Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
lun 17 mar. 2025
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Conferenza Movimento club Pannella
Partito Radicale Rita - 17 maggio 1995
12 REFERENDUM

LA RIVISTA "ITER LEGIS" - N.1/1995 - ANNO II - HA PRESENTATO UN DOSSIER SUI 12 REFERENDUM CHE DOVREMMO VOTARE (SALVO COLPI DI MANO) L'11 GIUGNO. CREDIAMO CHE LA LETTURA DI QUESTO STUDIO SIA UTILE PER TUTTI.

GRAZIE A GIUSEPPE CAPUTO CHE NE HA CURATO L'INSERIMENTO IN AGORA'.

I referendum del 1995

Domenica 11 giugno saremo chiamati a pronunciarci su dodici quesiti referendari; la Corte Costituzionale infatti ha dichiarato ammissibili, con sentenze dell'll gennaio 1995, nove dei sedici referendum sottoposti al suo giudizio ai quali vanno aggiunti i tre quesiti sulla rappresentatività sindacale già ammessi nel gennaio 1994 e poi rimasti in sospeso a causa delle elezioni politiche anticipate.

Per ciascun quesito riproponiamo le motivazioni "in diritto " della sentenza di ammissibilità, corredate da una scheda esplicativa.

l) LEGGE ELETTORALE COMUNALE

Il referendum riguarda alcune norme della legge 25 marzo 1993, n. 81, sull' "Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale", ed ha lo scopo di eliminare ogni differenza per quanto riguarda le modalità di elezione del sindaco e del consiglio comunale, tra i comuni con meno di quindicimila abitanti e quelli con più di quindicimila.

Attualmente la legge prevede:

A) nei comuni con popolazione sino a 15000 abitanti, I'elezione dei consiglieri comunali si effettua con il sistema maggioritario, assieme all'elezione del sindaco. Ogni candidato alla carica di sindaco è collegato con un'unica lista di candidati alla carica di consigliere comunale; si esprime un unico voto riferito a un candidato alla carica di sindaco e alla lista a lui collegata Viene eletto sindaco il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti, mentre alla lista collegata sono attribuiti due terzi dei seggi; I'altro terzo viene attribuito alle liste perdenti, in proporzione ai voti ottenuti.

B) nei comuni con popolazione superiore ai 15000 abitanti è ammesso il collegamento tra ciascuna candidatura alla carica di sindaco e più liste per l'elezione del consiglio comunale.

il sindaco è eletto a suffragio universale e diretto, insieme al consiglio comunale. E' eletto il candidato che ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi; se nessun candidato ottiene la maggioranza, si fa un secondo turno di votazione tra i due candidati che hanno ottenuto al primo turno il maggior numero di voti ed è eletto il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti validi. Al primo turno, I'elettore può anche votare per un candidato alla carica di sindaco non collegato alla lista prescelta, mediante il "voto disgiunto".

L'assegnazione del numero dei consiglieri avviene con metodo proporzionale. Se un candidato alla carica di sindaco viene eletto al primo turno, viene assegnato il 60% dei seggi alla lista o al gruppo di liste, collegate ad esso, che abbiano superato il 50 % dei voti validi, e non abbiano conseguito almeno il 60% dei seggi del consiglio. Se invece un candidato alla carica di sindaco viene eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste collegate ad esso, che non abbiano ottenuto al primo turno almeno il 60% dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 % dei seggi, purché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate abbiano già superato nel primo turno il 50% dei voti validi.

Il quesito referendario propone l'abrogazione: - dell 'art.3, comma 5, limitatamente alla parte in cui dispone che, nei comuni con popolazione superiore ai 15000 abitanti, più liste collegate ed unite dallo stesso programma possono presentare lo stesso candidato alla carica di sindaco; - dell 'art.5, limitatamente alla rubrica e al comma 1, nelle parti in cui si fa riferimento ai "comuni con popolazione sino a 15000 abitanti", - dell'art.6 (Elezione del sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15000 abitanti); - dell'art.7 (Elezione del consiglio comunale nei comuni con popolazione superiore a 15000 abitanti). In Italia, su un totale di 8102 comuni, quelli con più di 15000 abitanti sono 635, 276 dei quali sono interessati dal turno di elezioni per il rinnovo degli organi di governo degli enti locali, che dovrà svolgersi il 23 aprile, contestualmente alla elezione dei consigli regionali e, quindi, prima dello svolgimento del referendum.

l) LEGGE ELETTORALE COMUNALE

Sentenza n. 10/1995 della Corte Costituzionale

1. - La richiesta di referendum abrogativo ha per oggetto una parte della legge 25 marzo 1993, n. 81, che disciplina l'elezione del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale.

Con tale legge sono state configurate due modalità di elezione degli organi comunali, egualmente ispirate al principio maggioritario, ma diversamente modulate, in base alla distinzione tra comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti e comuni con popolazione superiore. Per i primi l'elezione dei consiglieri si effettua contestualmente all'elezione del sindaco: il candidato a questa carica è collegato ad una sola lista di candidati al consiglio comunale; è eletto sindaco chi ottiene il maggior numero di voti ed alla lista ad esso collegata sono attribuiti due terzi dei saggi assegnati al consiglio. Nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti il candidato alla carica di sindaco è collegato con una o più liste presentate per l'elezione del consiglio comunale; è eletto chi ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi al primo turno elettorale o, se nessuno ottiene questa maggioranza, chi ottiene il maggior numero dei voti validi al turno di ballottaggio, che si svolge tra i due candidati più votat

i al primo turno. Alla lista o al gruppo di liste collegate con il candidato eletto alla carica di sindaco è riservato, di regola, il 60 per cento dei seggi del consiglio.

La proposta referendaria tende alla soppressione delle modalità di elezione del sindaco e del consiglio comunale prevista dagli art. 6 e 7 della legge per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, con la conseguente applicazione, a tutti i comuni, del sistema elettorale previsto dalla stessa legge per i comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti. In questa stessa prospettiva si propone l'abrogazione di parti di altre disposizioni relative a modalità e procedure elettorali (art. 3 e 5) che contengono tale riferimento definitivo.

2. - Le disposizioni delle quali si propone l'abrogazione esprimono con chiarezza ed in modo univoco il quesito sottoposto all'elettore. L'eventuale accoglimento della proposta referendaria determinerebbe l'unificazione nella disciplina delle modalità elettorali comunali, con la estensione a tutti i comuni del sistema attualmente previsto per i comuni sino a 15.000 abitanti. Non verrebbe meno in nessun momento lo strumento elettorale necessario per il rinnovo degli organi elettivi delle amministrazioni locali, né si determinerebbero incertezze interpretative tali da provocare il rischio di paralisi, sia pure temporanea, di tali organi.

Sopravviverebbe nel secondo comma dell'art. 1, con riferimento alla presidenza del consiglio comunale, un richiamo alla distinzione della dimensione dei comuni indicata nell'art. 5. Ma i commi aggiunti a tale disposizione dell'art. 1 della legge 15 ottobre 1993, n. 415 dettano regole autosufficienti per la conservazione e la presidenza del consiglio comunale ed ogni problema interpretativo si risolve secondo comuni regole ermeneutiche. In ogni caso l'art. 36 della legge 8 giugno 1990, n. 142, comprendendo tra le competenze del sindaco la convocazione e la presidenza del consiglio, quando non sia previsto diversamente, assicura una regola residuale e di chiusura.

L'eventuale abrogazione delle disposizioni per le quali si propone il referendum non reagisce sulle modalità elettorali previste dalla stessa legge per altri enti o organi locali.

Non sussistono pertanto, secondo i principi ripetutamente enunciati dalla Corte in base all'art. 75 della costituzione, ipotesi ostative all'ammissibilità del referendum.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione della legge 25 marzo 1993, n. 81 recante »Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale , limitatamente alle seguenti parti: articolo 3, comma quinto, limitatamente alle prole: »Nei comuni con popolazione di cui all'articolo 5, più liste possono presentare lo stesso candidato alla carica di sindaco. In tal caso le liste debbono presentare il medesimo programma amministrativo e si considerano fra di loro collegate. ; articolo 5, intestazione dell'articolo, limitatamente alle parole: »nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti. , e comma primo, limitatamente alle parole: »Nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, articolo 6; articolo 7;

richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 30 novembre 1994, dall'Ufficio centrale per il referendum costitutivo presso la Corte di cassazione.

2) SOGGIORNO CAUTELARE

Il referendum propone la totale abrogazione dell'art. 25-quater del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 recante "Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa'', convertito, con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356, e ulteriormente modificato dalla 1. 24 luglio 1993, n. 256, sulla "Modifica dell'istituto del soggiorno obbligatorio e dell'articolo 2-ter della legge 21 maggio 1965 n. 575".

La norma prevede che il procuratore nazionale antimafia - anche su richiesta della Direzione investigativa antimafia o dei servizi centrali e interprovinciali della Polizia, dei Carabinieri e del Capo della guardia di finanza - può disporre il soggiorno cautelare di coloro che ritenga si accingano a compiere uno dei delitti indicati nell'art. 275, comma 3, c.p.p. (devastazione, saccheggio e strage, guerra civile; associazione di tipo mafioso; strage; omicidio; rapina aggravata; estorsione aggravata; sequestro di persona a scopo di estorsione; alcuni delitti commessi per finalità di terrorismo e di eversione o in materia di armi ed esplosivi e di disciplina degli stupefacenti) avvalendosi della circostanza di far parte di una associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416-bis c.p. od al fine di agevolarne l'attività.

Con sentenza 7 dicembre 1994, n. 419, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma sottoposta a referendum nella parte in cui non prevede che il procuratore nazionale antimafia possa disporre con decreto motivato il soggiorno cautelare soltanto in via provvisoria, con l'obbligo di chiedere contemporaneamente l'adozione del provvedimento definitivo al tribunale, ai sensi dell'art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni, che decide, a pena di decadenza, nei termini e con le procedure previste dall' art. 4 della legge, e del comma 5 dell'art. 25-quater, oggetto del referendum. Nella motivazione, la Corte ha osservato che si può ritenere compatibile con i principi costituzionali in materia di garanzie giurisdizionali una disciplina che attribuisce al pubblico ministero il potere di disporre la misura cautelare, "purché però con carattere di provvisorietà e quindi esclusivamente nell'ambito di un procedimento che, entro brevi termini, conduca necessariame

nte all'adozione del provvedimento definitivo da parte di un giudice, con il rispetto delle garanzie della difesa".

