Corriere della Sera, 7 aprile 2000.
Nella "Babele" di Bruxelles il portavoce del Professore decide di parlare italiano
L'Europa si morde la lingua
Dietro il "caso Prodi" anche il conflitto tra francese e inglese
La Germania insiste nel pretendere l'uso del tedesco come terzo idioma della Ue
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BRUXELLES - "Scusa Ricky, visto che parli un ottimo inglese, perché usi l'italiano perdendo così l'occasione di far arrivare a tutti il tuo messaggio, ammesso che tu abbia un messaggio da comunicare?". La domanda al veleno, sparata mercoledì scorso da un giornalista tedesco in una sala stampa super affollata e tesissima, è scivolata sulla silhouette elegante di Ricardo Franco Levi, Ricky per gli amici (ma anche per i nemici), senza scalfire la proverbiale flemma britannica del portavoce di Romano Prodi. Ma tant'è: il danno era fatto. Parlando in italiano al briefing di mezzogiorno, Levi ha infatti riscoperchiato il vaso di Pandora della questione linguistica: uno dei grandi tabù su cui si basa, o meglio si basava, la coesistenza pacifica delle quindici bellicose tribù giornalistiche a Bruxelles.
C'è veramente un'ironia crudele nel fatto che Levi, il più anglosassone dei giornalisti italiani, finisca sotto accusa per aver osato sfidare l'anglocrazia della più grande sala stampa del mondo. Tanto da spingere il Financial Times a scrivere che l'episodio ha creato l'impressione che la Commissione sia ormai "pericolosamente facile agli incidenti". Quando la stampa britannica a Bruxelles è irritata, ma non sa o non vuole spiegare perché, solleva la questione linguistica. Lo fece a suo tempo con la Commissione Santer. E non è un precedente confortante.
In realtà la decisione di Levi era teoricamente ineccepibile. Il mercoledì, infatti, giorno di riunione della Commissione, la sala stampa è fornita di un servizio di interpretariato per consentire ai commissari che vengono ad incontrare i giornalisti di esprimersi nella propria lingua. Finora questa opportunità era stata scarsamente utilizzata dagli interessati, e comunque mai dai portavoce che avevano continuato ad utilizzare le due lingue di lavoro ufficiali: l'inglese e il francese.
La decisione di cambiare le regole del gioco, a quanto pare, era stata presa già da qualche tempo nel servizio stampa della Commissione. Il mercoledì, approfittando della presenza degli interpreti, ogni portavoce si sarebbe espresso nella sua lingua madre. Una scelta a cui ha contribuito la percezione di una certa irritazione tra i media, specialmente francofoni, per l'uso sempre più frequente dell'inglese come lingua universale in Commissione a scapito del francese.
La guerra tra inglese e francese negli ambienti comunitari rischia in effetti di diventare come quella dei Cent'anni, combattuta a volte in sordina, a volte con esplosioni plateali di irritazione, ma sempre fonte di un'inconfessata reciproca diffidenza tra i due schieramenti linguistici. E a peggiorare le cose nella diatriba rischia di inserirsi la questione tedesca. I germanofoni, infatti, premono con sempre maggiore insistenza per l'uso del tedesco come terzo idioma veicolare, forti del fatto che è la lingua madre più parlata nell'Unione. La cosa naturalmente rischia di innescare una reazione a catena, perché l'adozione del tedesco come terza lingua scatenerebbe immediatamente gli spagnoli, notoriamente pronti a farsi largo in ogni occasione, e magari perfino degli italiani. La decisione di utilizzare, per un giorno alla settimana, tutte le lingue del- l'Unione era dunque sembrata al portavoce un modo per evitare che la battaglia anglo-francese degenerasse in una guerra di tutti contro tutti.
Ma la novità, che di per sé è stata accolta favorevolmente da molte tribù linguistiche come italiani, francesi, spagnoli, portoghesi o olandesi, è arrivata nel momento sbagliato: proprio nel giorno in cui Levi si trovava sotto tiro incrociato per gli attacchi subiti da Prodi, in una sala stampa troppo affollata in cui parecchi giornalisti non avevano a disposizione le cuffie per la traduzione simultanea e dunque non potevano capirlo. Molti ne hanno tratto l'impressione che il portavoce del presidente, in difficoltà, si trincerasse dietro un espediente linguistico per difendersi meglio dalle domande ostili. Altri lo hanno preso come un segnale dello "scoordinamento" della Commissione. Lui, Levi, non ha fatto una piega. "Se volete, dopo, sono pronto a ripetere in inglese quello che ho detto", ha spiegato a chi era rimasto senza cuffia. Ma ad attenderlo, all'uscita, c'erano solo due giornalisti italiani.
Andrea Bonanni