che abbiamo giudicato favorevole. Per questo, pensiamo, abbiamo ottenuto il permesso di entrare! Anche perche' - avevamo saputo - il direttore e' nell'occhio del ciclone. E' stato nominato dal Dipartimento di correzione su indicazione del governatore dello Stato della Louisiana, Edwin W. Edwards, eletto come democratico quattro anni fa e poi passato ai repubblicani, favorevole alla pena di morte e al diritto dei cittadini di portare armi. Dopo un anno di Angola, Cain e' ai ferri corti con il governatore: ha attenuato il regime interno al carcere, anche nella sezione di massima sicurezza e nello stesso braccio della morte. Ad Angola ci sono 4.800 detenuti. Lavorano tutti tranne quelli del death row dove i condannati non hanno a
ltra mansione che quella di tenere pulita la cella. A loro il direttore ha riservato molti programmi religiosi e l'unico momento di "socialità" tra i condannati del braccio è quando vanno nella cappella, però legati mani e piedi. Al direttore non va di giustiziare un detenuto che non sia diventato un buon cristiano. Per questo il Governatore lo vuole cacciare, e allora lui puo' aver considerato che una organizzazione che in inglese si chiama "Hands off Cain" (letteralmente "giu' le mani da Caino) puo' fare al caso suo. Infatti tutto scorre liscio. La perquisizione all'ingresso si risolve nel temporaneo sequestro di un paio di forbici nel portabagagli della Lincoln. Possiamo fare le foto e portare dentro una telecamera.
Perche' "Angola" chiediamo subito al direttore. Come immaginavamo, ci dice che era il nome di una vecchia piantagione, terra di schiavi e di deportazione dall'Africa. Ora e' terra di ergastolani e di condannati a morte, ma quest'altra coincidenza mi fa pensare che abolire la pena di morte e' difficile ma puo' avvenire anche in America. Come e' successo ad Angola e in America per l'abolizione della schiavitu' e la conquista di tanti diritti civili che hanno fatto degli Stati Uniti un paese libero. E ad Angola, un tempo terra di schiavi ed oggi terra di ergastolani e condannati a morte, scopriremo altri segnali importanti. Warden Cain ci dice che quando e' giunto un anno fa era un convinto fautore della pena di morte. Come tanti americani pensava molto semplicemente che chi ha ucciso deve essere ucciso. Occhio per occhio dente per dente: e' scritto anche nella Bibbia. Ma in un anno ha accompagnato nella camera della morte due condannati, l'ultimo il 16 maggio dell'anno scorso, Thomas Ward condannato per omicid
io. In entrambi i casi, Cain con un cenno del capo ha dato il via alla procedura dell'esecuzione tramite iniezione letale. Il direttore ora e' tormentato dai dubbi sul suo lavoro: da una parte c'e l'uomo d'ordine, rispettoso delle leggi - e la pena di morte e' legge nel suo paese e la legge gli impone di avviare la procedura di morte -, dall'altra parte c'e' l'uomo che ha visto davvero cosa e' la pena di morte, ed ora non condivide l'ipocrisia dello Stato che uccide e poi si nasconde quando lo fa, a mezzanotte, nel segreto di una prigione. Se il condannato e' daccordo, lui è daccordo sul fatto di trasmettere le esecuzioni in televisione. In queste settimane, molti condannati si stanno facendo ammazzare con i metodi piu' orribili, impiccati o fucilati come John Albert Taylor nello Utah. In questo modo, forse fanno scoppiare il caso pena di morte negli Stati Uniti.
