E' bene aver completato la cessione dell'Ina. ma perchè lo Stato
rallenta su eni, Enel e Stet?
di Riccardo Franco Levi - articolo tratto da Panorama 12/10/95
Chi si accontenta gode. Può darsi che non sia molto elegante, ma è
questo il commento che meglio si presta a riassumere il senso della
vendita dell'Ina, dopo quella dell'Imi la seconda privatizzazione del
governo Dini. L'uscita dello Stato da un settore, quello delle
assicurazioni, nel quale nulla più giustificava la presenza
dell'operatore pubblico costituisce di per sé un avvenimento felice.
Il fatto poi che nel vendere l'Ina il Tesoro sia riuscito a evitare
alcuni degli aspetti più criticabili della privatizzazione dell'Imi,
quali le partecipazioni incrociate con il gruppetto delle banche
destinate a formare il nucleo centrale dell'azionariato stabile (Imi,
cariplo, San Paolo), offre un ulteriore elemento di soddisfazione.
Il compiacimento, però, termina qui. E non solo perchè, esattamente
com'era successo nel caso dell'Imi, tra i nuovi soci ci sono banche
tuttora sostanzialmente pubbliche.
Il motivo di maggiore soddisfazione deriva dal fatto che soltanto una
fiducia spinta sino al limite della cecità può consentire di
considerare la vendita dell'Ina come l'avvio di una concreta e
credibile stagione di privatizzazioni. Una stagione, per intenderci,
simile a quella che, sotto il governo di carlo azeglio Ciampi, portò,
nel giro di pochissimi mesi alla vendita della Nuova Pignone, del
Credito italiano, della banca commerciale, all'avvio delle
privatizzazioni dell'Imi e dell'Ina e della definitiva uscita dello
Stato dal settore alimentare e dalla siderurgia, e che contribuì in
modo decisivo a ristabilire la credibilità internazionale dell'Italia
e a ridurre lo scarto tra i tassi d'interesse sulla lira e quelli sul
marco tedesco a poco più del 2,5 per cento (oggi siamo a più del
doppio).
Dopo la società di assicurazioni presieduta da Sergio Siglienti, forse
già entro la fine di quest'anno sraà ceduto - così ha comunicato il
governo - il 10 per cento dell'Eni. Per quanto apprezzabile sia
l'apertura al mercato dell'ente energetico, è ben chiaro che, col 90
percento del capitale ancora saldamente in mano allo Stato, a tutto
potrà l'Eni assomigliare meno che a un'azienda privata.
Quanto alla privatizzazione delle due grandi società dei servizi
pubblici, l'Enel e la Stet, pudore vuole che di esse, dopo i tanti
impegni a vuoto, si torni a parlare solo quando ce ne saranno
effettivamente le condizioni. Quando, cioè, non solo saranno state
definitivamente approvate e istituite le speciali autorità di
controllo, ma, soprattutto, sarà stata fatta chiarezza politica sugli
obiettivi che si vogliono perseguire e, di riflesso, sugli assetti non
solo proprietari ma anche organizzativi che intendono adottare.
A cupe considerazioni muove, poi, la vicenda della Aeroporti di Roma,
una società che nessun vincolo di legge impedisce più diprivatizzare
ma che l'Iri si è limitato a passare da una tasca all'altra del
proprio cappotto, trasferendo la proprietà da un'Alitalia in stato
quasi comatoso e in trasparente bisogno di ossigno a una propria
fimnanziaria, la Cofiri, alla quale sarebbe stato affidato il compito
di cederla agli investitori privati entro tre anni.
E che dire della Società Autostrade, azienda quanto mai appetibile e
facilemente collocabile sul mercato, della cui vendita nessuno parla
più?
Dallo scorso agosto, da quando le quotazioni di un mercato dei cambi
ridotto ai minimi termini dalle ferie, influenzato dall'afflusso della
valuta dei turisti stranieri e dominato da un dollaro in forte ripresa
hanno indotto un irragionevole sentimento di euforia sullo stato di
salute della lira, si è ripreso a parlare di un ritorno della moneta
italiana nello Sme. Tutto fa pensare che almeno per il momento si
tratti di un obbiettivo fuori portata. In ogni caso, cedere alle
pressioni a favore del mantenimento dell'impresa (e della banca)
pubblica non fa che allontanarlo ulteriormente.