Di Giulio TREMONTI, Il Giornale del 19/10/99.Un tempo l'imposta sulle successioni era "amministrata". Amministrata in modo semplice ed efficace. I competenti funzionari del fisco iniziavano la loro giornata di lavoro leggendo le partecipazioni mortuarie. Quando per lo stesso morto ce n'erano parecchie, si concentravano su quella successione: voleva dire che sotto c'era "capacità contributiva".
Ora non è più così. Il gettito dell'imposta è irrisorio. Vuole dire che in Italia non si muore mai? O che muoiono tutti poverissimi? O vuole dire che l'imposta è evasa su scala di massa? Se è vera (ed è vera) quest'ultima ipotesi, se c'è un rifiuto di massa, vuole dire che c'è qualcosa che non va, non solo nell'"amministrazione", ma, più ai fondo, nella ragion d'essere di un'imposta di questo tipo. Le imposte non sono giuste per sempre e in assoluto. Come tutte le "cose" politiche, le imposte sono giuste solo in senso relativo. Nell'antica Roma l'imposta di successione era tra le imposte più poderose e meglio organizzate. Il pensiero "liberale" apprezzava questo tipo d'imposta, in odio alla nobiltà oziosa. Quest'idea è nella frase di Visco: "non consentire ogni caso un futuro sereno al discendente imbecille di un avo intelligente". A questo proposito si potrebbe forse ironizzare sul fatto che, nel frattempo, l'imbecillità è divenuta democratica.
Del resto, la storia della sinistra è piena di compagni che arrivano ad una "internazionale", essendosi diligentemente preparati, ma sui quaderni di quella precedente. E anche la "internazionale" in corso, la transizione "from Marx to Market" impone un qualche sforzo di aggiornamento. Nel frattempo (in quasi due secoli) il mondo è infatti radicalmente cambiato. Della nobiltà oziosa si sono perse le tracce. L'ozio è anzi divenuto, piuttosto che le prerogative di nobili e "rentiers", una merce a basso costo e diffusa su scala di massa. Basta girare in certi pubblici uffici per verificarlo empiricamente.
La struttura della società e quella della ricchezza sono profondamente cambiate. Da un lato, è enormemente cresciuta la gamma degli interventi "etici" che lo Stato opera sulla ricchezza. A monte, in fase di produzione. E a valle, in fase di redistribuzione. Dall'altro lato, è significativamente caduta l'illusione che sia proprio solo lo Stato lo strumento più adatto per fare "giustizia in terra". Un cinico adagio inglese dice che l'ideale è avere redditi esenti, in vita, e patrimoni tassati, da morti. Il destino degli italiani è peggiore: redditi tassati, in vita, e patrimonio che dovrebbe essere progressivamente tassato, anche da morti. Salvo che sia fatto da Bot, che sono totalmente esenti, anche per Visco.
A favore dell'imposta sulle successioni si possono ancora formulare argomenti morali, dotati di una residua forza di suggestione. Ma contro l'imposta sulle successioni, in Italia c'è un argomento fondamentale. La struttura produttiva italiana è, in Europa, assolutamente particolare. La ricchezza dell'Italia non è fatta (solo) dalla grande industria, ma (soprattutto) da una massa enorme di piccole e medie imprese. Il grande capitalismo "nordico" è istituzionale, anonimo, atemporale. La Mercedes non muore mai. Invece i "padroncini" muoiono. Il capitalismo italiano è vitale perché è "animale" e per questo segue, nel suo sviluppo, il ciclo vitale dell'imprenditore e della sua famiglia.
In questi termini, in Italia, se fosse applicata davvero e non per finta (come finora), l'imposta sulle successioni non sarebbe una imposta qualsiasi, e cioè solo uno strumento per fare gettito. Ma una imposta capace di influire, fortemente e negativamente, sulla struttura produttiva. E in questo modo su quella che un tempo si chiamava "la ricchezza della nazione". Non è questione di successione, ma di produzione. L'imposta sulle successioni non influirebbe, in Italia, infatti solo sulle linee di 'successione', ma colpirebbe direttamente le catene e le filiere di 'produzione'. L'arbitraggio tra flussi e 'stocks', sarebbe conseguentemente fortemente negativo. Più di quanto il fisco prenderebbe, in termini di flusso di gettito, l'Italia perderebbe, in termini di consistenza ed efficienza delle sue strutture produttive. In questi termini, tre sono le scelte in alternativa: fare sul serio con l'imposta di successione, così spiazzando ulteriormente l'Italia nella competizione internazionale; continuare con varian
ti di facciata nella finzione fiscale, salvo saltuaria, esemplare ed edificante punizione di pochi malcapitati; eliminare l'imposta sulle successioni.
E la morale? E giusto che i figli dei "padroncini" (perché è questo il centro della questione) ereditino la possibilità di proseguire nel mestiere, nell'attività, nell'azienda, nella società dei padri? O non è invece più giusto che a loro si affianchi, per conto, dei "diseredati", e perciò come "erede" di diritto, lo Stato? Non credo che questo sia tanto di sinistra. Il problema politico, non mi pare infatti che si risolva 'togliendo' le opportunità ai "ricchi", ma 'offrendo' opportunità ai "poveri". E questo non si fa con l'imposta di successione, ma investendo nella scuola e dopo, e più in generale, nell'istruzione, che dovrebbe soprattutto concentrarsi sulle "3 I" di 'impresa, inglese, informatica'.
Perché il problema politico moderno non è quello di lottare contro la ricchezza, ma contro la povertà.