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Gentile Guido - 15 dicembre 1995
LA LIBERTA' DI LINGUA
Da "Frontiere", rivista bioregionalista, anno V n.4 inverno 1994

LA LIBERTA' DI LINGUA

L'omologazione consumistica

della diversità etnoculturale in Italia

di Tavo BURAT

Il modello culturale consumistico del neocapitalismo è riuscito ad ottenere quell'omologazione, quell'annientamento della ricchezza rappresentata dal pluralismo etnico italiano, non raggiunta, anche se desiderata, dai governi oligarchici post-unitari e dal fascismo.

<Antropologicamente, un Siciliano era un Siciliano, un Albanese era un Albanese, un Friulano era un Friulano. Niente li aveva trasformati.

L'intervento della cultura di massa, dei mass-media, della TV, del nuovo tipo di scuola, del nuovo tipo di informazione e soprattutto delle nuove infrastrutture, cioè il consumismo, ha compiuto un'acculturazione, una centralizzazione che nessun governo, che si dichiarava centralizzato, era mai riuscito a raggiungere (1).

Al "consumismo" è da aggiungere la presunzione di risolvere tutto grazie alla tecnologia, che ha sostituito la Ragione sugli altari, con la conseguente miope politica di sviluppo che nella persona umana ha saputo valutare soltanto la dimensione produttiva, strappandola via con tutte le radici alla sua cultura, dal suo sistema di relazione con i vivi e con i morti; dalle sue cognizioni del tempo, della vita, della morte, della festa e del dolore.

LE BIOREGIONI sono state prima ignorate, poi sconvolte ed alla fine distrutte; nell'immane trapianto, non tutte le piante-persone hanno "felicemente" attecchito. Ci sono quelle che sono morte; altre, rimangono in piedi, ma patiscono in modo orrendo, non crescono più, vivono stentatamente, non danno frutti, sono intisichite; altre, sono "impazzite", hanno decodificato la società in modo sbagliato, si sono messe ad arraffare in modo orrendo ed a espandersi nel più schizofrenico dei modi, credendo di aver capito la logica che governa il mondo e che privilegia l'avere: dimmi quanto hai e ti dirò chi sei, cioè quanto "vali". La filosofia verde, ed in particolare la "politica" verde, non può prescindere da questo dramma. Sarebbe un errore gravissimo pretendere che si possa salvare il territorio (cioè il mondo vissuto dalla comunità) buttando via un elemento portante, una costruzione complessa e meravigliosa quale è la cultura dell'individuo cresciuto nel gruppo; la cultura formatasi nelle generazioni e (proprio

come la terra che ci è data in prestito dai nostri figli) patrimonio di chi ha ancora da venire. Un errore assurdo quello di pretendere che si riescano a rovesciare i canoni della cultura dominante, per instaurare quella alternativa fondata sulla misura, l'equilibrio, il risparmio delle risorse, l'autocontrollo, il senso di solidarietà, la partecipazione, e permettere che il potenziale alternativo che è nell'individuo venga azzerato. Occorre invece "sommare", fondere queste potenzialità per "resistere" al rullo compressore, e per "promuovere" quel diverso modello di sviluppo (cioè il "progresso" reale, positivo perché liberatorio) proposto dalla "filosofia" verde, e le "comunità locali" intese non come organi burocratici del decentramento, ma come BIOREGIONI, centri reali di contropotere in una società effettivamente pluralista (2).

Dobbiamo quindi renderci conto che in Italia, malgrado tutto, esistono ancora culture diverse che si esprimono con lingue diverse: non si tratta soltanto di "minoranze linguistiche" generalmente riconosciute come tali - Albanesi, Catalani di Alghero, Croati del Molise, Francesi e Franco-Provenzali, Greci di Calabria e Puglia, Ladini, Occitani, Sloveni, Tedeschi, Zingari; alle quali si aggiungono i Friulani, come appartenenti alla famiglia ladina e Sardi - ma anche delle comunità, tutt'altro che esili (anche se c'è il rischio di una caduta verticale, e cioè dell'estinzione nell'arco di due generazioni), parlanti i cosiddetti "dialetti", i quali, ben lungi dall'essere una variante o una "deformazione" dell'Italiano, sono vere e proprie lingue romanze, derivate cioè dal latino, proprio come le loro illustri sorelle (italiano, francese, catalano e castigliano, portoghese, ecc.): le parlate gallo-italiche (piemontese, ligure, lombardo, emiliano e romagnolo), il veneto, il siciliano, il pugliese, il napoletano,

l'abruzzese ecc. sono tutti "volgari" e dunque, semmai, "dialetti" sì, ma del latino e non dell'italiano.

