PROPOSTE La lingua di Roma è stata anche una morale e un sistema di vita. A cui si sono sostituiti l'inglese e Internet. Forse è arrivato il momento di riscoprirla
LATINO Quando l'Europa aveva un'identità
Negli anni Sessanta ne fu proclamata la morte. Responsabili il Concilio e il Maggio parigino. Da allora, dopo un'irresistibile ascesa durata secoli, è rimasto un vuoto culturale incolmabile. E mentre trionfa la tecnocrazia, Chiesa, scuola e politica non trovano più un "segno" comune. La democrazia è nata dalla lotta contro Cicerone. Fino a poco tempo fa era un codice internazionale
di ADRIANO PROSPERI
C'è il "referendum" col suo "quorum"; ci sono i "media" con relativa "par condicio": il latino, rimosso dalle scuole e dalle chiese, riemerge per frammenti nei linguaggi della politica e della comunicazione. Affiora come rimorso: la democrazia politica e l'informazione di massa sono nate anche dalla lotta contro il latino come lingua della comunicazione d'élite e come segno del privilegio sociale.
Questi frammenti non illudano i partigiani del latino: basterebbero le improbabili pronunzie anglicizzanti che li deformano a dimostrare fino a che punto questa lingua sia morta. Eppure - e questo non tutti lo sanno - essa ha goduto, fino a poco fa, di vita vigorosa. Ce la racconta la storica francese Françoise Waquet in un libro di ampio respiro e di piacevole narrazione, Le latin ou l'empire d'un signe: XVI-XX siècle. Le date della morte ultima e forse definitiva del latino (ma chi può mai dirlo?) ruotano intorno agli anni Sessanta del nostro secolo: se agli inizi del '900 i valori simbolici della lingua di Roma videro scontrarsi i rivoluzionari russi e i fascisti italiani, ci sono voluti eventi come il Maggio parigino del '68 e il Concilio vaticano II per decretarne l'irrimediabile obsolescenza. Fu nell'ottobre del '68 che il ministro francese dell'educazione nazionale, Edgar Faure, cancellò il latino della "sixième", rompendo con una tradizione plurisecolare. All'antica regina del sistema scolastico, sub
entrano in Francia le "tre lingue": il francese, la matematica, una lingua straniera. L'Italia tenne dietro: oggi, all'antico monoteismo latino è subentrata la trinità scolastica fatta di inglese, Internet e Novecento.
E rimasto un vuoto, che appare grande e forse incolmabile. Come ci ricorda Françoise Waquet, il latino non era solo una lingua: era una morale, una religione, un sistema sociale, una regola di vita, un galateo. Furono tante le forze che collaborarono a renderne irresistibile l'ascesa all'orizzonte della moderna Europa, dal '500 al '900: fondamentali fra tutte, la scuola, la politica, la religione. La fortezza della Chiesa ne garantì lungamente la difesa. Il Concilio di Trento aveva codificato in una lingua sovranazionale, ieratica, l'alto valore simbolico di una religione sottratta alla comprensione intellettuale delle masse. Come aveva lucidamente intuito papa Gregorio VII, il segreto garantito dal latino era fatto per incutere rispetto a un popolo di illetterati. Dio parlava in latino, o almeno così lo facevano parlare i suoi sacerdoti. E questo non riduceva certo la devozione, anzi. Nel mistero di preghiere incomprensibili eppur continuamente ripetute, si levavano potenti i fantasmi di personaggi misterio
si come la celebre "donna Bisodia".