A seguito di questa pronuncia, la Corte di cassazione, con ordinanza depositata il 14 dicembre 1994, ha riformulato il quesito referendario, integrandolo con il richiamo al testo della norma risultante dalla citata sentenza n. 419 del 1994.

Il quesito è stato quindi ritenuto ammissibile dalla Corte costituzionale, che ha osservato che "la domanda referendaria appare del tutto chiara nel proporre, quale unica alternativa, quella di sopprimere nel suo complesso o mantenere, nella nuova formulazione dell'art. 25-quater della legge 7 agosto 1992, n. 356, I'istituto del soggiorno cautelare".

L'accoglimento del quesito determinerebbe la semplice abrogazione, senza produzione di alcun "vuoto normativo", dell' art. 25-quater del decreto legge n. 306/1992, nella disposizione risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale; in tal caso verrebbero meno i provvedimenti emanati sulla base della norma.

2) SOGGIORNO CAUTELARE

Sentenza n. 9/1995 della Corte Costituzionale

La richiesta di referendum abrogativo, sulla cui ammissibilità la Corte è chiamata a pronunciarsi, riguarda l'art. 25-quater del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, della legge 7 agosto 1992, n. 356, con il quale è stato introdotto l'istituto del soggiorno cautelare. Un istituto che, come questa Corte ha avuto modo di rilevare, »costituisce indubbiamente una vera e propria nuova misura di prevenzione, la quale viene ad aggiungersi, con presupposti e strutture procedimentale del tutto peculiari, al vigente sistema delle misure di prevenzione personali (v. sentenza n. 419 del 1994). Nessun dubbio quindi sussiste circa l'ammissibilità del quesito in rapporto alle ipotesi osative enunciate dall'art. 75, secondo comma, della Costituzione, considerato che la norma da sottoporre a scrutinio popolare non presenta alcun profilo che consenta di iscriverla nel novero delle leggi

tributarie o di bilancio, di amnistia o di indulto ovvero di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Dal pari, non è dato ravvisare l'esistenza di alcuna delle ragioni di inammissibilità desumibili dalla disciplina costituzionale del referendum abrogativo quale fissata nella sentenza n. 16 del 1978 di questa Corte.

Ad un giudizio positivo deve pervenire anche per ciò che attiene ai requisiti della chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito, considerato che, pur nella apparente complessità dovuta alle modifiche apportate al testo della norma ad opera della legge 24 luglio 1993, n. 256, ed al recepimento nel quesito stesso del dispositivo della già citata sentenza di questa Corte n. 419 del 1994, la domanda referendaria appare del tutto chiara nel proporre, quale unica alternativa, quella di sopprimere nel suo complesso ovvero mantenere, nella nuova formulazione dell'art. 26-quater della legge 7 agosto 1992 n. 356, l'istituto del soggiorno cautelare.

Sussistono, quindi, tutti i presupposti per la declamatoria di ammissibilità della richiesta di referendum indicata in epigrafe.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione dell'art. 25-quater del

decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto della criminalità mafiosa), nel testo introdotto dalla legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356, così come modificato dalla legge 24 luglio 1993, n. 256 (Modifica dell'istituto del soggiorno obbligato e dell'art. 2ter della legge 31 maggio 1965, n. 575), e nel testo risultante dalla sentenza depositata il 7 dicembre 1994, n. 419 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 25quater, primo comma, nella parte in cui non prevede che il Procuratore Nazionale Antimafia può disporre con decreto motivato il soggiorno cautelare soltanto in via provvisoria, con l'obbligo di chiedere contestualmente l'adozione del provvedimento definitivo al Tribunale, ai sensi dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e successive modificazioni, il quale decide, a pena di decadenza, nei termini e con le procedure previste dell'anzidetto art. 4 della legge medesima,

nonché del quinto comma della stessa disposizione: richiesta dichiarata legittima con ordinanza 30 novembre 1994, modificata dall'ordinanza 13 dicembre 1994 dall'ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.

3) PRIVATIZZAZIONE DELLA RAI

Il referendum mira a rimuovere le disposizioni legislative che impediscono l'accesso di capitale privato nella società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo (RAI-S.p.a.). La legge 6 agosto 1990, n. 223, "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato" prevede, all'articolo 2, comma 2, che il capitale sociale della concessionaria pubblica sia controllato dallo Stato direttamente o attraverso il sistema delle partecipazioni statali; una disposizione analoga è contenuta anche nell'articolo 3, comma 1, della legge 14 aprile 1975, n. 103 "Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva" e nell'articolo 1, comma 3, del decreto legge 6 dicembre 1984 n. 807, convertito in legge, con modificazioni, della legge 4 febbraio 1985, n. 10.

La RAI-S.p.a. ha un capitale sociale di 120 miliardi, posseduto per il 99,55% dall'IRI, il cui capitale sociale è interamente posseduto dal Ministero del Tesoro, e per il restante 0,45% dalla SIAE, Società italiana per gli autori e gli editori, ente pubblico economico.

La seconda parte del referendum chiede l'abrogazione dell'articolo 1 del decreto-legge n. 408 del 1992; la disposizione venne emanata in seguito alla trasformazione dell 'IRI in società per azioni, per stabilire che le azioni RAI possono appartenere soltanto allo Stato, ad enti pubblici o a società a loro volta a totale partecipazione pubblica, quale è appunto l'IRI dopo la trasformazione in società per azioni, essendo le azioni stesse di proprietà del Ministero del tesoro.

Nel dichiarare l'ammissibilità del quesito la Corte si è chiesta se la privatizzazione della Rai possa determinare uno snaturamento del servizio pubblico radiotelevisivo, o se la natura pubblica del servizio radiotelevisivo e il carattere di società di interesse nazionale riconosciuto alla Rai, ai sensi dell'articolo 2461 del codice civile, possono "operare indipendentemente dalla qualità pubblica o privata dei soggetti titolari del capitale azionario, riguardando, invece, la specialità del complessivo regime giuridico del servizio pubblico esercitato tramite concessionaria: specialità connessa al raggiungimento di quei fini di interesse generale cui, in ogni caso, non può non ispirarsi lo svolgimento di tale servizio". La Corte ha concluso nel senso ora indicato ed ha poi chiarito che, nel caso di esito abrogativo, il legislatore potrà "adattare e integrare la disciplina di tale regime speciale, in relazione ai possibili riflessi nella gestione sociale della partecipazione privata al capitale della società

concessionaria".

3) PRIVATIZZAZIONE DELLA RAI

Sentenza n. 7/1995 della Corte Costituzionale

Il quesito referendario investe: a) parte dell'art. 2, secondo comma, della legge 6 agosto 1990, n. 223, che prevede l'affidamento in concessione del servizio pubblico radiotelevisivo ad una società per azioni »a totale partecipazione pubblica (il quesito è limitato alle parole richiamate tra virgolette); b) l'intero testo dell'art. 1 decreto-legge 19 ottobre 1992, n. 408 (convertito nella legge 17 dicembre 1992, n. 483), dove si stabilisce che le azioni della »RAI - Radiotelevisione italiana - Società per azioni possono appartenere soltanto allo Stato ad enti pubblici o a società a totale partecipazione pubblica.

Il referendum si propone di abrogare le norme che riservano esclusivamente alla mano pubblica (Stato, enti pubblici e società a totale partecipazione pubblica) la titolarità delle azioni della società concessionaria del servizio pubblico radio-televisivo (RAI - Radiotelevisione italiana): questo al fine di consentire anche ai privati la possibilità di. partecipare al capitale azionario di tale società.

2. - Va innanzitutto constatato che il quesito referendario non incorre in alcuna delle cause di inammissibilità espressamente enunciate nell'art. 75, secondo comma, della Costituzione ovvero desumibili in via di interpretazione logico-sistematica, da tale norma (v. sent. n. 16 del 1978).

Il quesito risponda anche ai requisiti di omogeneità, univocità e completezza richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di ammissibilità dei referendum. Tale quesito risulta, infatti, ispirato da una matrice razionalmente unitaria, chiaramente percepibile dall'elettore e individuabile nel superamento della disciplina che impone attualmente l'imputazione delle quote azionare della società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo soltanto alla sfera pubblica, rappresentata dallo Stato, dagli enti pubblici e dalle società a totale partecipazione pubblica.

3. - Né l'esito referendario, ove fosse positivo, ammettendo una partecipazione privata al capitale azionario della »RAI - Radiotelevisione italiana , potrebbe risultare in contrasto - così da pregiudicare la chiarezza e l'univocità del quesito - con la natura pubblica del servizio radiotelevisivo ovvero con il carattere di società di interesse nazionale riconosciuto, ai sensi dell'art. 2461 cod. civ., alla concessionaria di tale servizio. Tali elementi possono, infatti, operare indipendentemente dalla qualità pubblica o privata dei soggetti titolari del capitale azionario, riguardando, invece, la specialità del complessivo regime giuridico del servizio pubblico esercitato tramite concessionaria: specialità connessa al raggiungimento di quei fini di interesse generale cui, in ogni caso, non può non ispirarsi lo svolgimento di tale servizio (v. sent. n. 58 del 1965).

Sempre in caso di esito positivo della vicenda referendaria il legislatore potrà, d'altro canto, adattare e integrare la disciplina di tale regime speciale, in relazione ai possibili riflessi nella gestione sociale della partecipazione privata al capitale della società concessionaria.

4. - Il quesito referendario va, di conseguenza, dichiarato ammissibile.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione dell'art. 2, comma 2 della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), limitatamente alle parole »a totale partecipazione pubblica , nonché dell'art. 1 del decreto-legge 19 ottobre 1992, n. 408, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 1992, n. 483 (Disposizioni urgenti in materia di pubblicità radiotelevisiva), richiesta dichiarata legittima dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione con ordinanza del 30 novembre 1994.