Dialetti dell'italiano sono, in realtà, i diversi modi di parlare la lingua "nazionale" (la differenza di accenti, la musicalità detta anche "dialetto 1", la preferenza di certe strutture, ad esempio "stare" e "tenere" laddove al nord si usa "essere" ed "avere", ecc.).

Il fattore linguistico è la punta dell'iceberg della cultura alternativa, poiché ne rappresenta lo strumento d'espressione, ma non è il solo: vi sono attività economiche ed artigianali, valori architettonici e strutture urbanistiche, produzioni artistiche, musicali, ecc., del tutto alternativi rispetto a quelli della cultura dominante che tende a disincentivarli, emarginarli e ad annientarli, alla fine, trasformando il "produttore" di cultura in "consumatore" di una cultura omogeneizzata "premasticata".

La repubblica italiana si è totalmente disinteressata della tutela delle minoranze linguistiche, malgrado il chiaro assunto dell'art.6 della Carta Costituzionale. E' noto come soltanto il francese in Valle D'Aosta, il tedesco in provincia di Bolzano e (soltanto da pochi anni, ed in modo minore) in quella di Trento, lo sloveno in provincia di Trieste e (molto meno) in quella di Gorizia, hanno forma di tutela parziale e discriminante rispetto alle popolazioni italiane non tutelate, che parlano quelle stesse lingue in altre province della Repubblica. Da tre legislature sono insabbiate in Parlamento le varie proposte di legge per la tutela delle minoranze e molte altre proposte di tutela specifica (per gli Sloveni, per gli Albanesi), alcune anche di iniziativa regionale. Manca evidentemente la volontà del governo e dei partiti che lo compongono di portare tali proposte in aula. Se questa proposta globale costituisse un parziale successo, qualora venisse approvata, per la promozione del plurilinguismo naturale

in Italia, tuttavia essa è ben lontana dal soddisfare le preoccupazioni di una "politica verde"; spiace dover sottolineare come i nostri parlamentari su questa tematica si siano aggregati alle proposte di altre forze politiche senza aver espresso una doverosa impostazione originale. Le "minoranze" sono soltanto quelle che parlano albanese, greco, ladino, occitano, francese, tedesco, sloveno, ecc.? Per Sergio Salvi (3), sì. Per noi si tratta, invece, di superare l'assurda discriminazione lingua/dialetto per riprendere la tutela e la promozione anche dei cosiddetti "dialetti", che, lo ripetiamo, in realtà sono lingue neolatine alle quali è mancato il successo. Del resto, l'art.6 della Costituzione, giustamente, fa l'elenco delle lingue meritevoli di tutela (4), tant'è vero che i costituenti del 1946 non pensavano certamente nè al friulano nè al sardo, allora considerati appunto "dialetti" ed oggi, invece, accettati come "lingue": la "promozione" ottenuta da queste parlate neolatine regionali deve essere conse

ntita anche alle altre... Del resto, la costituzione spagnola prevede saggiamente che ogni regione possa promuovere, accanto alla lingua di stato (il castigliano), quella locale, consentendo così la tutela di altre lingue regionali (come, ad esempio l'asturiano, o bable) oltre al basco, al catalano e al galiziano. La redazione di un elenco di lingue alle quali sia concessa dall'alto (octroyèe) la tutela, sarebbe un regresso rispetto alla costituzione italiana ed a quella spagnola, e quindi al diritto comune europeo. L'art.6 riguarda tutti coloro che, coscienti di possedere una lingua diversa, ne pretendono "dal basso" la tutela e la promozione. Chi decide, deve essere colui che patisce la discriminazione, il "taglio della lingua", non il linguista accademico e neppure il politico. Chi non vuole la propria lingua tagliata, ha diritto alla parola.

La proposta di legge globale, invece, è "nazionalitaria": privilegia le minoranze che costituiscono una "nazione proibita" (Friuli, Occitania, Sardegna) od un frammento di nazione riconosciuta (francese, slovena, tedesca ecc.). Ciò significa ghettizzare il problema, separarlo dalla tematica generale, immiserirlo. L'impostazione "verde" è invece "libertaria", rivolta al recupero ed al rilancio di tutte le componenti della BIOREGIONE; di tutte le "valenze" cariche di un potenziale culturale alternativo.

