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Stango Antonio - 9 maggio 1995
"LA NUOVA FRONTIERA"
Editoriale del primo numero

PER LA RIFORMA DELLA POLITICA INTERNAZIONALE

di Antonio Stango

Pervasi ancora dai residui dell'idea di una pretesa autosufficienza, gli Stati occupano la scena internazionale come attori orgogliosi di un antico prestigio. Le loro leadership sconfinano nelle organizzazioni di livello regionale o planetario spesso soltanto per affermare se stesse; le convenzioni, le dichiarazioni solenni rimangono solitamente chiuse negli archivi ministeriali, senza che le si doti della capacità di produrre effetti concreti. E i cittadini, quasi di norma, ne conoscono al massimo i titoli, poiché di fatto difficilmente vive nel diritto interno agli Stati quanto si sottoscrive al di fuori di essi.

La Cecenia e il "dovere di ingerenza".

Può accadere, così, che decine di Stati membri dell'ONU non siano dotati di istituzioni democratiche e violino palesemente e sistematicamente i diritti umani, malgrado la Dichiarazione Universale del 1948 e tutti i successivi Patti, Trattati e Protocolli in materia. Può accadere che la Federazione Russa venga gettata in una guerra di sterminio nel territorio di una propria repubblica autonoma, la Cecenia, da un confuso regime che invoca il principio della non ingerenza del resto del mondo negli affari interni di uno Stato, trovando su questo consenzienti per mesi i governanti di Paesi di ben più consolidata democrazia. A poco in questo è servito il ricordare, da parte di movimenti ed organizzazioni, che la non ingerenza non può riguardare i diritti umani, a difesa dei quali è invece da riconoscere un diritto-dovere della comunità internazionale ad intervenire con le armi della diplomazia, della politica, delle pressioni e sanzioni economiche.

E' stato in primo luogo grazie all'impegno di Sergey Kovaliov - ancora una volta, un antico esponente del dissenso, oggi deputato democratico alla Duma di Stato russa - che il mondo e la nascente opinione pubblica del Paese hanno potuto disporre di un resoconto reale e di un'analisi attenta di quanto stava accadendo in Cecenia e nella società russa. Dopo la vergogna del riconoscimento ad Arafat, il premio Nobel potrebbe quest'anno ben più opportunamente venire assegnato a questo autentico protagonista della lotta nonviolenta per la vita e per il diritto: una persona che dovrà ancora giocare un ruolo di primo piano nella situazione politica russa, anche in vista delle elezioni presidenziali del '96.

Il massacro ceceno si è aggiunto con impeto a quelli che continuano da anni nella ex Jugoslavia come in larga parte del continente africano, nell'Asia centrale come nel Medio Oriente; ma è condotto in maniera diretta da uno Stato erede di una superpotenza, dotato di enormi quantità di armamenti convenzionali ma anche nucleari e chimici: uno Stato percorso da una crisi profonda, i cui popoli dovranno ancora pagare per molto tempo il costo della catastrofe sociale, economica e morale del totalitarismo.

Sbandati fra l'idea di libertà e la sfiducia profonda nel sistema politico, amministrativo e giudiziario, aggrediti dall'avventurismo imprenditoriale guidato in parte dalla nomenclatura di un tempo - con un complesso militare-industriale tuttora dominante -, milioni di cittadini russi rifiutano la partecipazione ai meccanismi di scelta e di controllo politico, lasciando il campo come altre volte in passato a minoranze organizzate di estremisti nostalgici della violenza, della potenza, dell'onnipresenza dello Stato.

Kurdistan, Tibet e complicità nel genocidio.

Una visione non molto dissimile di un ruolo delle forze armate attivo fino al genocidio, per sostenere il feticcio dell'unità statale intrecciato a quello della omogeneità della nazione, scorre dai Balcani fino alla Turchia, dove la soluzione della questione curda è individuata dal regime nella eliminazione di quella identità sul piano culturale e linguistico o se necessario su quello fisico. Stato membro della OSCE, del Consiglio d'Europa (che la crisi cecena vieta ancora alla Russia) e della NATO, la Turchia persevera da anni su questa linea; ed ora anzi ne intensifica l'attuazione con scarsissimi ostacoli da parte della comunità internazionale, e si permette di chiedere ancora forme più strette di associazione con l'Unione Europea. Nel giorno noto da tempo agli esperti per le massicce operazioni militari contro i curdi - il 21 Marzo, in cui nel Kurdistan si celebra il Capodanno - il capo di uno Stato come l'Italia ha visitato ufficialmente la Turchia, porgendo blande dichiarazioni su un rispetto dei di

ritti umani che questi atti contribuiscono a relegare fra le cortesi citazioni d'obbligo.