4) CONCENTRAZIONI IN MATERIA RADIOTELEVISIVA

Il referendum ha lo scopo di impedire che un soggetto possa essere titolare di più di una concessione per la radiodiffusione televisiva in ambito nazionale. Il 9uesito propone, in particolare, di abrogare la disposizione del primo comma dell'art. 15 della legge 6 agosto 1990, n. 223, sulla "disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato", che consente la titolarità di

due concessioni da parte di un soggetto a condizione che lo stesso non abbia anche il controllo di imprese editrici di quotidiani con tiratura superiore all'8% di quella complessiva dei giornali italiani. Resterebbe quindi in vigore il limite di una sola concessione, attualmente previsto dal medesimo primo comma per i soggetti che siano anche titolari di imprese editrici di quotidiani con tiratura superiore dell'8%; tale limite diverrebbe anzi assoluto, poiché il quesito propone anche l'abrogazione del riferimento alla proprietà di imprese editrici che abbiamo appena citato. Tale divieto è attualmente previsto solo per chi controlli imprese editrici di giornali con tiratura superiore, nel precedente anno solare, al 16% del totale nazionale. Nella formulazione originaria, il quesito riguardava anche il quarto comma dello stesso articolo 15, che prevedeva, fatti salvi i limiti prima visti per i casi di contemporaneo possesso di giornali e televisioni, il divieto di titolarità di più del 25% delle emittenti naz

ionali previste dal piano di assegnazione delle frequenze e comunque non più di tre emittenti (il piano è stato approvato nel 1992 e prevede dodici reti nazionali, di cui tre riservate alla RAI e nove ai privati). La norma è stata poi dichiarata incostituzionale con sentenza del 5 dicembre 1994, n. 420, nella quale la Corte ha chiarito che il valore del pluralismo, espresso dall'articolo 21 della Costituzione, si specifica già, come regola di immediata applicazione, nel divieto - in rapporto all'attuale assetto complessivo del settore televisivo - di titolarità di tre concessioni di reti nazionali su nove o di titolarità del 25% del numero complessivo delle reti previste, mentre rimane nella discrezionalità del legislatore disegnare la nuova disciplina positiva di tale limite, fermo restando che qualunque sia la combinazione dei parametri adottati, non sarà in alcun caso possibile che il risultato finale sia tale da consentire che un quarto di tutte le reti nazionali, o un terzo di tutte le reti private in a

mbito nazionale, siano concentrate in un unico soggetto.

Occorre peraltro ricordare che il decreto-legge 27 agosto 1993, n. 323, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 1993, n. 422, ha introdotto una disciplina transitoria in base alla quale le società concessionarie e quelle autorizzate provvisoriamente ai sensi dell'articolo 32 della medesima legge n. 223/90, proseguono nell 'esercizio degli impianti fino all'entrata in vigore di una nuova disciplina del sistema radiotelevisivo, e comunque per un periodo non superiore a tre anni.

La Corte costituzionale ha chiarito che oggetto del quesito sono le norme anticoncentrazione a regime contenute nella legge n. 223 del 1993; in altri termini, l'eventuale abrogazione dell'articolo 15, comma 1, nelle parti richieste dal quesito, produrrebbe i suoi effetti nell'ipotesi in cui al termine della vigenza della disciplina ponte le disposizioni "a regime" della legge 223 tornassero a costituire un parametro legislativo definitivo e immediatamente applicabile.

Qualora il Parlamento, come indicato dalla Corte costituzionale, dovesse por mano, prima del termine della disciplina ponte, alla riforma delle disposizioni che regolano l'assetto radiotelevisivo, l'eventuale abrogazione referendaria opererebbe nel senso di precludere la possibilità che un solo soggetto privato abbia più di una concessione televisiva in ambito nazionale.

5) INTERRUZIONI PUBBLICITARIE

Il quesito tende a ridurre il numero di interruzioni pubblicitarie consentite durante la diffusione televisiva di opere teatrali, cinematografiche, filmiche e musicali.

La disposizione interessata dal referendum è il terzo comma dell'articolo 8 della legge 223/90, in base al quale, in generale, l'inserimento di messaggi pubblicitari nelle opere prima citate può avvenire solamente negli intervalli abitualmente effettuati nella sale teatrali o cinematografiche.

E', poi previsto, in via d'eccezione, che: a) per le opere di durata superiore a 45 minuti si abbia una ulteriore interruzione per atto o tempo; b) se la durata supera di almeno 20 minuti due o più atti o tempi di 45 minuti ciascuno, vi può essere un'altra interruzione.

Il referendum tende ad eliminare le due eccezioni ora citate, consentendo quindi l'inserimento di messaggi pubblicitari solo negli intervalli abitualmente effettuati nelle sale teatrali o cinematografiche.

6) LIMITI ALLA RACCOLTA PUBBLICITARIA

Il referendum riguarda le norme dell'articolo 15, comma 7, della legge n. 223, che disciplinano la raccolta pubblicitaria destinata alle emittenti televisive private. La norma consente alle concessionarie di pubblicità che siano collegate con o controllate da emittenti televisive, di operare la raccolta per non più di tre reti nazionali, mentre se la pubblicità viene raccolta per due reti nazionali è possibile aggiungere tre reti locali, o sei locali se la rete nazionale è soltanto una.

L'abrogazione proposta limiterebbe ulteriormente la possibilità di integrazione verticale tra la concessionaria per la radiodiffusione e l'impresa - controllata o collegata - sua concessionaria di pubblicità, nel senso che le imprese di pubblicità non potrebbero raccogliere pubblicità per più di due reti nazionali e tre reti locali o una rete nazionale e sei locali.

4) CONCENTRAZIONI IN MATERIA RADIOTELEVISIVA

5) INTERRUZIONI PUBBLICITARIE

6) LIMITI ALLA RACCOLTA PUBBLICITARIA

Sentenza n. 8/1995 della Corte Costituzionale

1. - L'Ufficio Centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione in applicazione della legge 25 maggio 1970, n. 352, e successive modificazioni, ha esaminato le tre richieste di referendum popolare presentate il 15 aprile 1994 da Guido Riccardo ed altri cittadini elettori sui seguenti quesiti:

l) »Volete voi che sia abrogato l'art. 15, comma 1 lettera b) limitatamente alle parole "qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi 1'8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia"; l'art. 15, comma 1, lettera c) "di più di due concessioni per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lettera b); assieme all'art. 15, comma 4, limitatamente alle parole "sia" e "televisiva che" della legge 6 agosto 1990, n. 23 pubblicata in Gazzetta Ufficiale 9 agosto 1990, n. 185 S.O., recante il titolo "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato"? .

2) »Volete voi che sia abrogato l'art. 8, comma 3, secondo periodo limitatamente alle parole "Per le opere di durata programmata superiore a quarantacinque minuti è consentita una ulteriore interruzione per ogni atto o tempo. E consentita una ulteriore interruzione se la durata programmata dell'opera supera di almeno venti minuti due o più atti o tempi di quarantacinque minuti ciascuno" della legge 6 agosto 1990, n. 223 pubblicata in Gazzetta Ufficiale 9 agosto 1990, n. 185 S.O. recante il titolo "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato"? .

3) »Volete voi che sia abrogato l'art. 15, comma 7, primo periodo limitatamente alle parole "tre reti televisivi nazionali o "della legge 6 agosto 1990, n. 223 pubblicato in Gazzetta Ufficiale 9 agosto 1990, n. 185 S.O., recante il titolo "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato"? .

2. - L'Ufficio centrale, verificati i risultati delle operazioni di riscontro delle richieste ed accertata la regolarità delle spese, ne ha dichiarata la legittimità con ordinanza del 1· dicembre 1994.

3. - Ricevuta la comunicazione dell'ordinanza, il Presidente di questa Corte ha fissato, per la conseguente deliberazione, il giorno 9 gennaio 1995, dandone comunicazione, a sua volta, ai presentatori della richiesta e al Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi dell'art. 33, comma 2, della legge 25 maggio 1970, n. 352.

4. - Successivamente con ordinanza del 14 dicembre 1994, rilevato che nelle more questa Corte, con sentenza n. 420 del 7 dicembre 1994, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 4, legge n. 223/90 nella parte relativa alla radiodiffusione televisiva, ha riformulato il quesito del referendum iscritto al n. 79 Reg. ref. disponendo che sia eliminato il periodo »assieme all'art. 15, comma 4, limitatamente alle parole "sia" e "televisiva" . Sicché il quesito referendario, di cui sopra sub 1), è risultato così modificato: »Volete voi che sia abrogato l'art. 15, comma 1, lettera b) limitatamente alle parole "qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi l'8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia"; l'art. 15, comma 1, lettera c) "di più di due concessioni per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dall

a lettera b) .

5. - Si sono costituiti i promotori delle suddette richieste referendarie sostenendone l'ammissibilità.

Considerato in diritto

1. - La prima richiesta di referendum abrogativo (n. 79 Reg. ref.) investe il primo comma dell'art. 15 della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato). Tale disposizione fa divieto di essere titolare: a) di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura annua abbia superato nell'anno solare precedente il 16 per cento della tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia; b) di più di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi 1'8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia; c) di più di due concessioni per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lettera b).

Il quesito referendario - lasciando inalterato il limite sub a) - incide sui due successivi limiti sub b) e sub c). In particolare viene chiesta l'abrogazione, nella lettera b), dell'inciso "qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi 1'8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia" e pertanto il limite medesimo diventerebbe assoluto ed invalicabile (non diversamente da quello che era - prima della sentenza n. 420/94 cit. - la prescrizione contenuta nel quarto comma del medesimo art. 15); ossia in nessun caso sarebbe possibile essere titolare di più di una concessione per la radiodiffusione televisiva nazionale; inoltre viene chiesta l'abrogazione di tutta la lettera c).

Fuori dal quesito referendario - per effetto della ordinanza del 14 dicembre 1994 dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione è il successivo quarto comma, che la Corte ha recentemente emendato con sentenza n. 420 del 1994 dichiarandone l'illegittimità costituzionale nella parte relativa alla radiodiffusione televisiva (tale disposizione - originariamente anch'essa investita dal quesito referendario - prevedeva come limite alle concentrazioni il divieto della titolarità di più 25% delle emittenti nazionali previste dal piano di assegnazione delle frequenze e comunque di più di tre emittenti.

