DISCUSSIONI L'Unione europea per comunicare utilizza sempre più l'inglese con vistosi influssi d'Oltreoceano. E insieme agli idiomi nazionali rischiano di scomparire le varie identità
LINGUA: L'invasione dell'americano
Nencioni: "Si finisce
con il mutilare la memoria
dei popoli". Segre: "Meglio
rassegnarsi, l'italiano si trova già in serie B"
di DARIO FERTILIO
E se succedesse davvero? Se ci svegliassimo una mattina e scoprissimo che l'inglese è diventato la lingua unica dell'Europa?
Anzitutto, faremmo meglio a chiamarla "americano". Servirà a non irritare il ben noto sciovinismo dei francesi, che non cederebbero mai il passo ai cugini d'Oltremanica. Poche preoccupazioni le darebbero i tedeschi, non parliamo poi degli italiani che già adesso non provano neppure a tradurre "Shakespeare in love" con "Shakespeare innamorato". Il resto dell'Europa? Chinerebbe la testa.
E allora, via all'americano come lingua ufficiale, seguendo l'anglocrazia dominante. L'ipotesi che il bel sogno globale possa trasformarsi in un incubo è stato avanzato però, in risposta a una provocazione di Beppe Severgnini, da Mario Negri, preside della facoltà di lingue della Iulm. E il suddetto incubo ha pure un nome, si chiama diglossia. La quale si può sintetizzare così: l'utilizzazione non paritaria (una ufficiale e l'altra solo locale) di due lingue all'interno di una stessa comunità. Effetto inevitabile: il declino dell'idioma svantaggiato, il cui uso riservato ai momenti intimi, familiari, emotivi, va lentamente restringendosi, finché un bel giorno si trasforma in dialetto. Esempi? A decine, forse a centinaia, tanto è vero che quasi ogni dialetto italiano potrebbe essere considerato una lingua mancata o decaduta. Ma sarebbe poi un gran male se l'italiano finisse come il piemontese o il napoletano? Certo, risponde il professor Negri, perché le lingue non sono etichette interscambiabili da applicare
alle cose (o, per usare la terminologia dei linguisti, non sono puramente denotative). Al contrario, esse portano con sé valori, storia, interessi, tradizioni e insomma visioni del mondo: se gli europei, per farsi capire, dovessero parlare solo inglese, diventerebbero essi stessi, almeno in parte, inglesi. E se molti secoli fa il vecchio Ennio sosteneva di possedere tre anime, poiché conosceva tre lingue (ma anche Alessandro Manzoni si vantava del suo francese-lombardo-italiano), i discendenti postmoderni dovrebbero sbarazzarsi, per così dire, delle "anime eccedenti".
Si impone un pressante interrogativo: che fare per non distruggere le nostre stesse identità? La proposta di Mario Negri è adottare l'esempio svizzero. Ognuno dovrebbe parlare nella sua lingua (competenza linguistica attiva) ma anche essere capace di comprendere le altre (competenza passiva negli idiomi non materni).
Sfortunatamente, l'Unione europea non è la Confederazione elvetica, e non sarà facile pretendere dai commissari inglesi la comprensione, per quanto a livello elementare, del neogreco o dello svedese. E poi, come la mettiamo con le commissioni operative, dove si richiede la capacità di contrattare efficacemente su questioni pratiche come l'olio o i pomodori?
Mario Negri tiene a sottolineare due punti essenziali. "Primo: l'uso strumentale dell'inglese è una realtà, dunque non va scoraggiato. Secondo: è venuto però il momento di investire anche nelle altre grandi lingue europee di cultura. Senza spaventarsi se, nei consessi internazionali, si rende necessario ricorrere ai traduttori".
Non molto distante la tesi esposta, sempre sul Corriere, da Innocenzo Cipoletta, direttore generale della Confindustria. Già sui banchi di scuola bisognerebbe gettare le basi di un nuovo bilinguismo europeo - sostiene Cipolletta - rendendo obbligatorio l'uso della seconda lingua per alcune materie. Attenzione però: questa non dovrebbe essere necessariamente l'inglese, per rispettare la libertà di scelta.
E gli addetti ai lavori, cosa ne pensano? Il dialettologo Alberto Sobrero condivide i timori sulla diglossia: "Se si retrocedono certe lingue in serie B, è naturale che rinsecchiscano e si impoveriscano proprio come i dialetti". Sobrero si chiede però se l'italiano non abbia di fatto già subito una simile sorte.
E allarmato anche Giovanni Nencioni, presidente dell'Accademia della Crusca: "Togliere la libertà di esprimersi nella propria lingua vuol dire negare l'individualità. Nessuno contesta all'inglese il ruolo di moderna lingua strumentale: è soprattutto espressione di una cultura tecnica, e raccoglie frutti meritati. Già Leopardi sosteneva: "chi crea unaMa non tutti considerano l'anglocrazia una disgrazia. Il filologo Cesare Segre afferma: "Gli studiosi italiani, anche gli umanisti, fanno male a non dare all'inglese quella priorità che si è già conquistato in campi come la medicina, le scienze, la matematica. Non bisogna dar retta al sentimento e all'amor proprio: forse scandalizzerò qualcuno, però io sostengo che gli intellettuali italiani dovrebbero servirsi preferibilmente dell'inglese nelle loro pubblicazioni e attività congressuali. Ci sono ambiti, specialmente filologici, in cui l'Italia è in posizione d'avanguardia in tutto il mondo, ma i suoi meriti sono riconosciuti solo in parte perché non si serve del
l'inglese". E la temuta diglossia? "Ma l'italiano è già in seconda categoria, dobbiamo rassegnarci!".
La guerra linguistica, però, continua. Marcello Veneziani, ad esempio, si arrabbia se lo si accusa di nazionalismo: "La difesa ll'italiano è una battaglia di progresso, perché non è affatto detto che l'inglese sarà la lingua del futuro: c'è da stupirsi piuttosto che i nostri politici, e soprattutto i candidati alle elezioni europee, facciano a gara nel presentarsi il meno possibile come italiani. Dopotutto, possediamo e rappresentiamo la metà dei beni culturali del mondo". Su un punto come questo, al di là delle differenze ideologiche, concorda Edoardo Sanguineti: "La lingua è in moto perpetuo. Tuttavia sul piano istituzionale bisognerebbe opporre una qualche resistenza all'inglese: adottarlo, anche come seconda lingua, provocherebbe una sua autentica egemonia. Però non credo che i giovani madrileni, parigini o berlinesi ne sarebbero soddisfatti. No, forse ha ragione Mario Negri, forse il motto "ognuno a suo modo" è davvero il migliore. Purché a livello europeo si punti su una rosa ristretta: una lingua lati
na (spagnolo, portoghese, francese o italiano) e una germanica (inglese o tedesco)". E le cosiddette lingue minori? Che succederà se maltesi o lituani pretenderanno pari dignità per i loro idiomi? Troveranno alleati in chi, per amore di libertà, deciderà di rivolgersi in estone al parlamento europeo pur di non essere obbligato ad esprimersi in inglese?