Il direttore ora e' un uomo combattuto, da una parte c'e' sua moglie, credente, che gli dice che non e' giusto quello che fa; dall'altra il governatore che lo vuole mandar via perche' ha umanizzato il carcere. Cain, dopo un anno di Angola, si capisce che crede meno nella giustizia del suo paese, intesa come vendetta o come legge del taglione, mentre crede sempre piu' nella giustizia come rispetto della dignita' del condannato e possibilita' di riabilitazione. Cain sta tentando ad Angola qualcosa che non esiste in altre carceri e che se fosse conosciuto potrebbe far emergere una realta' e forse un esito diverso della vicenda pena di morte negli Stati Uniti. Entrando nel braccio della morte di Angola mi rendo conto che qui sta accadendo qualcosa di diverso da ciò che avviene negli altri bracci della morte in America ma anche di paradossale: un'impresa di "umanizzazione" che confligge con la struttura e la realta' della pena di morte. Perchè qui si tenta qualcosa che poi, inesorabilmente, si conclude nella came
ra della morte. Nel braccio, diviso su tre piani, due file di quattordici celle per piano, ci sono al momento della nostra visita 58 condannati a morte. Erano 56 la settimana scorsa, saranno 60 la prossima. La struttura del braccio e' quella di una sezione di massima sicurezza di un carcere italiano, ma dentro tutto e' piu' piccolo e contrario al benchè minimo senso della privacy. Le celle non sono delle stanze chiuse ma delle gabbie alte due metri, sono una accanto all'altra che fanno un lungo pollaio senza voci ne' rumori. La vita qui si e' fermata, per ogni detenuto, in media, quattordici anni. Sulla parete di fronte del corridoio, fuori dalle celle, ci sono quattro televisori per quattordici detenuti. Un televisore ogni tre, quattro detenuti. Il programma chi lo decide? chi ha il telecomando? chiedo. "Quello che ha la fortuna di stare proprio nella cella di fronte", mi ha risposto uno. E il telecomando in pratica e' un manico di scopa con cui agisce sui tasti. Chi sta tra due televisori, non capisce nien
te e allora non lo guarda.
Nel braccio si arriva attraverso corridoi e cancelli che a noi si aprono con una facilita' che non ho mai visto a Novara, Cuneo, Fossombrone, Trani, Badu 'e Carros. In ogni punto di confluenza di corridoi non manca mai un distributore automatico di Coca Cola, un contrasto forse soltanto per me che non sono americano; per loro deve essere naturale che la Coca Cola ti accompagni fino alla morte. Si arriva davanti ad una porta dove c'e' scritto "Death Row" in un corsivo che vorrebbe sdrammatizzare. Non e' facile superare quella porta, neanche per chi come me ha fatto l'esperienza del vuoto nel carcere di massima sicurezza. Qui hai una percezione e una vertigine in piu', quelle dell'oltrepassamento di un punto di non ritorno. Dietro quella porta due cancelli ai due lati del braccio. Nella piccola anticamera una lavagnetta in legno con su i nomi dei condannati. Non abbiamo il permesso di entrare nel braccio con la telecamera. Una guardia ci dice che tra i detenuti c'è una sorta di superstizione. Se vengono ripres
i in Tv gli fissano la data dell'esecuzione. Ma possiamo vedere le celle dal cancello del braccio. Quando arriviamo un detenuto tira fuori uno specchio per guardarci, come facevamo noi negli speciali quando ci aspettavamo brutte visite o visite importanti. Due detenuti accettano di parlare con noi e cominciamo a capire che questo è un braccio della morte diverso da tutti gli altri in America. Li incontriamo, uno alla volta, ma senza grata o vetro divisorio in una sala colloqui simile ad un ambulatorio, vicina alla mensa e alla cappella: piastrelle grigie alle pareti, un tavolo di metallo, alcune sedie, due grandi finestroni alle pareti da dove si affacciano altre guardie. Entra per primo Ricky Langley. Ha una cinta di cuoio intorno alla vita con un grande anello di ferro che assicura ad essa la catena che lega le manette ai polsi, mentre una catena più lunga collega due ferri che gli serrano le caviglie. E' vestito di jeans, maglietta bianca, una felpa con cappuccio e scarpe da ginnastica, che vuol dire che
in questo braccio della morte è consentito indossare abiti propri e non l'allucinante tuta arancione degli altri death row. Ricky Langley è un bianco di 30 anni, da un anno e mezzo ad Angola e da quattro in prigione per aver ucciso un bambino di sei anni. Langley è uno "shorteyes" (con gli occhi bassi) come vengono chiamati gli stupratori e accusati di omicidio di minori. Sono odiati dagli altri detenuti come avviene, in base ad un personalissimo senso dell'onore del proprio crimine, in ogni carcere del mondo. Ricky Langley non ha mai negato la sua colpevolezza. Gli chiediamo cosa pensa della pena di morte. Ci pensa un attimo e dice "Io sarei contrario, ma nel mio caso l'ho richiesta io, non lo Stato". Perchè? "Marcire in cella è una tortura. La morte è una liberazione." Come passi la tua giornata? "Sto in cella 23 ore su 24. Ho orrore di svegliarmi al mattino perchè so già come sarà la mia giornata. Passo il tempo giocando al solitario, leggendo e urlando agli altri detenuti a mo' di conversazione". Suo vic
ino di cella era Thomas Ward, "giustiziato" nel maggio scorso. Il giorno prima dell'esecuzione gli ha detto che se la legge l'avesse previsto sarebbe andato lui al suo posto. "Non ho paura di morire". Ricky Langley ha fatto pure causa allo Stato che, recidivo dello stesso reato, lo aveva lasciato libero di uccidere.