2. - La seconda richiesta di referendum abrogativo (n. 80 Reg. ref.) investe il terzo comma dell'art. 8 della medesima legge n. 223/90, disposizione questa che - nel dettare le modalità di trasmissione di messaggi pubblicitari durante le trasmissioni televisive - prescrive in generale che l'inserimento dei messaggi pubblicitari durante la trasmissione di opere teatrali, cinematografiche, liriche e musicali può avvenire unicamente negli intervalli abitualmente effettuati nelle sale teatrali e cinematografiche; consente però, in via di eccezione, che per le opere di durata programmata superiore a quarantacinque minuti si abbia una ulteriore interruzione per ogni atto o tempo; è poi consentita una ulteriore interruzione se la durata programmata dell'opera supera di almeno venti minuti due o più atti o tempi di quarantacinque minuti ciascuno.

Il quesito referendario tende alla rimozione della consentita eccezione alla regola generale mediante l'abrogazione dell'inciso "Per le opere di durata programmata superiore a quarantacinque minuti è consentita una ulteriore interruzione per ogni atto o tempo. E consentita una ulteriore interruzione se la durata programmata dell'opera supera di almeno venti minuti due o più atti o tempi di quarantacinque minuti ciascuno.".

3. - La terza richiesta di referendum abrogativo (n. 81 Reg. ref.) investe il settimo comma dell'art. 15 della stessa legge n. 223/90. Tale disposizione concerne la raccolta della pubblicità ed in particolare detta una prescrizione diretta ad evitare l'insorgenza di posizioni dominanti nell'ambito delle imprese concessionarie di pubblicità ove queste si trovino ad essere controllate dai concessionari privati dalla concessionaria pubblica o dai titolari di autorizzazione ex art. 38 legge n. 103/75. Tali imprese di pubblicità non possono raccogliere pubblicità per più di tre reti televisive nazionali o due reti nazionali e tre locali o una rete nazionale e sei locali.

]:1 quesito referendario mira all'abrogazione dell'inciso "tre reti televisive nazionali, On, inciso che si vuole enucleare dalla disposizione suddetta. 4. - Le tre richieste di referendum abrogativo investono in modo diretto (la prima, consentendo la titolarità di una sola rete nazionale in capo al medesimo soggetto privato) o indiretto (la seconda e la terza, incidendo in senso riduttivo sul quantum di pubblicità fruibile) aspetti finalisticamente complementari del disegni anticoncentrazionistico delineato dalla legge n. 223/90, in atto vigente - come implicitamente presupposto dall'Ufficio centrale per il referendum ed esplicitamente affermato da questa Corte nella sentenza n. 420 del 1994 - pure in costanza della disciplina - ponte dettata dal decreto legge n. 323/93, convertito in legge n. 422/93.

I giudizi relativi di ammissibilità possono quindi essere riuniti e decisi con un'unica sentenza pur restando separate le singole proposte referendarie.

5. - Tutte le richieste suddette sono ammissibili.

5.1. - Nessuna tra le disposizioni oggetto delle iniziative referendarie rientra tra le categorie di leggi sottratte a referendum dall'art. 75, comma 2, Cost., né ad esse sono strettamente collegate. Deve in particolare considerarsi che tali disposizioni non concretano la fattispecie di "norme la cui esistenza ed il cui contenuto siano imposti da obblighi assunti dalla Stato italiano per effetto di trattati internazionali che non lascino alcuno spazio per scelte discrezionali riguardanti l'attuazione, si che l'abrogazione di esse comporti necessariamente una responsabilità dello Stato italiano nei confronti degli altri contraenti per violazione del trattato" (sent. n. 28 del 1993); si ha invece che esse - sia nella formulazione vigente, che in quella eventualmente emendata in caso di esito favorevole della votazione referendaria - rientrano nella discrezionalità del legislatore nazionale nel dare attuazione alla direttiva del Consiglio delle Comunità Europee del 89/552/CEE del 3 ottobre 1989 e sono compatibi

li con le prescrizioni della Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera del 5 maggio 1989 (resa esecutiva con legge 5 ottobre 1991, n. 327).

5.2. - Tutti i tre quesiti referendari rispondono al requisito della chiarezza, omogeneità ed univocità richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (v. ex plurimis, sent. n. 1 del 1994).

In particolare il primo quesito referendario concernente il primo comma dell'art. 15 - nel lasciare inalterato il limite sub a) - incide sui due successivi limiti sub b) e sub c) nel senso che in caso di esito favorevole all'abrogazione il limite sub b) risulterebbe privo della condizione "qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi 1'8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia" e pertanto diventerebbe un limite assoluto ed invalicabile (non diversamente da quello che era - prima della dichiarazione di incostituzionalità pronunciata con la sentenza n. 420 del 1994 - la prescrizione contenuta nel successivo quarto comma del medesimo art, 15); ossia in nessun caso sarebbe possibile essere titolare di più di una concessione per la radiodiffusione televisiva nazionale. Inoltre coerentemente il limite sub c) risulterebbe del tutto abrogato in quanto ridondante. In ordine a questa preclusione alla titolarità di più di una concessione di univoco significa

to e chiara comprensibilità l'elettore è chiamato a votare.

5.3. - Né può ravvisarsi una ragione di incoerenza del quesito referendario per incompletezza, tale da comportare difetto di chiarezza, sul rilievo che esso non comprende anche la disposizione dell'art. 31, comma 6, nella parte in cui - nel quadro delle sanzioni amministrative previste per la violazione della legge n. 223/90 - presuppone la possibilità del rilascio ad un medesimo soggetto privato di più concessioni televisive in ambito nazionale. A parte, invero, il profilo relativo alla applicabilità dell'art. 31, comma 6, anche nel contesto della normativa transitoria introdotta con il decreto legge n. 323/93 citato, l'indicato sul collegamento implicito con l'art. 15, comma 1, della legge n. 223/90 non rende la disposizione non inclusa nel quesito »indissolubilmente legata a quella che si vorrebbe sopprimere (sent. n. 1 del 1994). Ciò perché l'art. 31, comma 6, presuppone la articolata disciplina dettata con l'art. 15, comma 1, unicamente al fine di individuare il proprio ambito di applicazione ad effett

i solo indirettamente concorrenti con quelli perseguiti da quest'ultima disposizione. Sicché la mancata inclusione nel quesito referendario della parte dell'art. 31, comma 6, richiamante la ipotesi di titolarità di più reti televisive nazionali in capo ad un medesimo concessionario privato, non fa venire meno la univocità e la chiarezza del quesito, con tutta evidenza ed immediatezza rivolto a limitare ad una sola le concessioni televisive nazionali assentibili in favore di uno stesso soggetto privato, e soltanto proietta sull'art. 31, coma 6, citato - nella prospettiva di un esito positivo della iniziativa referendaria - la eventualità di un mero restringimento della sua area di applicabilità.

5.4. - Analogamente chiari, omogenei ed univoci sono gli altri due quesiti. Ed infatti, da una parte, la seconda proposta di referendum mira ad eliminare la prevista eccezione alla regola, contenuta del citato terzo comma dell'art, 8, di limitare l'inserimento dei messaggi pubblicitari nelle opere suddette e quindi tende a rendere più rigorosa la regola stessa; dall'altra il terzo quesito referendario mira parimenti a rendere più rigoroso il limite alla raccolta pubblicitaria perché in caso di esito favorevole all'abrogazione la prescrizione risulterebbe formulata in termini maggiormente restrittivi nel senso che le imprese di pubblicità non potrebbero raccogliere pubblicità per più di due reti nazionali e tre reti locali o una rete nazionale e sei reti locali (invece che per più di tre reti televisive nazionali, o due reti nazionali e tre reti locali o una rete nazionale e sei locali).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudici, dichiara ammissibili le richieste di referendum popolare per l'abrogazione:

- dell'art. 15, comma 1, lettera b) limitatamente alle regole "qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi 1'8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia"; l'art. 15, comma 1, lettera c) "di più di due concessioni per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lettera b)" della legge 6 agosto 1990, n. 223, recante il titolo "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato";

- dell'art. 8, comma 3, secondo periodo limitatamente alle parole "Per le opere di durata programmata superiore a quarantacinque minuti è consentita una ulteriore interruzione per ogni atto o tempo. E consentita una ulteriore interruzione se la durata programmata dell'opera supera di almeno venti minuti due o più atti o tempi di quarantacinque minuti ciascuno " della legge 6 agosto 1990, n. 223 recante il titolo "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato";

- dell'art. 15, comma 7, primo periodo limitatamente alle parole " tre reti televisive nazionali, o" della legge 6 agosto 1990, n. 223, recante il titolo "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato";

richieste dichiarate legittime con ordinanza del 1· dicembre 1994, dell'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione.

7) AUTORIZZAZIONI AL COMMERCIO

Il referendum mira a eliminare la disciplina della programmazione della rete di distribuzione commerciale dettata dalla legge n. 426 del 1971, che prevede i piani commerciali, le loro

finalità e procedure di formazione. Il referendum non tocca, invece, I'apertura, il trasferimento e l'ampliamento degli esercizi commerciali sempre sottoposta ad autorizzazione amministrativa dei sindaci, pur in assenza del parametro rappresentato dallo strumento di pianificazione.

Un recente regolamento di delegificazione (D.P.R. 18 aprile 1994, n. 384) ha modificato questa disciplina semplificando il procedimento di rilascio dei provvedimenti di autorizzazione all'apertura, ampliamento e trasferimento degli esercizi commerciali e introducendo il meccanismo del silenzio assenso per l'autorizzazione stessa.

La Corte costituzionale, dichiarando ammissibile il referendum, ha chiarito che questo "incide esclusivamente sul momento della pianificazione commerciale e non è contraddittorio con la disciplina contenuta nello stesso testo di legge, e non toccata dal referendum, relativa al potere del sindaco di autorizzare l 'esercizio dell'attività commerciale, che può continuare a permanere in via autonoma, anche in assenza di poteri pianificatori, qualora il referendum avesse esito positivo".