Così le tematiche del pluralismo etnico non riguarderanno soltanto alcune "cittadelle" assediate lanciate dalla logica dell'impostazione "nazionalitaria" in un discorso esasperato di micro-nazionalismo, ma praticamente tutto il territorio della Repubblica, il quale è, nel suo complesso, costellato non da dieci o da dodici etnie ma da "mille culture". La vastità dell'impegno presenta illuminanti analogie con quello dell'abbattimento delle barriere architettoniche, che non deve riguardare soltanto i casi più drammatici, ma la concezione stessa della città pensata, strutturata, in funzione di "maschio venticinquenne di sana e robusta costituzione": infatti, i bambini incontrano le barriere che ostacolano i nani; le mamme che hanno il bimbo in carrozzina, quelle di un impedito al movimento sul suo mezzo mobile; le donne incinte, quelle degli obesi... Così è il pluralismo che va promosso in Italia e non l'Italia "una di popolo, di lingua e di religione" vantata dal generale Lamarmora, Presidente del Consiglio,

con tutt'al più una avara tutela per le minoranze rilevanti sul piano internazionale. Dalla concezione di ETNIA come RAZZA, si è passati a quella che pone NAZIONE ed ETNIA come sinonimi; ora ci sembra giunto il momento di superare anche quest'ultima, privilegiando - rispetto a quella inaccettabile, assurda di RAZZA ed a quello di NAZIONE, quella di CULTURA: per cui ci può essere un'etnia plurilingue (ad esempio quella "alpina"), articolata in BIOREGIONI (per restare nell'arco alpino e nel dorsale appenninico, rappresentato dalle valli). Il discorso "nazionalitario" porta, invece, ad omologare comunità del tutto diverse tra loro, ma rapportabili alla "lingua". Ad esempio, a ricondurre una comunità occitana delle Alpi occidentali al fattore "nazionale" occitano insieme a Marsiglia, piuttosto che a riscoprire analogie, o financo identità culturali con i Franco-provenzali, i Piemontesi e i Ladini dell'arco alpino.

Da quanto detto, discende che non ci si deve lasciare imbrigliare in una legge restrittiva, che fa alcuni "chiusi". Occorre, invece, conferire piena dignità sociale al discorso di "minoranza" comprensivo di chi vive in modo diverso (gli zingari, i pastori ecc.), di chi vuole parlare diverso, di chi rinuncia al profitto, affinché costoro non soltanto non vengano omologati, ma neppure discriminati, penalizzati. Anche all'interno della stessa comunità alloglotta esistono, del resto, differenze da rispettare: sono le varietà dialettali, che non devono essere mortificate; esigenza, quest'ultima, che va contemperata con quella della promozione di una KOINE' - cioè friulano comune, sardo comune, piemontese comune ecc. - necessaria per la promozione della lingua minoritaria rispetto a quella ufficiale dello Stato: una politica linguistica, cioè, analoga a quella dei Catalani, dei Baschi, dei Bretoni, dei Gaelici, dei Retromanci, che adottano una lingua comune "normalizzata", innestandola sulle varianti locali, pu

r rispettate nelle loro realtà.

La tematica verde deve farsi carico delle differenze, tutte. Il rapporto fra differenti non deve risolversi in conflitto (il che significa preoccuparsi sempre di promuovere la cultura del rispetto reciproco), nè in prevaricazione, nè in assimilazione, nè in ghetto. Dobbiamo "far produrre" queste differenze, di cui l'Italia è tuttora straordinariamente ricca. Dobbiamo renderci conto che una lingua che muore è una sventura, un danno non minore all'estinzione di una specie animale o vegetale, di un monumento (struttura architettonica, statua, dipinto) che rovina. Si tratta, ripetiamo, di una "struttura portante" il cui crollo trascina altri crolli, altri disastri, sovente irreversibili quanto l'inquinamento e la compromissione del territorio.

Dobbiamo far risaltare come la tematica della entità culturale sia strettamente connessa a quella ambientale, non soltanto perché può essere riscatto di una nazionalità sommersa, proibita, ma soprattutto perché costituisce un fattore determinante per l'equilibrio nella BIOREGIONE.

Questa tematica è tutt'altro che priva di rilevanza economica. E' infatti evidente, ad esempio, che i Walser (cioè gli Alemanni del Piemonte e della Valle D'Aosta), ed in genere i componenti delle isole linguistiche, dovrebbero poter usufruire di una scuola bilingue, ora riservata soltanto a quei benestanti di città che possono permettersi di mandare i propri figli ad imparare il tedesco nelle scuole svizzere.

Oggi, il possedere una lingua straniera costituisce un'indubbia chance in più per trovare occupazione.

Se ciò è evidente per minoranze dell'area germanica, essendo la consoscenza del tedesco una specializzazione tutt'altro che economicamente irrilevante, vale anche per gli sloveni e i croati (l'Italia non abbonda di slavisti), per gli Albanesi e i Greci, posto che la Repubblica intrattenga rapporti diplomatici, economici e culturali con gli Stati che hanno come lingue nazionali le nostre "isole" linguistiche.