Un giorno, qualcuno dovrà fare il confronto con le involontarie creazioni della neolingua inglese che popolano i graffiti metropolitani. Ma fino a poco tempo fa è stato il latino la lingua internazionale per eccellenza, dominando la scienza, la diplomazia, la letteratura. Per questo, faceva normalmente parte dell'educazione del gentiluomo: lo sapevano gli uomini della Rivoluzione francese, che lottarono per "scuotere il giogo del latinismo". Del resto, come dice un personaggio di George Eliot ne "Il mulino della Floss", per un gentiluomo non importava comprendere il latino, bastava aver passato un certo numero di anni in scuole dove lo si insegnava. Era una lingua di classe, ma lo era in tutte le diverse accezioni del termine, tante quante nessun altro segno o linguaggio ha mai posseduto: indicava classe sociale e classe scolastica, livello di cultura e mondo di valori, stile di vita e di comunicazione, categorie umane e caselle della natura. Era un segno che rendeva leggibile il mondo: distingueva le classi
scolastiche e le rendeva specchio di un sistema sociale di privilegi e di ruoli definiti dalla nascita, ma, nello stesso tempo, diffondeva i valori umanistici della nobiltà dello spirito e consentiva una limitata possibilità di ascesa sociale per i meritevoli. Studiarla era un privilegio sociale. Era anche una maledizione: anni e anni di studio non permettevano, in genere, di arrivare a capirla. Chi arrivava a padroneggiarla senza essere gentiluomo, poteva fare il prete o il precettore. Oppure, poteva fare il farmacista del villaggio: mentre Julien Sorel dialogava in latino col direttore del suo seminario, il piccolo futuro monsieur Bovary si esercitava a coniugare ripetutamente il verbo "ridiculus sum".
Il loro mondo restava però alto e lontano da quello dei contadini. Qui, come ci racconta ora in un bel libro Maria Roggero, L'alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell'Italia tra Sette e Ottocento, si poteva tutt'al più imparare, se uomini, a leggere e scrivere, se donne, a filare e a cucire. Alla molteplice, confusa varietà dei saperi popolari, il latino opponeva una sua forma e forza unificante.
Nel mondo accademico, era consueto l'uso del latino dalle cattedre universitarie fino alle dissertazioni di laurea. La tradizione si è perduta nel nostro secolo, ma ne sono rimaste tracce significative nel linguaggio scientifico, dove le nomenclature botaniche e i simboli chimici consentono a scienziati di ogni appartenenza linguistica di sperimentare ancor oggi i vantaggi di una lingua comune.
La lingua della scienza e dei saperi "alti", era fatta per nascondere, o almeno per comunicare fra iniziati. Non per niente, la Psychopathia sexualis di Krafft-Ebing (1886) seguì il modello dei trattati dei confessori nel celare alle tenere menti dei giovani e degli illetterati la descrizione delle perversioni sessuali (che oggi Internet offre democraticamente a chiunque). Il sesso parlava latino. Ora, il latino delle scuole e della Chiesa era pur sempre la lingua degli amori di Ovidio, di Orazio, di Lucrezio, di Catullo. Poiché la cultura europea dell'epoca moderna escludeva ogni compiacimento erotico dai testi scolastici, si dovette ricorrere alla censura; il che non impedì che un fortuito incontro con testi non censurati risvegliasse dal tedio scolastico schiere di pallidi adolescenti. E, quanto all'esperienza dei discenti, il latino ha segnato infine esperienze comuni di un universo scolastico senza tempo, accompagnate dalla "rosa" cartacea della prima declinazione e dai fiori retorici delle frasi di Cic
erone.
Infiniti rivoli di storia, di cronaca, di letteratura si diramano dall'analisi di questa lingua, che ha segnato l'esperienza di tante generazioni prima di perire sotto l'attacco congiunto delle lingue nazionali e della democrazia dei consumi.
Dunque, il latino è stato un "segno europeo", come dice giustamente Françoise Waquet. Aveva un posto obbligato in ogni idea d'Europa, fosse quella umanistica e tollerante o quella medievaleggiante e cristiana. Oggi, ci sovrastano alcuni "segni" europei, quelli terribili della guerra - segni fin troppo familiari a chi conosce la storia europea.
E gli impotenti vaniloqui di chi, ignorando la tragedia, ricama ancora sull'edificante idea di un'Europa tecnocratica e cristiana (ma senza latino) fanno venir voglia di rifugiarci nella contemplazione dei panorami del passato.