Viene anche proposta la abrogazione delle norme che attribuiscono al sindaco il potere di negare l'autorizzazione nel caso di contrasto con il piano commerciale e di quelle che fissano i criteri, generici cui il sindaco deve attenersi nel caso di assenza del piano stesso. L'Ufficio centrale per il referendum, ha esteso il referendum anche all 'articolo 8, comma 1 del decreto-legge n. 697 del 1982, che fissa i criteri da seguire per il rilascio delle autorizzazioni commerciali nei comuni con popolazione superiore a 5000 abitanti, che siano sprovvisti di piano di sviluppo e di adeguamento della rete commerciale.

7) AUTORIZZAZIONI AL COMMERCI0

Sentenza n. 3/1995 della Corte Costituzionale

1. - Questa Corte deve accertare la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo oggetto di esame. A tal fine deve stabilire se ricorrano i limiti espressamente previsti dall'art. 75, secondo comma, della Costituzione o comunque impliciti nell'ordinamento costituzionale, relativi alle normative non suscettibili di consultazioni referendarie abrogative, ed accertare altresì se la struttura del quesito proposto risponda alle esigenze di chiarezza, univocità ed omogeneità, quali definite dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità delle richieste referendarie.

2. - Oggetto di esame è la richiesta di abrogazione parziale della legge 11 giugno 1971, n. 426, recante "Disciplina del commercio", e precisamente di una serie di disposizioni - contenute nei capitoli secondo e terzo di detta legge; più l'art. 43, secondo comma, che è norma di carattere transitorio collegata alle prime - le quali delineano il sistema della pianificazione commerciale affidato ai Comuni, sistema incentrato sull'adozione da parte dei consigli comunali dello strumento del piano di sviluppo e di adeguamento della rete di vendita (art. 11 e 12 della legge), cui devono conformarsi le autorizzazioni amministrative rilasciate dall'autorità comunale per l'apertura, il trasferimento e l'ampliamento degli esercizi di vendita (art. 24 della legge).

Il quesito riguarda altresì, nella formulazione definitiva quale risultante dalle integrazioni e precisazioni apportate dall'Ufficio centrale per il referendum con le ordinanze del 30 novembre e del 20 dicembre 1994, l'articolo 8, comma 1, del decreto-legge 1· ottobre 1982, n. 697 (Disposizioni in materia di imposta sul valore aggiunto, di regime fiscale delle manifestazioni sportive e cinematografiche e di riordinamento della distribuzione commerciale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 1982, n. 887 (nel testo sostituito dall'art. 1 del decreto-legge n. 9 del 1987 convertito, con modificazioni dalla legge n. 121 del 1987, come puntualizzato dall'Ufficio centrale). Questa disposizione riguarda la determinazione dei criteri finalizzati al rilascio delle autorizzazioni commerciali nei Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti che siano sprovvisti dello strumento del piano di sviluppo e adeguamento della rete commerciale, in collegamento espresso con la disposizione transit

oria dell'art. 43, secondo comma, della legge n. 426 del 1971 esclusa, come si è detto, nella richiesta.

3. - Il quesito è ammissibile sotto tutti i profili.

Esso, infatti, non riguarda materie che espressamente non sono ammesse alla votazione popolare secondo l'indicazione testuale dell'art. 75, secondo comma, della Costituzione, né materie che implicitamente sono escluse dal referendum abrogativo secondo l'interpretazione logistico-sistematica della medesima disposizione costituzionale, quale più volte precisata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. in particolare la sent. n. 16 del 1978). E di tutta evidenza che la normativa in argomento non rientra nelle ipotesi di bilancio riguardanti le leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali; né la proposta di referendum ha per oggetto norme strettamente collegate a quelle espressamente escluse, o dotate di una forza passiva peculiare o, infine, disposizioni legislative a contenuto costituzionalmente vincolato.

4. - Sussistono altresì i requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità del quesito.

Le disposizioni interessate dall'iniziativa referendaria, considerate nella loro struttura e nella loro finalità, contengono, obiettivamente, quel comune principio unitario la cui eliminazione o permanenza dipende dalla risposta che il corpo elettorale fornirà al quesito. L'alternativa sottesa ad esso è individuale, con sufficiente chiarezza, nella scelta circa la prefigurazione o meno di criteri regolatori dell'equilibrio tra domanda e offerta dei servizi commerciali, in funzione degli obiettivi indicati in termini generali negli articoli 11 e 12 della legge n. 426 del 1971, attraverso strumenti di piano o - in difetto di questi - attraverso l'equipollente predeterminazione di criteri normativi e direttivi cui attenersi in sede di rilascio delle singole autorizzazioni commerciali.

5. - Neppure rileva nel senso della inammissibilità della richiesta referendaria la mancata inclusione, in essa, di altre norme regolatrici del settore commerciale, quali quelle contenute nelle leggi che disciplinano il commercio su aree pubbliche (legge 28 marzo 1991, n. 112) o nei pubblici esercizi (legge 25 agosto 1991, n. 278), e che prevedono anche per questi comparti procedure di pianificazione e conformazione del conseguente atto autorizzativo all'esercizio commerciale. Queste normative coinvolgono, infatti, interessi pubblici diversi ed ulteriori rispetto a quello della disciplina della distribuzione, quali l'utilizzazione di aree pubbliche, la tutela igienico-sanitaria, l'ordine e la sicurezza pubblica. La permanenza di dette discipline, tradizionalmente distinte da quella concernente l'attività commerciale in generale, non può dunque ritenersi in sé incoerente e contraddittoria con l'abrogazione delle norme oggetto del referendum (cfr. sent. n. 36

del 1993; n. 27 e n. 29 del 1981), neppure avuto riguardo alla specifica previsione di "adeguato equilibrio" tra densità della rete commerciale su aree pubbliche e "installazioni commerciali a posto fisso e altre forme di distribuzione in uso" (art. 3, comma 4, della legge n. 112 del 1991 citata): una previsione, questa che non implica necessariamente la pianificazione del settore commerciale dalla stessa non regolato e cui genericamente essa fa richiamo.

6. - Analoghe considerazioni possono farsi in relazione ad altre forme che si ricollegano, sul piano degli effetti pratici, a quelle oggetto del quesito e che sono costitutive: a) dalla disciplina del credito agevolato al commercio (legge 10 ottobre 1975, n. 517); b) dalla previsione contenuta nell'art. 4, comma 1, del decreto-legge 9 dicembre 1986, n. 832 (titolato "Misure urgenti in materia di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione"), convertito, con modificazioni dalla legge 6 febbraio 1987, n. 15.

Quanto alla prima normativa, l'eventuale esito positivo dell'iniziativa referendaria ne determina in modo automatico l'inoperatività per la parte in cui essa collega la concessione del credito agevolato alle finalità della pianificazione commerciale ivi richiamata (art. 1 e art. 6, quinto comma, punto 4, della legge n. 517 del 1975). Quanto alla seconda, va rilevato che essa consente alle autorità comunali di prefigurare ipotesi di incompatibilità tra insediamenti commerciali e zone di particolare interesse locale in funzione di interessi ambientali e storici; il che spiega l'esclusione di detta peculiare normativa - che pone un limite esterno alla libertà di commercio, con connotati di pianificazione - dall'ambito dell'iniziativa referendaria. 7. - Per tutte le ragioni svolte risulta chiaro che l'iniziativa referendaria incide esclusivamente sul momento della pianificazione commerciale e non è contraddittoria con la disciplina - contenuta nello stesso testo di legge e non toccata dal quesito referendario -

relativa al potere del sindaco di autorizzare l'esercizio dell'attività commerciale, che può continuare a permanere in via autonoma, anche in assenza di poteri pianificatori qualora il referendum avesse esito positivo.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione della legge 11 giugno 1971, n. 426, recante "Disciplina del commercio" e successive modificazioni e integrazioni limitatamente alle seguenti parti:

art. 11; art. 12; art. 14; art. 15; art. 16; art. 18, limitatamente al comma 2: "Qualora le commissioni di cui agli art. 15 e 16 non siano nominate entro i termini previsti, il Presidente della Giunta regionale invita a provvedere entro un termine da lui fissato non superiore a sessanta giorni. Trascorso tale termine senza che la nomina sia avvenuta, il Presidente della Giunta regionale provvede con proprio decreto, tenuto conto delle designazioni effettuate.";

art. 20; art. 21; art. 22; art. 23; art. 24, comma 2, limitatamente alle parole: »con la osservanza dei criteri stabiliti da piano nonché alle parole: »e quindi l'equilibrio commerciale previsto dal piano e comma 3, limitatamente alle parole: »del plano e ;

art. 27, comma 2: "Il nullaosta della Giunta regionale di cui al precedente ed al presente articolo può essere concesso anche in deroga a quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 12.";

art. 30; art. 43, comma 2: "Fino a quando non siano approvati i piani di sviluppo e di adeguamento della rete distributiva, le autorizzazioni saranno rilasciate dai sindaci su conforme parere delle commissioni di cui agli art. 15 e 16 nell'osservanza dei criteri previsti agli art. 11 e 12, previo il nullaosta della Giunta regionale per le autorizzazioni di cui agli art. 26 e 27 della presente legge."; nonché del decreto-legge 1· ottobre 1982, n. 697, recante "Disposizioni in materia di imposta sui valore aggiunto, di regime fiscale delle manifestazioni sportive e cinematografiche e di riordinamento della distribuzione commerciale", convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 1982, n. 887, limitatamente a: art. 8, comma 1, nel testo sostituito dall'art. 1 del decreto legge 26 gennaio 1987, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 marzo 1987, n. 121: "Limitatamente ai comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti sprovvisti del piano di sviluppo e di adeguamento della rete di

vendita il Consiglio comunale stabilisce ai sensi degli art. 11 e seguenti della legge 11 giugno 1971, n. 426, i criteri ai quali la commissione comunale per il commercio prevista da tale legge deve attenersi nell'esaminare le domande di autorizzazione ai sensi dell'art. 43, secondo comma, della legge stessa. I criteri sono validi sino all'approvazione del piano. La mancata indicazione dei criteri suddetti comporta la sospensione del rilascio delle autorizzazioni relative all'apertura di esercizi di vendita al dettaglio di generi di largo e generale consumo.";

richiesta dichiarata legittima, con ordinanze del 30 novembre 1994 e del 20 dicembre 1994, dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione.

