Il Mattino, 2 dicembre '97 prima paginadi Sergio D'Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino
Leggo le cronache sul "mostro di Cicciano" e mi sembra di non riconoscere più il Paese che ha pianto e si è mobilitato per Joseph O'Dell.
Il dolore del padre della vittima che grida vendetta lo capisco e lo rispetto: è un modo sacrosanto di fare i conti con la profondità del male che lo ha colpito. Capisco e rispetto anche il disonore della figlia del carnefice che grida vendetta: è un tentativo estremo di pareggiare i conti con il senso di colpa che è caduto sulla famiglia e che lì si è fissato, eredità ancora più stretta e insopportabile dopo la morte del padre assassino. I cortei della gente di Cicciano a metà tra il linciaggio e la forca già non li comprendo. Più che un sentimento di dolore, esprimono il senso di colpa di una comunità che non ha saputo vedere, capire, parlare. Più che del dolore del padre della vittima, quella gente ha partecipato del disonore della figlia del carnefice.
La strumentalizzazione forcaiola di alcuni politici e la demagogia a buon mercato di alcuni sondaggi erano nel conto. Non c'era da dubitare che in occasione del terribile crimine commesso qualcuno avrebbe tirato in ballo la proposta facile facile della pena di morte oppure proposto il televoto (anche se stavolta non è stato chiesto neanche il "sei favorevole o contrario?" di rito, ma piatto piatto "pena di morte ai pedofili?", con l'85% prevedibile di sì).Questo avviene ogni volta ma poi passa. Grave semmai è stato l'aver presentato gli autori del delitto come "i pedofili" invece che , innanzitutto, i violentatori assassini di un bambino, e questo ha prodotto una criminalizzazione generale che sta inducendo parlamento e magistratura a proclamare una guerra alla pedofilia che rischia di fare vittime innocenti, che sono vittime innanzitutto di questa generalizzazione. Ma il fatto più grave e irreparabile, che ci ha portato ai fatti di oggi, è stato l'aver sbattuto in prima pagina un autore del delitto definito
come "mostro". Questa de-gradazione a non persona ha portato molti a considerarlo, prima, un animale che può essere legittimamente abbattuto e, una volta morto, un "infame" a cui non può essere concessa una degna sepoltura. Facendo questo, molti, in questi giorni, non si sono resi conto di aver condiviso il "codice d'onore" in vigore nelle carceri che fissa non la gravità ma la nobiltà o meno del reato, un codice in base al quale viene riconosciuta o negata ad un detenuto dignità e valore di essere umano. Molti non si sono resi conto di aver legittimato un codice terribile che prescrive il "divieto d'incontro" in carcere tra chi ha ucciso un poliziotto e chi ha stuprato un bambino, codice che considera il primo un uomo d'onore da rispettare e temere, mentre il secondo è un infame che merita di morire. Questo malinteso senso dell'onore del reato che azzera ogni umanità, ha unito sui fatti di Cicciano carcerieri e carcerati, giornalisti e intellettuali. Mai come in questo caso occorrerebbe, invece, ricordare
che "infame" può essere considerato il reato non il reo; che obiettivo della giustizia è perseguire con rigore il reato, ma mai giungere all'esecrazione del reo, a porgli addosso un marchio d'infamia, a degradarlo ad uomo senza dignità, che sono i presupposti della richiesta di pena di morte.