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Poretti Donatella - 7 novembre 1999
IL PATIBOLO E IL PENTITO THOMAS MANN
Onu e pena capitale

Da IL CORRIERE DELLA SERA, domenica 7 novembre 1999

di CLAUDIO MAGRIS

Nelle grandiose anche se talora aberranti Considerazioni di un impolitico, scritte durante la Prima guerra mondiale contro le democrazie occidentali, Thomas Mann difende la pena di morte. La difende con toni asciutti e austeri, probabilmente piu' efficaci di quelli che stanno usando in questi giorni all'Onu i rappresentanti di Singapore o degli Stati Uniti per contrastare la richiesta, avanzata dall'Unione europea, di una moratoria delle esecuzioni e per opporsi dunque all'abolizione della pena capitale.

Mann difende, in quegli anni, la pena di morte in nome di un'etica che si assume tutte le responsabilita' di ogni gesto umano e delle sue inevitabili conseguenze, senza abbandonarsi a generosi ma facili slanci del cuore; si appella al dovere - che egli giudica doloroso ma ineludibile - di tutelare la societa' e di ristabilire, con una sorta di risarcimento, l'ordine, i valori e gli affetti violati dal delitto, il cui autore non viene additato da lui come una belva da eliminare bensi', senza odio, come il colpevole di una gravissima infrazione dell'umano che esige, quasi obbedendo a una oggettiva legge fisica, una corrispondente riparazione. Le obiezioni alla pena capitale - la sua barbarie, la sacralita' della vita, il senso umanitario, l'esigenza di offrire al criminale una possibilita' di riscatto morale, il divieto divino di vendicare su Caino il sangue di Abele - gli appaiono un pathos retorico e sentimentale, buono per un comizio.

Alcuni anni piu' tardi, convertitosi alla democrazia - anche perche' accortosi che il preteso realismo disincantato dei conservatori non e' meno retorico e comiziante dell'ideale progressista, con l'aggravante di tenere comizi per propagandare la diseguaglianza anziche' la parita' dei diritti - Mann si schiera contro la pena di morte.

L'argomento che egli adduce e', a prima vista, assai debole: la concreta esperienza di un'esecuzione capitale gli ha rivelato la sua natura di farsa crudele e sanguinosa, la sua intollerabile barbarie, e ha scosso la sua sensibilita'.

L'argomento appare debole, perche' le nostre reazioni psicologiche o sentimentali, la suscettibilita' dei nostri fegatini non sono la misura del giudizio etico e politico. Un'atrocita' e' tale a prescindere dalla reazione partecipe o indifferente di chi ne apprende notizia. Ognuno di noi, probabilmente, prova prima o poi l'impulso di fucilare qualcuno e talora l'impulso puo' avere le sue ragioni, ma tutto questo non e' un buon motivo per farsi giustizia da soli e non giustifica ne' la vendetta personale ne' la pena di morte. Ma proprio il discutibile argomento di quella ritrattazione suggerisce che forse Mann, quando parlava con tanta pensosa fermezza a favore della pena capitale, non sapeva veramente bene di cosa parlava; ne' discuteva in astratto, persuaso invece - come tanti realisti conservatori da tavolino - di conoscere la vita e la morte piu' dei democratici a suo avviso obnubilati dall'ideologia sentimentale e progressista. Quando guarda in faccia la realta' dell'esecuzione, tutto il suo severo argom

entare crolla come un castello di carte.

Ne' le varie associazioni che lottano per l'abolizione della pena di morte - da Amnesty International alla Comunita' di Sant'Egidio, per citarne solo alcune - ne' tantomeno l'Unione europea (che non e' una lega della temperanza, bensi' una compagine politica consapevole del ruolo della forza nella Storia) sono delle ingenue anime belle, sopraffatte dai sentimenti e incapaci di misurarsi con la dura realta'.