8) ORARI DEGLI ESERCIZI COMMERCIALI

Il referendum si propone di liberalizzare la disciplina degli orari degli esercizi commerciali. A questo fine viene proposta, innanzitutto, I'abrogazione degli articoli 1, 3, 4, 5, 6, 7, e 8 della legge 28 luglio 1971, n. 558, sulla "Disciplina dell'orario dei negozi e degli esercizi di vendita al dettaglio" che prevedono la delega alle regioni, ai sensi dell'art.118, secondo comma, della Costituzione, a determinare l'orario di apertura e chiusura dei negozi e delle altre attività commerciali che esercitano la vendita al dettaglio. La legge prevede che nella determinazione dell'orario le regioni si attengano a criteri quali la chiusura totale nei giorni domenicali e festivi, il rispetto di un limite massimo di ore di apertura nell'ambito della settimana, I'obbligo di chiusura infrasettimanale per mezza giornata, e così via.

Le disposizioni individuate dal referendum prevedono la possibilità per le regioni di differenziare l'orario, fissato nei limiti suddetti, per località o zone e per settori merceologici, e la possibilità di deroghe ai limiti fissati, in alcune circostanze (festività natalizie e periodi di maggiore afflusso turistico). Sono anche indicati gli esercizi commerciali esclusi dall'ambito della legge e disciplinati gli orari delle attività miste.

L'Ufficio Centrale per il referendum ha riformulato il quesito estendendolo anche all'art. 54, lettera d) del D.P.R. n. 616/1977, che attribuisce ai comuni, sulla base di criteri stabiliti dalla regione, I 'esercizio delle funzioni amministrative riguardanti gli orari di apertura e di chiusura dei negozi e dei pubblici esercizi di vendita di alimenti e bevande. Infine, la materia è regolata anche dall'articolo 8, comma 4, del decreto-legge n. 697/1982 che ha attribuito ai sindaci la competenza sui limiti giornalieri degli orari di vendita, in conformità ai criteri stabiliti dalle regioni e entro fasce orarie indicate dallo stesso decreto-legge; nell'ambito dei limiti fissati dal sindaco, è attribuita una limitata facoltà di scelta allo stesso operatore commerciale. Va ricordato che per alcune categorie di esercizi commerciali sono in vigore apposite discipline legislative, non incluse nel referendum e che, a norma dell'art.12 della legge n. 558/1971, non toccato dal referendum, restano salve le competenze in

materia di referendum delle regioni a statuto speciale. La Corte costituzionale ha sottolineato come non rilevi, ai fini della chiarezza del quesito, la sopravvivenza del potere del sindaco di disciplinare gli orari di vendita di alcune categorie di distribuzione commerciale, poiché tali specifici settori hanno sempre avuto una disciplina differenziata. Pure irrilevante è stata dichiarata la perdurante vigenza dell'art. 36 della legge n. 142 del 1990 sull'ordinamento delle autonomie locali, che attribuisce al sindaco un potere di coordinamento in materia di orari, poiché tale potere riguarda anche altre attività sulle quali non interferisce la normativa oggetto del referendum.

In caso di esito positivo del referendum la determinazione degli orari dei negozi sarebbe rimessa alla libera scelta degli esercenti.

8) ORARI DEGLI ESERCIZI COMMERCIALI

Sentenza n. 4/1995 della Corte Costituzionale

1. - Questa Corte deve accertare la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo oggetto di esame. A tal fine deve stabilire se ricorrano i limiti espressamente previsti dall'art. 75, secondo comma, della Costituzione o comunque impliciti nel sistema, relativi alle normative non suscettibili di consultazioni referendarie abrogative ed accertare, altresì, se la struttura del quesito proposto risponda alle esigenze di chiarezza, univocità ed omogeneità, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità delle richieste referendarie.

2. - Il quesito referendario è diretto alla abrogazione delle norme che disciplinano l'orario dei negozi e degli esercizi di vendita al dettaglio, attribuendo ai sindaci la fissazione dei limiti di detti orari in conformità ai criteri stabiliti dalle regioni. Vengono altresì sottoposte a referendum le successive modifiche delle norme, secondo la formulazione del quesito.

3. - L'iniziativa referendaria è da ritenersi ammissibile sotto tutti i profili.

Non si ravvisa, difatti, alcuna delle cause ostative previste espressamente dall'art. 75, secondo comma, della Costituzione o desumibili dalla disciplina costituzionale del referendum abrogativo (cfr. in proposito la sent. n. 16 del 1978). In particolare sussistono i requisiti della chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito, in quanto le disposizioni oggetto del referendum, obiettivamente considerate nella loro struttura e finalità, contengono effettivamente quel principio la cui eliminazione o permanenza dipende dalla risposta che il corpo elettorale fornirà.

Va inoltre precisato che, in relazione alla normativa in oggetto dell'iniziativa, quella che residua nel medesimo testo di legge non altera la chiarezza, omogeneità ed univocità del quesito, perché assolve ad una autonoma funzione. Infatti, tra le norme della legge 28 luglio 1971, n. 558 non interessate dalla proposta referendaria (a parte l'art. 2, che è stato già abrogato dall'art. 7 della legge n. 112 del 1991), l'art. 9 disciplina gli orari di apertura e chiusura e i turni festivi degli impianti stradali di distribuzione di carburante, per i quali si giustifica il permanere della peculiare loro disciplina e, quindi, il non coinvolgimento nella proposta referendaria; l'art. 10 reca le sanzioni amministrative per le contravvenzioni alle disposizioni della legge, ovviamente riferibili - in caso di esito positivo del referendum - soltanto alla disciplina relativa agli impianti di distribuzione di carburanti; I'art. 11 abroga una precedente legge (n. 973 del 1932) sugli orari dei negozi e l'art. 12 fa salve l

e competenze in materia di commercio delle regioni a statuto speciale.

4. - Né può ritenersi che il riferimento, contenuto in altre norme non inserite nel quesito, al potere del sindaco di disciplinare gli orari di vendita possa inficiare la chiarezza e l'omogeneità della richiesta, poiché le relative disposizioni (art. 3 della legge n. 112 del 1991 e art. 8 della legge n. 287 del 1991) attengono a forme di distribuzione commerciale diverse da quella ordinaria, e cioè, rispettivamente, al commercio sulle aree pubbliche ed ai pubblici esercizi per la somministrazione di alimenti e bevande. La disciplina per detti settori è stata sempre distinta da quella relativa alla vendita negli esercizi commerciali al dettaglio, diversi essendo gli interessi pubblici sottesi alle differenti discipline e cioè, ad esempio, quelli di igiene e sanità per i mercati rionali e quelli in ordine e sicurezza pubblica per i pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande (cfr. art. 9 legge n. 287 del 1991).

5. - Né infine rileva, sempre ai fini della chiarezza del quesito, la norma (anch'essa non coinvolta nella richiesta referendaria) di cui all'art. 36, comma 3, della legge n. 142 del 1990 sull'ordinamento delle autonomie locali - che attribuisce al sindaco il potere di coordinare gli orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici nonché gli orari di apertura al pubblico degli uffici periferici delle amministrazioni pubbliche, in vista delle esigenze degli utenti - perché, pur con l'eventuale esito positivo dell'iniziativa referendaria, si giustifica in ogni caso la perdurante vigenza della norma, che disciplina un potere di coordinamento di orari relativi anche ad altre attività sulle quali non interferisce la normativa oggetto del quesito.

6. - Per tutte le ragioni svolte, il quesito appare pienamente comprensibile, essendo chiaro all'elettore che egli viene chiamato ad abrogare le norme che attribuiscono a pubbliche autorità il potere di determinare gli orari dei negozi di vendita al dettaglio, con conseguente liberalizzazione ed affidamento di dette scelte alle determinazioni di coloro che esercitano l'attività secondo questa forma di distribuzione commerciale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione della legge 28 luglio 1971, n. 558, recante "Disciplina dell'orario dei negozi e degli esercizi di vendita al dettaglio", limitatamente agli art. 1, 3, 4, 5, 6, 7 e 8; nonché del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, limitatamente all'art. 54, lett. d), limitatamente alle parole »dei negozi, e alle parole »vendita e ;

nonché del decreto-legge 1· ottobre 1982 n, 697, recante "Disposizioni in materia di IVA, di regime fiscale delle manifestazioni sportive e cinematografiche e di riordinamento della distribuzione commerciale", convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 1982, n. 887, relativamente all'art. 8 (nel testo sostituito dall'art. 1 del decreto-legge 26 gennaio 1987 n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 marzo 1987 n. 121), comma 4: "Fermo rimanendo quanto disposto dalla legge 28 luglio 1971, n. 558, a modificazione dell'art. 1, secondo comma, lett. b), della legge medesima, i sindaci, in conformità ai criteri stabiliti dalle regioni ai sensi dell'art. 54 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, fissano i limiti giornalieri degli orari di vendita al dettaglio, anche differenziati per settori merceologici, indicando l'ora di apertura antimeridiana non oltre le ore 9 e l'ora di chiusura serale non oltre le ore 20 o, nel periodo dell'anno nel quale è in vigore l'ora legale, non oltre le ore 2

1. Nel rispetto dei limiti così fissati l'operatore commerciale, può scegliere l'orario di apertura e di chiusura con facoltà, inoltre, di posticipare, sempre rispetto ai predetti limiti, di un'ora l'apertura antimeridiana e corrispondentemente la chiusura serale, che comunque non può avvenire oltre le ore 21.";

comma 5: "Le disposizioni di cui all'art. 6, secondo comma, della legge 28 luglio 1971, n. 558, sono estese agli esercizi specializzati nella vendita di bevande, libri dischi, nastri magnetici musicassette, videocassette, opere d'arte, oggetti d'antiquariato, stampe, cartoline, articoli ricordo e mobili.",

richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 30 novembre 1994, dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione.

9) CONTRIBUTI SINDACALI

Il referendum verte sull'abrogazione dei commi 2 e 3 dell'art. 26 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (lo "Statuto dei lavoratori") e, in base all'integrazione disposta dalla Corte di Cassazione, dell'art. 594 del sopravvenuto D.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, relativo al personale della scuola.

