Qualche settimana fa, una serie di manifesti affissi per le vie di Ostia preannunciava l'iniziativa di un movimento politico giovanile per liberare la principale stazione del quartiere da spacciatori ed "extracomunitari". Per fortunate circostanze, la manifestazione non fu realizzata in quei termini, ma rinviata e ridefinita in modo meno aggressivo. Tuttavia, il proclama originario porge lo spunto per almeno una riflessione.
Superiamo velocemente la questione piu' intuibile, vale a dire che non e' raccomandabile che siano gruppi di cittadini a "liberare" alcun luogo da chicchesia: su questa strada, avremmo presto "antifascisti" che "liberano" da fascisti, sostenitori di una squadra di calcio che "liberano" da quelli di un'altra e cosi' via. Concediamo pure che frequentemente, purtroppo, una certa inerzia da parte di forze dell'ordine e magistratura possa indurre a pensare che occorra intervenire direttamente per far cessare situazioni di illegalita'. La cosa piu' inaccettabile, in quei manifesti, era l'individuazione dell'"extracomunitario" come male in se': l'essenza stessa, dunque, della xenofobia, dell'intolleranza, in ultima analisi del razzismo.
Ora, proviamo ad immaginare alcuni extracomunitari (cioe' persone non cittadine della Comunita' - ora Unione - Europea) che passeggino nella stazione di Ostia Lido Centro. Avviciniamoci, e scopriamo chi sono. Uno di essi e' un direttore d'orchestra ungherese, che vive ad Ostia da alcuni anni: sta parlando con un miliardario americano, che finanziera' una sua tournee negli Stati Uniti. Poco piu' avanti, troviamo uno studioso di archeologia norvegese (eh gia', perche' anche la Norvegia, con il voto negativo espresso al recente referendum, e' ancora un Paese extracomunitario) che cerca una indicazione per gli scavi di Ostia Antica: si rivolge in inglese ad un italiano che non lo capisce, ma ecco che una signora ugandese, funzionaria della FAO, gli spiega che dovra' riprendere il trenino e scendere alla prima fermata. Un medico cinese, specialista in agopuntura, sta sorridendo davanti allo specchio della macchina per fotografie automatiche, mentre e' in attesa del proprio turno un filosofo curdo. E quelli? Un
gruppo di ventiquattro giapponesi, guidati da una ragazza che innalza un ombrello chiuso, si dirige compatto verso il pontile: pare che vogliano fotografarlo per farne una copia esatta nella loro citta'.
Si', davvero una folla gli extracomunitari oggi ad Ostia. In un cantuccio della stazione, nervosamente, due ragazzi in giubbottoni neri impegnati a vandalizzare la lingua italiana con frasi sconnesse discutono della necessita' di liberarsene; quando a poco a poco giapponesi, curdi, cinesi, ugandesi, norvegesi, americani ed ungheresi - come d'accordo - li circondano, sempre piu' da vicino. Ora li guardano fissi, in silenzio. I due ragazzi sono intimoriti, poi impauriti, infine decisamente spaventati: non c'e' fuga possibile.
E' un anziano signore giapponese il primo ad invitarli a sorridere, per una valanga di fotografie. Felice, l'archeologo scandinavo prende un appunto sul suo taccuino: due elementi cosi', non li trovava da tempo.