Non altrimenti si comportano, in genere, i governi di varia ispirazione politica nell'impostare le relazioni con altri Stati impegnati in soffocanti aggressioni di tipo coloniale, come la Cina nel Tibet. Anche qui, è genocidio quello in corso, preceduto e guidato dalla distruzione dell'identità come del patrimonio ambientale: che appartiene al Tibet ed al mondo, ma non al regime che - pur malfermamente - è tuttora al potere a Pechino. Quello stesso regime della strage di Tien An Men, alle cui presunte grandi conquiste economiche si sacrificano pagine di inserzioni promozionali e di aberranti commenti sui principali quotidiani del mondo, insieme alle vite, alle libertà ed alle dignità di centinaia di milioni di persone.

Non accanirsi a sostenere regimi totalitari.

Se le false "federazioni" denominate Unione Sovietica ed Jugoslavia hanno perduto da tempo anche l'apparente coesione, non essendo più in grado di coprire con la repressione tensioni etniche e nazionali mai risolte, la stessa Cina non sembra del resto in grado di mantenere l'attuale unità territoriale. Il dubbio è piuttosto sulla capacità di agevolare un nuovo assetto dell'area con la ricerca di soluzioni politiche, piuttosto che accanirsi nella difesa di una impossibile integrità perpetua. Occorre oggi aiutare la Cina ad uscire in tempi rapidi e senza conflitti armati dal secolo del totalitarismo, non genuflettersi a chi quel sistema ha rappresentato e vorrebbe correggere con piccoli aggiustamenti come si fece - ed alcuni vorrebbero rifare - con Mikhail Gorbaciov. I tentativi di salvare ad ogni costo un sistema distrutto dalla storia e da se stesso riescono solo a prolungarne l'agonia, lasciando spazio a disastrosi colpi di coda ed impedendo la crescita e la tempestiva assunzione di responsabilità da par

te di una nuova classe dirigente.

Questo, del resto, è ancora una volta l'errore che troppi stanno compiendo rispetto a Cuba, dove si vuole conservare al potere pur nella sua impotenza Fidel Castro il più a lungo possibile: la patente patetica di rispettabile capo di Stato donata negli ultimi tempi da François Mitterrand ad uno dei maggiori carcerieri della nostra epoca si staglia come un'offesa per milioni di cubani che ne sono stati e ne sono vittime, e colpisce la stessa immagine di una Francia che, tuttora orgogliosa del titolo di "patria dei diritti umani", è apparsa in questo caso come un palcoscenico di tiranni. Sono molti, del resto, i Paesi anche democratici che si prestano a volte a questo ruolo.

Si stringe il campo della vita del diritto.

A ridosso del Mediterraneo, verso il Sud e l'Oriente, il fanatismo che vuole armare la religione, e rendere lo Stato e i suoi poteri conformi ad un'immagine teologica, tende ad uccidere insieme a moltitudini di persone tanto lo Stato quanto la religiosità, e a scatenare guerre nuove e più estese. L'Africa centrale è già entrata in una fase in cui i conflitti sono tornati ad essere stragi. Fuggono masse: interi popoli di profughi cercano scampo in altre terre. E molte aree di tradizione dominante musulmana rischiano di precipitare in una situazione analoga.

Anche i Paesi che da tutto questo sono oggi toccati solo marginalmente devono prepararsi a risentirne in modo massiccio gli effetti: poiché come l'avanzare della catastrofe ambientale mette in pericolo la stessa vita delle prossime generazioni, così si estende il deserto della violenza, dell'odio, dell'ipernazionalismo aggressivo e totalizzante; e sempre più si riduce come un'oasi sferzata dalle tempeste di sabbia lo spazio della vita del diritto, della convivenza nel rispetto della diversità, dell'esercizio effettivo della democrazia.