Voglia di vivere ha invece Alvin Scott Loyd, il secondo detenuto che incontriamo nella sala colloqui. Ha 40 anni ed è in carcere dal 1983 per omicidio di primo grado. La sua condanna a morte e' stata commutata nel '91 dalla Corte Federale, ma è in attesa di una nuova sentenza, che - non capiamo perchè - potrebbe essere di nuovo una condanna a morte. Ci spiega che nello Stato della Louisiana per molti reati ci sono due gradi di giudizio. Uno per stabilire la colpevolezza e l'altro la pena. Mentre aspetta la nuova sentenza deve rimanere nel braccio della morte. Loyd ha la magrezza, il pallore, gli occhi scavati tipici di chi sta negli speciali, senza luce e poca aria. Gli chiediamo cosa pensa del direttore. "Per dieci anni non potevo toccare ed essere toccato da mia madre, durante le visite. C'era sempre tra di noi un vetro, una griglia. Ora grazie a Mr. Cain posso avere un contatto fisico. Durante queste visite posso non portare le manette." Mentre lo ascolto penso al mio articolo 90 di molti anni fa e al 41
bis di oggi dei detenuti all'Asinara: un colloquio al mese col vetro divisorio, senza poter telefonare nè scrivere. Ad Angola, Cain concede ai condannati molti benefici a patto che lo ricambino con la loro buona condotta. "Lui ci concede la massima dignita' possibile. Per questo, non e' un braccio della morte violento. Conosco detenuti in altri bracci che sono ben peggiori." Alvin Loyd ci ha confermato quanto ha detto Cain. Molti uomini nel braccio della morte subiscono un cambiamento profondo. Come sei cambiato? "Ero un alcolizzato. Ero arrabbiatissimo, avevo bisogno di aiuto. La maggior parte degli uomini condannati nel braccio della morte, non sarebbero qui se avessero avuto un po' di aiuto prima. Ma ora non sono arrabbiato."
Anche Antonio James non è più lo stesso uomo che rapinava e uccideva per le strade di New Orleans 14 anni fa. Il direttore stesso testimonia che è cambiato: è un "cristiano rinato", come si dichiarano i protestanti sudisti. Ma Antonio James dovrà morire il 1· marzo. Nell'aprile scorso mancavano 3 ore all'esecuzione, poi è stato accolto un appello e quando il direttore glielo ha detto lui era l'uomo più felice del mondo. Ora Antonio James ha finito gli appelli e non ci sono più speranze. Secondo mister Cain il Governatore non gli darà la grazia. Il trattamento umanitario di Warden Cain che produce risultati anche sui condannati a morte, qui ad Angola si conclude inesorabilmente nella casa della morte.
Ad Angola Prison si muore con l'iniezione letale. Le esecuzioni avvengono nel Camp F che ospita la Death House, un edificio basso, lontano 8 chilometri dal Death Row. Ci accompagna lì l'assistente del direttore, un uomo grassoccio, ma dall'aspetto possente. Mani grosse e due occhi piccoli di un azzurro chiarissimo. Sorride spesso e non vuole essere nominato. Fa la guardia ad Angola da più di 20 anni ed ha assistito a parecchie esecuzioni. Appena arrivati, ci indica una capanna davanti la casa della morte: una volta lì c'era il generatore che forniva la corrente per la sedia elettrica, usata l'ultima volta ad Angola il 22 luglio 1991, dopo di che è stato fatto il salto tecnologico e "umanitario" dell'iniezione di veleno. "E' solo molto meno drastica", considera l'assistente.
La porta della casa della morte è sempre aperta quando non sono in programma esecuzioni, e la prossima è il primo marzo, quella di Antonio James. Appena entri, trovi l'immancabile distributore automatico di Coca Cola. A destra c'è il piccolo braccio, cinque celle, dove i condannati vengono portati al mattino il giorno dell'esecuzione. In una cella un metro per due, c'è spazio per un lettino piantato per terra e per un monoblocco di acciaio tipo fontanella che fa sia da lavabo sia da gabinetto. Invece, entrando a sinistra c'è la camera della morte. Sono venti metri dalla cella dell'ultima cena che il condannato percorrerà a piedi. "Dead man walking", sono le parole dette ad alta voce da un guardiano che lo accompagna nella sua ultima passeggiata. E "Uomo morto che cammina" è anche il titolo del film di Tim Robbins girato proprio qui ad Angola con Sean Penn e Susan Sarandon che impersona Sister Helen Prejan, la suora che assiste i detenuti nel braccio della morte e che ha scritto il libro da cui è stato tratto
il film. Lo abbiamo visto a New York qualche giorno prima, in una sala piena, attenta e a tratti piangente.