Il quesito 2 dell'art. 26 dispone che le associazioni sindacali hanno diritto di percepire i contributi volontari dei lavoratori tramite ritenuta sulla retribuzione oppure, ipotesi aggiunta dall'art.18, comma 2 della legge 23 luglio 1991, n. 223, sulle prestazioni erogate dal datore per conto degli enti previdenziali. I modi del versamento e della riscossione, stabiliti dai contratti collettivi di lavoro, devono garantire la segretezza del contributo.

Il comma 3 dell'art. 26 estende alle aziende in cui non trova applicazione alcun contratto collettivo il diritto del lavoratore di chiedere il versamento del contributo all'associazione da lui indicata.

La disciplina sottoposta a referendum si applica, per quanto riguarda le imprese industriali e commerciali, alle unità produttive con più di 15 dipendenti e, per le imprese agricole, a quelle con più di 5 lavoratori; I'art. 55 del D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, ha disposto, inoltre, I'applicazione della L. n. 300 e, quindi, anche dell'art. 26, alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti.

In caso di approvazione della proposta abrogativa, il meccanismo della ritenuta sindacale continuerebbe a operare in base alle previsioni dei vari contratti collettivi che, in genere, stabiliscono un principio di rinnovazione tacita, salvo atto di revoca. L'effetto abrogativo riguarderebbe la base legale del diritto delle organizzazioni sindacali alla riscossione dei contributi tramite ritenuta sulla retribuzione, con la conseguente restituzione della materia all'autonomia contrattuale delle parti. Inoltre, con la soppressione dell'art. 26, comma 2, della L. n. 300, verrebbe meno il principio della segretezza del versamento.

9) CONTRIBUTI SINDACALI

Sentenza n. 13/1995 della Corte Costituzionale

1. - Il quesito referendario investe le due norme contenute nel secondo e nel terzo comma dell'art. 26 della legge 20 maggio 1970, n. 300 nonché quelle, sopravvenute, contenute nell'art. 594 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, cui il quesito stesso è stato allargato dall'Ufficio centrale a titolo di integrazione ed estensione.

L'art. 26, secondo comma, della legge n. 300 del 1970 (come sostituito dall'art. 18 della legge 23 luglio 1991, n. 223), attribuisce alle associazioni sindacali il »diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendano loro versare con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale . Il terzo comma dello stesso articolo prevede poi che, nelle aziende in cui il rapporto di lavoro non sia regolato da contratti collettivi, il lavoratore ha »diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all'associazione da lui indicata .

L'art. 594 del decreto legislativo n. 297 del 1994, a sua volta, prevede la »facoltà del personale della scuola di destinare una »quota mensile dello stipendio, paga o retribuzione per il pagamento dei contributi sindacali nella misura stabilita dai competenti organi statutari della singola organizzazione sindacale cui il lavoratore aderisce, e disciplina le modalità di rilascio della relativa delega (comma 1), i termini di validità della stessa (comma 2), la forma e le condizioni della sua eventuale revoca (commi 2 e 4), le modalità di versamento delle trattenute operate dalle singole amministrazioni (comma 3).

2. - La richiesta dunque non riguarda le materie per le quali l'art. 75, secondo comma, della Costituzione espressamente non ammette il referendum, né materie da ritenersi escluse secondo l'interpretazione logico-sistematica della medesima disposizione costituzionale, fattane ripetutamente da questa Corte.

3. - E inoltre ravvisabile la necessaria chiarezza nella finalità e nella struttura del quesito, il quale si presenta univoco e omogeneo, poiché: a) incorpora l'evidenza del fine intrinseco all'atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del 1987; v. anche sentenze n. 16 del 1978 e n. 25 del 1981); b) ha riguardo a un »comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale (sentenza nn. 22, 26 e 28 del 1981; nn. 63 e 65 del 1990); c) tende a un esito netto e lineare, in ragione della propria natura meramente ablativa, concretandosi le conseguenze abrogative in una situazione esattamente contraria a quella prevista dalle norme oggetto del referendum e facilmente percepibile dal corpo elettorale.

3.1. - Basti considerare in proposito che i due commi dell'art. 26 della legge n. 300 del 1970 sono strettamente collegati fra loro, concorrendo a configurare in ogni caso la »ritenuta come diritto perfetto del sindacato: il momento di collegamento è individuabile proprio nel diritto del sindacato alla trattenuta dei contributi sindacali »sul salario nonchè sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali (cui corrispondono »le trattenute operate dalle singole amministrazioni sulle retribuzioni dei dipendenti ex art. 594 del decreto legislativo n. 297 del 1994), giacché il diritto del »lavoratore previsto nel terzo comma dell'art. 26 della legge n. 300 del 1970 e la facoltà del »personale prevista nell'altra disposizione citata, presuppongono comunque un diritto dell'associazione da loro indicata, come garanzia di effettività dell'imposizione dell'obbligo, rispettivamente, al »datore di lavoro e alle »singole amministrazioni scolastiche. L'intendimento abrogativo consiste appunto nel voler

eliminare la base legale di quel diritto e del correlativo obbligo di intermediazione, per restituire la materia all'autonomia prevata, individuale e collettiva.

3.2. - Per converso, poi non è ravvisabile un imprescindibile collegamento dei due ultimi commi col primo comma dello stesso citato art. 26, il quale attribuisce ai lavoratori »il diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per la loro organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro : diritto che costituisce semplice espressione individuale dell'attività sindacale, correlata invece alla norma del precedente art. 14, il quale proclama il diritto, garantito a tutti i lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro, di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale. Né sono rinvenibili altre disposizioni dettate nel medesimo contesto normativo, indissolubilmente legate a quelle che si mira a sopprimere.

In particolare con riguardo al pubblico impiego, giova ricordare che l'art. 23 della legge 29 marzo 1983, n. 93 (che aveva fra l'altro previsto l'applicabilità dei principi di cui all'art. 26 in esame ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, così modificando l'originaria previsione di cui all'art. 50 della legge 18 marzo 1968, n. 249), è stato espressamente abrogato dall'art. 74 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, il cui art. 55 prevede puramente e semplicemente l'applicabilità di tutta la legge n. 300 del 1970 alle pubbliche amministrazioni. E non rileva, poiché certamente non si traduce in una ragione di incoerenza del quesito, che eventuali deroghe a codesta applicabilità possono rintracciarsi attraverso lo strumento dell'interpretazione, in precedenti disposizioni connesse a statuti speciali e non espressamente abrogate dal citato decreto legislativo.

Conseguentemente rimane esclusa una qualunque ricaduta sulla residuale normativa, da parte di un'eventuale abrogazione delle disposizioni oggetto del referendum, limitandosi l'effetto di questa all'elisione di norme attributive del già menzionato diritto, la cui eliminazione o permanenza viene dunque fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale. Ed è appena il caso di aggiungere che non incide in alcun modo sul giudizio di ammissibilità la permanenza del riferimento alle trattenute sindacali contenuta in discipline con matrici e rationes del tutto diverse da quelle della legislazione di sostegno.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione degli art. 26, secondo e terzo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 e 594 del decreto legislativo 15 aprile 1994, n. 297; richiesta dichiarata legittima con ordinanza 30 novembre 1994 dell'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.

10 e 11) RAPPRESENTANZE SINDACALI AZIENDALI

Nel 1993 vennero promossi due referendum per l'abrogazione dell'art.l9, comma 1 della legge 20 maggio 1970, n. 300, (lo "Statuto dei lavoratori"), entrambi ammessi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 12 gennaio 1994. La norma in discussione disciplina la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, prevedendo che queste possano formarsi su iniziativa dei lavoratori, nell'ambito delle associazioni sindacali "aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale" o firmatarie di contratti collettivi "nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva". Il successivo art. 35 limita l'ambito di applicazione delle norme, per le imprese industriali e commerciali, alle unità produttive con più di 15 dipendenti e per le imprese agricole, a quelle con più di 5 lavoratori.

Uno dei quesiti propone l'abrogazione di ogni riferimento alle associazioni sindacali. L'altro, invece, fa salvo il legame tra rappresentanze sindacali e associazioni sindacali e riguarda la soppressione del primo requisito posto per queste ultime (I'adesione alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale). L'approvazione del primo quesito, di maggiore effetto abrogativo, assorbirebbe in ogni caso l'esito del secondo, anche se quest'ultimo venisse respinto (o se non votasse la maggioranza degli aventi diritto, come richiede l'art. 75 della Costituzione ai fini della validità del referendum). In caso venga approvata solo la seconda proposta abrogativa, le rappresentanze aziendali potrebbero essere costituite, su iniziativa dei lavoratori, nell'ambito delle associazioni sindacalifirmatarie di contratti collettivi, anche aziendali, applicati nell'unità produttiva.

Questi referendum non potranno tenersi prima di domenica 14 maggio 1995, poiché, in base all'art. 35 della legge n. 352 del 1970, il relativo procedimento riprende dal 365· giorno successivo alla data delle elezioni politiche cioè, nel nostro caso, dal 27 marzo 1995, termine dal quale decorre il periodo minimo per gli adempimenti elettorali, che è di 45 giorni.

12) RAPPRESENTATIVITA' SINDACALE NEL PUBBLICO IMPIEGO

Il referendum, dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 12 gennaio 1994, chiede l'abrogazione dell'art. 47 del D. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che disciplina i criteri della rappresentatività sindacale nel pubblico impiego ai fini, tra l'altro, della legittimazione delle associazioni e delle confederazioni sindacali alla stipulazione dei contratti collettivi nazionali. Dopo la richiesta di referendum, con la sentenza 30 luglio 1993, n. 359 la Corte Costituzionale, ha dichiarato la parziale illegittimità dell'art. 47; a seguito di tale decisione, il testo dell'articolo è stato modificato dall'art. 22 del D. lgs. 23 dicembre 1993, n. 546. L'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione ha quindi disposto l'integrazione del referendum con le modifiche intervenute per effetto della sentenza e della nuova disciplina

legislativa.

L'art. 46 del D. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, nel testo sostituito dall'art. 15 del D. lgs. 18 novembre 1993, n. 470, stabilisce, al comma 7, che i contratti collettivi nazionali, in ciascun comparto del pubblico impiego, sono stipulati, per la parte sindacale, dalle confederazioni più rappresentative sul piano nazionale e dalle organizzazioni più rappresentative sul piano nazionale nell'ambito del singolo comparto.