Che la pena di morte sia orribile e' un fatto indiscutibile, riconosciuto anche da molti di coloro che, in passato, hanno ritenuto di doverla mantenere nella legislazione ordinaria. Il rispetto e il riconoscimento dell'umano anche nel piu' abietto assassino e la possibilita' che egli assuma consapevolezza del proprio delitto, diventando un altro uomo, sono valori oggettivi. La domanda, che in questo estremo lembo di secolo e millennio ci si pone, e' se sia possibile realizzare quei valori ossia abolire la pena di morte. Se e' possibile, e doveroso. Sembra che lo sia ovvero che l'abolizione della pena capitale non provochi conseguenze tali da renderla improponibile anche a chi ragiona non secondo principi assoluti, ma tenendo conto di tutto il complesso meccanismo del reale, con le sue azioni e reazioni.

La pena, come e' noto, ha varie finalita'. Quella deterrente - intesa a distogliere, con la sua minaccia, dal commettere reati e a proteggere cosi' i cittadini - non sembra affatto meglio garantita dalla pena capitale; non si uccide meno la' dove esistono patiboli. La necessita' di mettere il colpevole in condizione di non nuocere ulteriormente - altra finalita' specifica della pena - non esige l'esecuzione; la carcerazione, nella durata e nelle forme corrispondenti al reato, realizza pienamente tale scopo.

Naturalmente la carcerazione dev'essere effettivamente adeguata al reato; troppo spesso accade che, per varie ragioni, autori di gravissimi delitti scontino di fatto una pena assai breve, piu' breve di quella scontata da autori di reati ben minori. Secondo alcuni, la pena di morte avrebbe una paradossale funzione egalitaria: in certe prigioni, alcuni condannati per reati anche orrendi (ad esempio alcuni mafiosi) conducono una vita quasi privilegiata, ben piu' confortevole non solo di quella di altri condannati per crimini analoghi, ma anche di quella, assai dura, di colpevoli di piccoli reati comuni o magari pure di tanti liberi e onesti poveracci che stentano a campare. La forca, si dice, eliminerebbe questa diseguaglianza, ma e' evidente che per correggere quest'ultima non occorrono sedie elettriche o ghigliottine, bensi' un effettivo controllo delle carceri. Quanto alla finalita' rieducativa della pena, e' difficile che un impiccato si rieduchi.

Oggi si puo' e dunque si deve abolire la pena di morte ed e' augurabile che la discussione non si areni nello scontro ideologico fra pretesi duri conservatori e pretesi teneri progressisti. Verosimilmente il dibattito all'Onu si complichera' di difficolta' relative a specifici Paesi e governi, mettera' in scena falsita' e ipocrisie; si vedranno regimi tirannici drappeggiati in panni umanitari, barbarie camuffate da diversita' culturali, manovre dilatorie e truffaldine. Non e' una ragione per desistere da questo "buon combattimento", per usare l'espressione di San Paolo.

Non e' l'eliminazione della pena capitale che puo' creare seri inconvenienti alle societa'. Altri gravi problemi urgono alle porte e si faranno sempre piu' incalzanti, incontrollabili enormi migrazioni di diseredati, piccola e media criminalita' indominabile, magistrati, poliziotti e carceri insufficienti, difficolta' di garantire a masse sempre piu' vaste e fluttuanti gli elementari diritti e cosi' via. Ma questi problemi non si risolvono con esecuzioni capitali in massa...

La vecchia Europa - madre del diritto e della democrazia, di tante utopie di redenzione ma soprattutto di scettica tolleranza e umanistico equilibrio - chiede, attraverso la voce delle sue componenti piu' ricche di esperienza liberaldemocratica, la fine di quel macabro rituale che e' la pena di morte e che un giorno apparira' a tutti barbaro come la pena della mutilazione. Quelle esecuzioni - che talora, con la presenza dei parenti delle vittime del colpevole messo a morte, sembrano trasformare la giustizia in tribale vendetta - devono sparire dalla faccia della terra. La Chiesa, che pur non ha mai condannato in linea assoluta di principio la pena capitale, tramite il Papa ha piu' volte dichiarato che, nelle condizioni storiche in cui viviamo, essa non ha ragion d'essere. Se il secolo-millennio si concludesse con la sua abolizione, si tratterebbe di una luce che illuminerebbe la sua fine. Di tragedie ne resterebbero comunque tante. Ma non siamo chiamati a trasformare la vita in un paradiso, bensi' a renderla

, quando si puo', un po' meno invivibile.

Se, come dice il poeta, non e' ver che sia la morte il peggior di tutti i mali, essa non e' certo neppure un buon rimedio.

 
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