Se nel death row l'aria e l'arredamento sono quelli di un ambulatorio, nella camera dell'esecuzione tutto riconduce ad una sala operatoria sommersa di luce bianca. Dove fino a qualche hanno fa c'era una sedia elettrica, ora c'è un letto a croce con 14 legacci, una croce con le braccia leggermente abbassate. Guardandola mi viene in mente come molti riconoscano nella croce un simbolo di pace mentre pochi considerano che essa un tempo è stata lo strumento di un supplizio. Qui ad Angola, la croce è ancora ferma al suo significato originario. Su una parete sono appesi due telefoni rossi e un orologio. Sulla parete opposta un grande finestrone dà su una stanza nella quale siedono i testimoni dell'esecuzione, tra cui i parenti delle vittime seduti accanto a quelli del condannato. Su una mensola c'è un microfono da conferenza con il quale il condannato può rivolgere le sue ultime parole.
Il direttore del carcere è per legge il primo grilletto dell'esecuzione: con un cenno del capo dà il via alla procedura. Warden Cain, che nella camera della morte ne ha accompagnati due, ci spiega cosa succede.
"Portiamo il condannato dal braccio della morte alla casa della morte. La mattina gli chiediamo cosa vuole per il suo ultimo pasto. Alcuni vogliono mangiare, altri no. La maggior parte vuole un panino con lattuga, pomodoro e pancetta. L'ultimo condannato ha voluto mangiare pesce, scampi. Alcuni non mangiano niente. Alcuni vogliono solo bere. Uno ha bevuto 20 Coca Cola. Concediamo al condannato l'ultima visita con la famiglia e puo' fare le ultime telefonate. Poi mangiano l'ultimo pasto. Io mangio sempre con loro l'ultimo pasto. E parlo con loro. Voglio accertarmi che siano cristiani e passare con loro questi momenti. Molti direttori di carcere non vogliono conoscere questi condannati. C'e' gente che lavora con me che non vuole conoscere i condannati e mangiare con loro. Dipende da ciascuno. Alle sei del pomeriggio partono coloro che sono venuti in visita. E mangiamo l'ultimo pasto. Il condannato puo' fare cio' che vuole fino alle 9. Poi gli cambiamo i vestiti, gli mettiamo una tuta, e gli mettiamo un grosso
pannolino. Alle 11 e un quarto, 11 e mezzo lo portano dalla cella per la sua ultima camminata nella casa della morte. Una volta si diceva Dead man walking, quando stava per fare la sua ultima camminata. Adesso non lo diciamo piu'. Almeno non qui. Quindi, arriva nella camera della morte. A quel punto, io gli concedo di dire, a voce, la sua ultima dichiarazione. In altre carceri puo' solo scrivere. E' mio parere che all'ultimo momento puo' avere da dire qualcosa alle famiglie delle vittime (che assistono) e io lo lascio parlare. Lo portiamo alla tavola e ci sono sette persone intorno. Due uomini per le gambe, un uomo per ogni braccio e due uomini per il torace, ecc. Lo leghiamo velocemente. Sulla parete c'e' un orologio e due telefoni. Una linea diretta al Governatore. Una al Dipartimento di correzione. Se squilla uno di questi telefoni c'e' una parola in codice che conosciamo solo io e il Governatore e il capo del Dipartimento di correzione. Se il telefono squilla e non mi dicono la parola in codice - l'ultim
a per esempio era "esodo" - allora procedo con l'esecuzione. Solo la parola in codice puo' fermarmi. Cio' impedisce che qualcuno possa intromettersi su questa linea. Mettiamo in ambedue le braccia gli aghi delle endovenose. In modo tale che se la vena in un braccio si rompe, funzionera' l'altra. I tubi dell'endovenosa attraversano un vetro e in quel momento nella camera della morte siamo solo io e il condannato. Siamo soli. I testimoni sono fuori della stanza e osservano da un altro vetro. A quel punto io guardo l'orologio e aspetto lo squillo del telefono. La prima volta, a mezzanotte io volevo aspettare ancora sei minuti, concedergli ancora un po' di tempo. Ma c'era troppo silenzio. E il condannato stava li' pensando che ogni respiro sarebbe stato l'ultimo. Invece, con Antonio James mi sono messo d'accordo cosi'. Prima di dare il segnale per mandare il veleno che lo uccidera' nel suo corpo, io gli diro' "lui ti sta aspettando", cioe' Dio. Allora lui non deve preoccuparsi finche' non sente queste parole. Qu
ando avro' detto queste parole daro' un cenno con la testa. Allora metteranno il veleno nell'endovenosa. Entrera' nelle sue braccia e lui si addormentera'. Probabilmente fara' due grossi respiri. Due volte. Cosi' e' accaduto l'ultima volta. Poi c'e' silenzio. E ci vogliono 12 minuti perche' l'elettrocardiogramma diventi completamente piatto. A quel punto faccio entrare i medici che constatano la morte. Dopo parlo con i giornalisti e dico loro che l'anima di Antonio James o di chiunque sia e' andata al giudizio finale. Perche' Dio e' il giudice finale. Non noi.