Il comma 1 dell'art. 47, prevede che i criteri per la definizione della maggiore rappresentatività sul piano nazionale delle confederazioni e delle organizzazioni sindacali vengano stabiliti da un accordo tra il Presidente del Consiglio dei Ministri, o un suo delegato, e le confederazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, individuate secondo i parametri fino ad ora vigenti nel pubblico impiego. Tale accordo viene recepito con decreto dal Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentita la Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano per gli aspetti di interesse regionale. La previsione del parere della Conferenza costituisce la modifica apportata dal D. lgs. n. 546, dopo che la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 359, aveva dichiarato incostituzionali le disposizioni dell'art. 47 della contrattazione collettiva nazionale dei dipendenti delle Regioni a statuto ordinario e degli enti regionali (le Regioni

a statuto speciale non rientrano nel sistema di contrattazione collettiva nazionale).

Il comma 2 dell'art. 47 prevede che, in attesa della piena attuazione della disciplina prevista dal comma 1 appena citato, restano valide le disposizioni poste dall'art. 8 del D.P.R. 23 agosto 1988, n. 395 (accordo intercompartimentale per il triennio 1988-90) e le relative direttive adottate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della funzione pubblica. Questa normativa si applica, in questa fase transitoria, anche ai contratti per i dirigenti, disciplinati dall'art. 46 del D. lgs. n. 29 e ai contratti collettivi decentrati, fino alla definizione, nei contratti nazionali, dei criteri e dei modi di composizione della rappresentanza sindacale per tali settori.

La disciplina dell'art. 8, come specifica la circolare dell'll marzo 1991 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, stabilisce per la confederazione e per le organizzazioni sindacali i seguenti parametri: l) numero di iscritti, risultante dalle deleghe conferite all'amministrazione per la ritenuta del contributo sindacale, non inferiore al 5% del totale delle deleghe di ciascun comparto di contrattazione del pubblico impiego; 2) ottenimento, in ciascun comparto, di un numero di voti pari ad almeno il 5% dei votanti in occasione di elezioni (in via principale, per la nomina dei rappresentanti del personale nelle commissioni del personale, se è prevista al riguardo una procedura elettiva.); 3) presenza dell'organizzazione o confederazione in almeno un terzo delle regioni o delle province, con adeguata consistenza misurata con i criteri di cui al punto n. 1). I primi due parametri sono validi anche per la contrattazione decentrata. Particolari criteri sono previsti per le seguenti categorie: l) personale dir

igente; 2) personale di area medica del Servizio sanitario nazionale; 3) personale dipendente di amministrazioni che costituiscono articolazioni settoriali con caratteri peculiari all'interno dei comparti di contrattazione; 4) personale appartenente a categorie che presentano un'assoluta specificità, rilevanza e eterogeneità rispetto alle altre del relativo comparto. Da ultimo con decreto del ministro per la funzione pubblica del 1· dicembre 1994 sono state individuate, sulla base dei suddetti criteri, le confederazioni e le organizzazioni sindacali aventi diritto alla partecipazione alle trattative per la stipulazione dei contratti collettivi nazionali del pubblico impiego.

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza di ammissibilità, ha chiarito che, in caso di approvazione del referendum, nota la sentenza n. 1 del 1994 della Corte Costituzionale, i criteri "saranno stabiliti dal legislatore con modalità diverse da quelle previste dalla disposizione abrogata oppure, in difetto di intervento legislativo, dalla giurisprudenza in via interpretativa". Tali nuovi criteri si applicheranno, sostiene la Corte, anche per l'individuazione degli organismi di rappresentanza dei dipendenti pubblici nelle unità amministrative per l'esercizio dei diritti sindacali, i quali, ai sensi dell'art. 25 della legge n. 93 del 1983 (non abrogato dal D. lgs. n. 29 del 1993), possono essere costituiti, su iniziativa dei medesimi dipendenti, nell'ambito delle associazioni sindacali aderenti alle confederazioni più rappresentative sul piano nazionale o delle altre associazioni sindacali aventi titolo, in base alla disciplina ricordata, a partecipare alla contrattazione collettiva per il pubblico impieg

o.

10) E 1l) RAPPRESENTANZE SINDACALI AZIENDALI

12) RAPPRESENTATIVITA' SINDACALE NEL PUBBLICO IMPIEGO

Sentenza n. 1/1994 della Corte Costituzionale

1. - I quesiti referendari descritti in narrativa investono due disposizioni contenute l'una in una legge (art. 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300), l'altra in un atto avente forza di legge (art. 47 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29). Entrambe concernono la materia della rappresentatività sindacale e pertanto, sebbene le richieste rimangano distinte e non unificabili, i giudizi di ammissibilità possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - La costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e così pure i modi di determinazione delle associazioni sindacali maggiormente rappresentative legittimate alla contrattazione collettiva nel settore del pubblico impiego, non rientrano tra le materie per le quali l'art. 75, secondo comma, Cost. non ammette il referendum. Appaiono inoltre rispettate le esigenze di chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito, al fine di consentire agli elettori l'espressione di un voto consapevole. Il riferimento a una duplice causa dell'integrazione, ordinata dall'Ufficio centrale, del quesito proposto dalla richiesta sub III) non può produrre perplessità, essendo facilmente distinguibile, anche sintatticamente, la diversa funzione - rispettivamente di ratio e di fonte - svolta dalla sentenza di questa Corte n. 359 del 1993 e dal d.lgs. n. 546 del 1993 nella produzione della modifica sopravvenuta nel testo della disposizione investita dal referendum.

Il quesito sub Il) esprime chiaramente l'intendimento (massimale) dei promotori di ottenere l'abrogazione di tutti i criteri di »maggiore rappresentatività adottati dal citato art. 19, primo comma, lett. a) e b), per la selezione delle rappresentanze sindacali aziendali destinatarie dei diritti e delle tutele previsti nel titolo III della legge n. 300 del 1970, mentre dal quesito sub 1) - legato al secondo da una relazione logica di alternatività subordinata - risulta l'intendimento (minimale) di ottenere almeno l'abrogazione dell'indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lettera a) e l'abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva prevista dalla lettera b). Gli esiti dell'eventuale approvazione dei referendum sono coerenti con le finalità perseguite.

Non si potrebbe obiettare, invocando le sentenze di questa Corte nn. 27 e 29 del 1981, che la formulazione dei quesiti non è chiara per la contraddizione fra la richiesta di abrogazione (parziale) dell'art. 19, primo comma, della legge n. 300 del 1970 e la conservazione dell'art. 29 pur nelle parti in cui - a differenza di altre disposizioni, che rinviano genericamente all'art. 19 (art. 22, 23 e 30) - richiama specificamente »le lettere a e b del primo comma dell'articolo predetto . Tale specifico richiamo non rende la disposizione indissolubilmente legata a quella che si vorrebbe sopprimere. L'approvazione dell'uno o dell'altro referendum inciderebbe soltanto sull'ampiezza del suo ambito normativo.

3. - La terza richiesta di referendum (reg. ref. n. 62) si propone l'abrogazione totale dell'art. 47 del d.lgs. n. 29 del 1993, modificato dal d.lgs. n. 546 del 1993, il quale, ai fini della partecipazione alla contrattazione collettiva nel pubblico impiego regolata dagli art. 45 e 46, rimette la definizione della maggiore rappresentatività sindacale a un apposito accordo tra il governo e le confederazioni sindacali già qualificate come maggiormente rappresentative ai sensi dell'art. 8 del d.P.R. 23 agosto 1988, n. 395 (accordo intercompartimentale per il triennio 1988-90).

Non può ritenersi contraddittoria la mancata proposta di abrogazione dell'art. 25 della legge 29 marzo 1983, n. 93 (non abrogato dall'art. 74 del d.lgs. n. 29 del 1993), che abilita all'esercizio dei diritti sindacali nelle unità amministrative gli organismi di rappresentanza dei dipendenti pubblici costituiti nell'ambito delle confederazioni più rappresentative sul piano nazionale e dei sindacati autonomi aventi titolo a partecipare alla contrattazione collettiva per il pubblico impiego. Questa norma non è legata ai criteri di maggiore rappresentatività attualmente vigenti il cui consolidamento la richiesta referendaria mira a impedire mediante l'abrogazione del citato art. 47 del d.lgs. n. 29 del 1993. Nel caso di approvazione del referendum, i criteri che saranno stabiliti dal legislatore con modalità diverse da quelle previste dalla disposizione abrogata, oppure, in difetto di intervento legislativo, dalla giurisprudenza in via interpretativa, si applicheranno anche per l'individuazione delle rappresenta

nze sindacali dei dipendenti nei luoghi di lavoro.

4. - Infine, per quanto riguarda l'art. 19 della legge n. 300 del 1970, la coesistenza dei due referendum non sembra possa dar luogo a inconvenienti applicativi della normativa di risulta, nemmeno nel caso di votazione favorevole ad entrambi. Il risultato del referendum sub I) sarebbe allora assorbito dal risultato del referendum sub Il) (sent. n. 26 del 1981).

E vero che la norma residua ammetterebbe indiscriminatamente ai benefici del titolo III della legge qualsiasi gruppo di lavoratori autoqualificantesi »rappresentanza sindacale aziendale , senza alcun controllo del grado di effettiva rappresentatività. Ma il legislatore potrà intervenire dettando una disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata, improntata a modelli di rappresentatività aziendale compatibili con le norme costituzionali e in pari tempo consoni alle trasformazioni sopravvenute nel sistema produttivo e alle nuove spinte aggregative degli interessi collettivi dei lavoratori (cfr. sentenza n. 30 del 1990).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi dichiara ammissibili: l) la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale dell'art. 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), iscritta al n. 60 reg. ref., nei termini indicati in epigrafe, dichiarata legittima dall'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 9 dicembre 1993;

2) la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale dell'art. 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, iscritta al n. 61 reg. ref., nei termini indicati in epigrafe, dichiarata legittima dall'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 9 dicembre 1993;

3) la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione dell'art. 47 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), iscritta al n. 62 reg. ref., nei termini indicati in epigrafe, dichiarata legittima dall'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 9 dicembre 1993.

 
Argomenti correlati:
stampa questo documento invia questa pagina per mail