Come sosteniamo che la politica della difesa del territorio offrirebbe posti di lavoro, così l'apertura delle scuole alle parlate locali consentirebbe a molti insegnanti "bilingui" di essere utilizzati all'interno della propria comunità.

Oggi invece, abbiamo abilitati all'insegnamento dell'albanese che emigrano al nord come insegnanti di francese! Ho conosciuto un giovane di San Felice del Molise, che, grazie alla consoscenza del suo dialetto croato, è divenuto assistente di slavistica all'università di Napoli, sfuggendo al destino di emigrare come operaio generico in Germania, insieme ai suoi coetanei che patirono la mortificazione del loro bilinguismo naturale nelle scuole medie dei paesi croati ed albanesi del Molise dove, come lingua straniera, si insegna il francese!

Ma c'è un discorso di rilevanza economica più sottile e generale. Il trapianto di cui abbiamo detto, ha avuto costi delinquenziali arrecati dal tipo distorto di sviluppo (economico), e costi "minori" (quali i drammi intimi e familiari) costituenti, tutti, dei costi "extra-economici" non previsti dai programmatori di "piani" paracadutati sul territorio.

Quanto costa ad un bambino del sud un anno di adattamento in una metropoli sconosciuta del nord? Quanto costa perdere le consuetudini con i propri spazi, le richieste stagioni, i propri cibi, le proprie amicizie, i propri morti ? Quanto costa cambiare "dentro"?

L'industrializzazione ha gravato le classi dominate di pesantissimi costi quantificabili e non (proprio perché fatti "a tutti i costi", appunto), perché si è dovuto pagare, sacrificare:

* il diritto a vivere con i vivi ed i morti nella terra in cui si è nati;

* il diritto di alimentarsi alle proprie fonti culturali, oltre che ai propri cibi;

* il diritto a vedere riconosciuta la dignità della propria formazione;

* il realizzarsi in una lngua propria (al bambino sardo la lingua italiana servirà moltissimo per lavorare e per comunicare in continente; ma se deve svolgere un tema, cioè redigere un piccolo prodotto letterario, perché non dovrebbe svolgerlo nella propria lingua, cioè in sardo?);

* il sottrarsi ad un destino massificante, dove l'individuo diventa soltanto fattore di produzione, "forza lavoro".

Quando le classi dominate potranno presentare il conto di quanto è stato loro espropriato, sulla lista, oltre al valore dei beni da loro prodotti (il plusvalore, accumulato a profitto del capitale), alla salute, all'istruzione, alla dignità umana, anche il valore della cultura originaria, degradata (appunto, da "valore" linguistico a "minus valore" dialettale) e poi eliminata: la rapina del minus valore, dopo quella del plusvalore. La politica verde deve quindi essere strumento del valore della cultura originaria, che è stata degradata ad oggetto di espropriazione.

Le comunità composte di individui consci del valore della propria cultura costituiscono centri reali di contropotere. Ma, affinchè gli Enti locali (comuni, comunità montane, consorzi di comuni,...) abbiano questa funzione, occorre far ritrovare alla comunità le sue radici culturali - nella storia, nella lingua, negli usi - senza che tale ricerca si risolva in un risultato statico (uso delle tradizioni popolari, atlanti linguistici, dizionari). I "diversi" dovranno essere SOGGETTI e non soltanto "oggetto" di cultura. Si dovranno coinvolgere tutti gli aspetti dell'organizzazione comunitaria e perciò sarà necessario l'impegno di tutte le agenzie di socializzazione sul territorio, per la globale partecipazione alla gestione dei servizi collettivi e nella creazione della cultura e dei "valori" del proprio tempo. Occorre che la comunità sia oggetto attivo, autogestisca la propria cultura, partecipi dinamicamente alla dialettica creativa. L'autonomia dev'essere soprattutto autogestione culturale, nello spirito d

ella DICHIARAZIONE DI CHIVASSO del 19 dicembre 1943, che, con l'eredità giacente di Carlo Cattaneo e di Pier Paolo Pasolini, attende ancora di esere rivendicata dalla politica verde.

Note:

1) Pier Paolo Pasolini, "Volgar'eloquio", Athena, Napoli 1975

2) cfr. Ulderico Bernardi, "Le mille culture. Comunità locali e partecipazione politica", Coines Ed., Roma 1976

3) Autore del famoso "Le lingue tagliate", Rizzoli ed. Milano 1975

4) Il costituzionalista Pizzorusso - "Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali", Pacini ed. Pisa 1975, pag.75 - evidenzia che in Italia ci sono dialetti che si differenziano dall'italiano più di quanto non lo facciano altre illustri parlate neo-latine.

 
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