Io stesso non riesco a capire la lotta che sento dentro di me. E cerco di evitare di pensarci. Devo fare il mio lavoro. E questo deve essere il mio lavoro. E devo farlo bene. Che schifo!"
Fuori dalla casa della morte, a due passi, c'è l'accampamento dei "trusties", gli affidabili. Penso che li abbiano messi lì come davanti ad un monito, ad un monumento alla cattiva sorte che loro per un pelo hanno scampato. Lì davanti incontriamo George Square, 47 anni, 28 dei quali passati ad Angola e i primi quattro nel braccio della morte. Nel '72 la Corte Suprema abolì temporaneamente la pena di morte, e la sua condanna divenne l'ergastolo. Come era nel braccio della morte? "Avevo gli incubi mentre ero nel braccio. Ogni giorno pensi che stai per morire. Puoi solo pregare e sperare che un giorno ti venga commutata la sentenza. Ora non ho più incubi." Ora lui è addetto al ranch: alleva cavalli e li addestra, e crede che un giorno uscirà.
James Collins è ad Angola da venti anni, condannato per omicidio. Nel braccio della morte lui c'è stato otto anni e ora e all'ergastolo. Anche lui è un affidabile. Si alza alle 3 del mattino e va a lavorare. All'una rientra e rimane in cella fino alle tre del pomeriggio. Poi si rimette al lavoro fino alle cinque. Nelle giornate di riposo va a pescare al laghetto.
E seduto su una panchina con tre compagni, sotto una quercia davanti al laghetto dove altri detenuti stanno pescando, troviamo John Sims, anche lui ergastolano, anche lui affidabile. E' parecchio sdentato, grassoccio, coi capelli bianchi, un pacchetto di sigarette nella manica della camicia. "Ora sono da questa parte del sistema giudiziario, e so come funziona. La pena di morte non costituisce giustizia giusta. Per niente. Forse devi stare da questa parte del recinto per capirlo."
Partiamo da Angola con la convinzione di aver visto un esempio forse unico di contraddizione nel sistema della pena di morte. Maria Giovanna Maglie che ci ha organizzato questo viaggio e che sulla pena di morte negli Stati Uniti sta per pubblicare un libro, nutre invece la consapevolezza che lì non ci sono fortezze inespugnabili.
Il nostro viaggio si conclude, per ora, a New Orleans. Lì incontriamo Sister Helen Prejan, forse la persona più importante e attiva oggi negli Stati Uniti contro la pena di morte. L'avevamo conosciuta a Roma, al Primo Congresso internazionale di Nessuno tocchi Caino. E' rimasta affascinata dalla nostra campagna per la moratoria all'Onu nel 1996. E' membro della presidenza della National Coalition to Abolish the Death Penalty ed ha accettato di far parte anche della nostra presidenza d'onore. Ci ha detto che il Governatore della Louisiana sta facendo di tutto per far fuori Burl Cain, il direttore di Angola e ci ha parlato di un altro direttore, Don Cabana, direttore della prigione di Parchmain, nel Mississipi. Dopo aver assistito a due esecuzioni nella camera a gas, è diventato abolizionista, si è dimesso e ha scritto un libro, "Morte a mezzanotte. Confessioni di un boia".
9 Febbraio 1996