ä * I libri, "Le latin ou l'empire du signe: XVI-XX siècle" di Françoise Waquet è edito a Parigi dal Albin Michel. "L'alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell'Italia tra Sette e Ottocento" di Maria Roggero è pubblicato da Il Mulino.
E' stato un bene cancellarlo dalla liturgia e dai programmi scolastici? Si riapre la discussione
Di Giulia Borgese
Messori: "Paolo VI firmò l'abolizione piangendo"
La discussione sul latino non è nuova, d'accordo, ma ai nostri giorni in cui si parla tanto d'Europa ritorna naturalmente di attualità: dice Adriano Prosperi nell'articolo qui sopra che il latino era fino agli anni Sessanta il segno massimo della cultura europea. Un segno che è stato programmaticamente cancellato e sostituito, sia nella liturgia sia nelle scuole, con le lingue nazionali. Soprattutto con l'inglese - anzi con una forma di inglese che non ha più niente a che fare con la lingua di Dickens. Ed è questo pallido, o se si vuole variopinto, simulacro di una grande lingua che sta pigliando il posto che fu del latino come mezzo di comunicazione internazionale.
Domandiamo a Cesare Segre, professore di filologia romanza all'Università di Pavia, che cosa pensa della cancellazione del latino dai programmi scolastici. "Noi parliamo latino senza saperlo", dice. "La nostra lingua è il latino, così come è andato trasformandosi in duemila anni. Perciò ignorare il latino vuol dire capire ben poco anche dell'italiano. Inoltre, rinunciare al latino vuol anche dire cancellare quell'unità originaria che sussiste tra italiani francesi spagnoli portoghesi e romeni. E, appunto, oggi si parla di Europa! Spero che ci si accorga della necessità, per qualunque persona colta anche nei paesi non neolatini, di ricominciare a studiarlo".
Di parere opposto è Carlo Augusto Viano, che ha la cattedra di storia della filosofia a Torino: "Io sono molto favorevole alla fine del del latino di massa, soprattutto in Italia dove si parla una lingua che non viene intesa al di là delle Alpi, mentre non si imparano le lingue moderne. E poi, del latino non si conosce la civiltà: invece di torturare i ragazzi facendogli tradurre una pagina di Tito Livio, sarebbe meglio - e anche più divertente - far loro leggere Livio in italiano. Il latino, lingua morta da imparare a tavolino, era l'asse portante della nostra scuola, e praticamente insegnava a studiare passivamente anche le lingue vive. Comunque spero che oggi nessuno dica più che il latino insegna a ragionare, mentre il tedesco o l'inglese no. Piuttosto, io potenzierei l'insegnamento del latino per chi lo sceglie all'Università".
Lo scrittore Vittorio Messori premette che lo studio di otto anni di latino - dalla prima media alla fine del liceo classico - gli ha permesso di controllare la lingua e non viceversa: "E' l'analisi logica che mi fa usare i giusti tempi dei verbi, mi fa riconoscere un soggetto da un oggetto. E questo non soltanto in italiano, ma in tutte le lingue che ho poi imparato, e per prima il tedesco. Quanto alla Chiesa, io non voglio discutere se sia stato un bene o un male l'adozione delle lingue volgari, però voglio dire che prima, quando il latino era la lingua della liturgia, tutti noi cattolici, in qualsiasi paese straniero ci trovassimo, sapevamo di partecipare ad una comunità, non ci sentivamo mai estranei. Recentemente sono stato a Malta e sono andato in chiesa a sentir messa, naturalmente in maltese. La lingua maltese è influenzata dall'arabo al punto che Dio lo chiamano Allah".
"Così - continua Messori - mi è toccato di sentire un sacerdote cattolico in mezzo a una folla di cattolici, alzare le braccia al cielo e invocare Allah! D'altra parte ricordo bene che Paolo VI firmò piangendo il decreto che sanciva la fine del latino: tra le lacrime disse che, benché si rendesse conto che la scelta era indispensabile "quel giorno la Chiesa veniva a perdere una delle sue ricchezze più antiche e più grandi"".