La "frontiera" interna della determinazione.

I nuovi araldi della formula totalitaria, in molti Paesi, invocano i diritti dello Stato contro le norme dello Stato di diritto. Ad essi occorre rispondere in modo specularmente opposto.

Ed ecco che, in un mondo dove le frontiere stanno mutando vorticosamente, la nuova e più importante "frontiera" - per la comunità dei Paesi democratici, per le organizzazioni internazionali ma anche per ciascuno - è quella interna: quella dell'attenzione, della spinta morale, della determinazione a svolgere il proprio ruolo su una scena globale da cui nessuno può ritenersi isolato, e di cui occorre bloccare con urgenza la folle progressione verso il baratro; che può subire un'ulteriore accelerazione per la maggiore diffusione delle armi di sterminio.

Mentre si apre a New York la Conferenza di rassegna e di estensione del Trattato di Non Proliferazione nucleare, in questo campo ed in quello delle armi chimiche e batteriologiche si moltiplicano i segnali di rischio concreto che cessioni di tecnologia e di materiali e collaborazione di scienziati e tecnici possano rifornire di nuovi strumenti di ricatto internazionale i già cospicui arsenali di piccole e medie potenze rette da regimi aggressivi e bellicisti; né si può trascurare l'interesse a dotarsi delle medesime armi da parte della grande criminalità organizzata. La corsa da parte di troppi a chiedere la fine dell'embargo nei confronti del regime di Saddam Hussein sembra intanto ignorare il dato essenziale delle spese militari alle quali l'uomo che attuò la soppressione con i gas di migliaia di curdi riesce, pur in presenza dell'embargo, a provvedere.

Il "continente", politico e non geografico, della democrazia e del diritto dovrà utilizzare il potere economico e diplomatico, una dissuasiva potenza militare, la conoscenza tecnologica ed una forte creatività politica per impedire sul nascere i conflitti; favorire l'istituzione di organismi internazionali di controllo, di arbitrato, di giudizio anche penale nei confronti dei responsabili di crimini contro l'umanità; interrompere totalmente le facilitazioni economiche e le forniture di armi e di altri materiali strategici ai regimi totalitari o dittatoriali; intervenire per accelerare la riconversione in settori pacifici della sovraccapacità produttiva delle industrie degli armamenti nell'ex Unione Sovietica; tentare di spezzare, anche attraverso campagne internazionali di informazione, le spirali di fanatismo e di aggressività che si sviluppano intorno ai suoi confini, e con alcuni focolai anche al suo interno; ridurre al minimo i fattori di deterioramento ambientale, a partire dall'adozione di fonti di

energie alternative, dalla chiusura delle centrali nucleari a rischio e dall'adozione di procedure sicure per lo smaltimento delle scorie tossiche.

Per tutto questo, non è pensabile non affrontare il nodo complessivo del sistema delle relazioni internazionali. E' necessario riformare radicalmente le organizzazioni regionali - anche nella diversificazione e nell'armonizzazione delle loro funzioni - e la stessa ONU, che se da un lato deve essere munita di un'effettiva capacità cogente delle proprie decisioni in materia di diritti umani e di sicurezza dall'altro sconta la presenza proprio nel Consiglio di Sicurezza del diritto di veto da parte di Stati responsabili di violazioni estreme del diritto internazionale, e nell'Assemblea Generale di quello paritario al voto per una molteplicità di Stati non meno condannabili. Ed è in realtà ciascuno Stato, anche il più democratico, a dover attuare una severa riforma della propria politica internazionale, solitamente praticata per acquisire meri vantaggi immediati od apparenti secondo schemi che risalgono ad anacronistiche concezioni geopolitiche.

Perché questo accada, le Organizzazioni Non Governative, i movimenti e le riviste di opinione, le rare forze politiche non insensibili devono agire ormai con urgenza. Con "La Nuova Frontiera", intendiamo chiedere loro di non dimenticarlo, contribuire a diffondere i principali documenti internazionali in materia, favorire il dibattito su quanto ciascuno - dal cittadino alle Nazioni Unite - può oggi compiere perché questa riforma sia possibile.

NOTA

Il sommario del primo numero de "La Nuova Frontiera" è riportato in Agorà nel settore "Conferenza Partito Radicale".

 
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